Approfondiamo e… riflettiamo – 8 giugno 2018

Ci sono interventi di grandi personaggi che ci possono aiutare nella riflessione, dal momento che oggi siamo tutti poco abituati a leggere e riflettere. Noi in questa rubrica desideriamo proporre ai nostri lettori alcune chicche di pensiero, che ci vengono offerte naturalmente da menti illuminate. Gli argomenti sono i più diversi, ognuno potrà trovare, di volta in volta, il brano su cui riflettere. Leggete con attenzione e approfondite…

Aggiornamento dell’8 giugno 2018

AeR – om – papa-francesco_Lettera su -Dare il meglio di sè-
AeR – om – Dare_il_meglio_di_se___web
AeR – om – INTRODUZIONE A – Dare il meglio di sé

Aggiornamento del 2 febbraio 2018

AeR – Presentazione – 30 Rapporto EURISPES 2018
AeR – Eurispes_Sintesi_Rapporto_Italia_2018
AeR – Indicazioni – 30 Rapporto EURISPES 2018

Aggiornamento del 3 marzo 2017

AeR – Quaresima 2017
AeR – Quando il diavolo si avvicina e sussurra
AeR – Papa Francesco- Quaresima tempo di speranza
AeR – papa-francesco_messaggio-quaresima 2017
AeR – Capire la Quaresima – 2017

L’Ancora nell’Unità di Salute
Vi presentiamo questo primo numero 2017 della rivista con degli articoli molto interessanti da approfondire……….
Gennaio – febbraio
2017 anno XXXVI
a cura della Redazione
4 Editoriale
INDICE AUS 1/2017
Italo Monticelli 6 Evangelii gaudium: sguardo
SFOGLIA QUESTE PAGINE E APPROFONDISCI
GCar – AeR – ANCORA NELL’UNITA’ DI SALUTE n. 1 – 2017

Aggiornamento del 16 febbraio 2017

Inizio Quaresima 2017

Con il 1° Marzo inizia il periodo di Quaresima che ci condurrà alla celebrazione della Pasqua 2017, Domenica 16 Aprile. Per immedesimarci nel periodo e per riflettere in modo adeguato su molte tematiche emergenti, vi proponiamo alcuni articoli e documenti di una certa importanza.

Vi offriamo alcune proposte di approfondimento e lettura che ci vengono offerte da Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale del malato (11 Febbraio 2017);

A queste si aggiungono alcuni interventi di Papa Francesco in preparazione alla Quaresima;

A queste due ricorrenze e tematiche aggiungiamo gli interventi rivolti alle persone consacrate, in occasione della loro festa (2 Febbraio).

AeR – LE BEATITUDINI nel Vangelo

AeR – La Parola è un dono – Quaresima 2017

AeR – Il peccato non è rompere una norma

Aggiornamento dell’1 febbraio 2017

ALCUNI SPUNTI PER CONTINUARE IL NOSTRO DIALOGO SUL WEB OGNISSANTI….

Mi pare importante continuare le proposte di lettura e riflessione sul nostro sito con alcuni approfondimenti su tematiche sempre di attualità. La prima proposta è quella che riguarda il dialogo ecumenico fra i cristiani a 500 anni dalla Riforma Luterana con un parallelismo fra le diverse teorie religiose e un secondo articolo che ci porta a riflettere sull’“Ecumenismo” oggi, in un mondo pervaso dalla paura dell’Islam. Pertanto vi propongo anche una lettura sui “Nodi teologici del dialogo ecumenico”. Quindi l’anniversario della morte di Guzman, fondatore dei Domenicani, ci induce a rileggere alcuni tratti di questo pensatore e religioso.

Infine voglio farvi leggere qualcosa di più leggero, ma sempre con un pizzico di intelligenza e perspicacia, per scoprire un significato diverso da dare ad un classico della letteratura “Moby Dick” la balena bianca…..

01 febbraio 2017    La redazione

AeR – 500 anni dopo Lutero

AeR – Ecumenismo – Verso Teologia Religioni

AeR – Nodi teologici del dialogo ecumenico

AeR – Anniversario Guzman – I Domenicani

AeR – Radici Bibliche di Moby Dick

Aggiornamento del 15 gennaio 2017

ulp – AeR – 1 – Bauman Introduzione web Ognissanti

ulp – AeR – 2 – Il pensiero di Bauman

ulp – AeR – 3 – Un libro di Bauman – Speranza Buona notizia

ulp – AeR – 4 – La fede nei Giovani – Bauman

ulp – AeR – 5 – Il dioalogo vera rivoluzione – Bauman

ulp – AeR – 7 – Io disabile – Bauman ulp – AeR – 6 – Contro l’Europa del sospetto- Bauman

ulp – AeR – 8- Cari top manager – Bauman

Aggiornamento del 26 dicembre 2016

50^ GIORNATA DELLA PACE

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
L GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 

1° GENNAIO 2017

 La nonviolenza: stile di una politica per la pace

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Nel Messaggio di papa Francesco per questa giornata emergono alcuni concetti chiave che egli vuole proporre alla nostra riflessione, ve li riportiamo così come sono risultati evidenti ad una nostra prima lettura.

Vi invitiamo a leggere:

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Alcuni appunti in evidenza

In questa occasione desidero soffermarmi sulla nonviolenza come stile di una politica di pace e chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali.

Il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi.

guerre in diversi Paesi e continenti; terrorismo, criminalità e attacchi armati imprevedibili; gli abusi subiti dai migranti e dalle vittime della tratta; la devastazione dell’ambiente. A che scopo?

grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo.

La Buona Notizia

Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive»

Quando impedì a coloro che accusavano l’adultera di lapidarla (cfr Gv 8,1-11) e quando, la notte prima di morire, disse a Pietro di rimettere la spada nel fodero (cfr Mt 26,52), Gesù tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia

Essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza.

«La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. L’amore del nemico costituisce il nucleo della “rivoluzione cristiana”». (Benedetto XVI)

Più potente della violenza

La nonviolenza è talvolta intesa nel senso di resa, disimpegno e passività, ma in realtà non è così.

Madre Teresa ricevette il premio Nobel per la Pace nel 1979, e dichiarò «Nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e di armi, di distruggere per portare pace, ma solo di stare insieme, di amarci gli uni gli altri […] E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo». «Mentre i trafficanti di armi fanno il loro lavoro, ci sono i poveri operatori di pace che soltanto per aiutare una persona, un’altra, un’altra, un’altra, danno la vita»;

La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati.

Né possiamo dimenticare il decennio epocale conclusosi con la caduta dei regimi comunisti in Europa. Le comunità cristiane hanno dato il loro contributo con la preghiera insistente e l’azione coraggiosa.

un cambiamento epocale nella vita dei popoli, delle nazioni e degli Stati si realizza «mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia»

La Chiesa si è impegnata per l’attuazione di strategie nonviolente di promozione della pace in molti Paesi, sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura.

Questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose, per le quali «la compassione e la nonviolenza sono essenziali e indicano la via della vita».

La radice domestica di una politica nonviolenta

Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia.

Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.[17] D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari:

Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.

L’anno giubilare ci ha fatto prendere coscienza di quanto numerosi e diversi siano le persone e i gruppi sociali che vengono trattati con indifferenza, sono vittime di ingiustizia e subiscono violenza. Essi fanno parte della nostra “famiglia”, sono nostri fratelli e sorelle. Per questo le politiche di nonviolenza devono cominciare tra le mura di casa per poi diffondersi all’intera famiglia umana.

Il mio invito

Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Questo è anche un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo: applicare le Beatitudini nel modo in cui esercitano le proprie responsabilità.

 Operare in questo modo significa scegliere la solidarietà come stile per fare la storia e costruire l’amicizia sociale.

Il 1° gennaio 2017 vede la luce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aiuterà la Chiesa a promuovere in modo sempre più efficace «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e della sollecitudine verso i migranti, «i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura»

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Aggiornamento del 23 dicembre 2016

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Aggiornamento del 13 dicembre 2016

BUON FINE ANNO 2016

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E UN AUGURIO DI OGNI FELICITÀ PER IL 2017

AI LETTORI DEL WEB OGNISSANTI

 

13 Dicembre 2016 – S. Lucia

Quale messaggio di fine anno 2016 la redazione Web Ognissanti vi lascia alcuni articoli “forti” su problematiche che da molto tempo, troppo, ci accompagnano e ci interpellano nella quotidianità.

In primo luogo il problema “fame e malnutrizione”; collegato a questo è ancora aperta la situazione “disperata” dell’infanzia nel mondo. Per questo pubblichiamo un “rapporto dettagliato ed aggiornato dell’UNICEF”.

In terza istanza vi presentiamo un rapporto sulla “Libertà religiosa nel mondo” che stride con l’aumentare, in forma esponenziale, delle “dittature” e delle “prevaricazioni politiche, ideologiche e religiose”.

Da ultimo vogliamo riflettere sulla situazione, nel mondo, della Chiesa Cattolica e delle sue strutture.

Vi alleghiamo i seguenti documenti di approfondimento:

aer-obiettivo-fame-zero-ancora-lontano-indice-globale-della-fame-2016

aer-rapporto-unicef-2016

aer-50-milioni-i-bambini-sradicati-rapporto-unicef-sui-minori-migranti-e-rifugiati

aer-condizione_infanzia_nel_mondo_2016

aer-le-statistiche-della-chiesa-cattolica-2016

aer-abbiamo-bisogno-di-laici

aer-la-liberta-religiosa-nel-mondo-il-rapporto-2016

aer-rapporto-su-liberta-religiosa-mondo-2016

Aggiornamento del 22 novembre 2016

Misericordia et Misera: perdonando, trasforma e cambia la vita

Luca Roncolato | 22 novembre, 2016

aer-misericordia-et-misera-perdonando-trasforma-e-cambia-la-vitaÈ stata pubblicata oggi la lettera apostolica“Misericordia et Misera” con la quale Papa Francesco da un lato ha voluto riassumere questo Anno Santo della Misericordia e dall’altro ha voluto allargare l’orizzonte al futuro, poiché, come già aveva affermato ieri, “anche se si chiude la Porta santa, rimane sempre spalancata per noi la vera porta della misericordia, che è il Cuore di Cristo“. È in tal senso che va letta tutta la lettera apostolica, nella quale il Papa ricorda che “il centro non è la legge ma l’amore di Dio“.

È significativo fin dall’inizio della lettera come Francesco ci inviti a toccare con mano la carne di Cristo evitando i pensieri astratti: a tal fine Bergoglio usa l’immagine dell’incontro tra Gesù e l’adultera, nella quale già San Agostino diceva che “non s’incontrano il peccato e il giudizio in astratto, ma una peccatrice e il Salvatore” ovvero “la misera e la misericordia”, come appunto recita il titolo della lettera apostolica.

È proprio la risposta che da Gesù alla domanda trabocchetto che gli viene posta dagli scribi, che vogliono metterlo in difficoltà chiedendo lui se si debba lapidare la donna, come prescrive la Legge, oppure se si debba usarle misericordia non rispettando la Legge, che ci indica come Dio non sia interessato a un rispetto formale e vuoto della legge, ma miri direttamente al cuore della legge.

Dio sa leggere nel cuore di ogni persona ed è proprio questa capacità che gli permette di capire se vi è il vero pentimento, che apre le porte alla salvezza, o meno. È proprio quanto fa Gesù, il quale “ha guardato negli occhi quella donna e ha letto nel suo cuore: vi ha trovato il desiderio di essere capita, perdonata e liberata”.

Non c’è legge né precetto che possa impedire a Dio di riabbracciare il figlio che torna da Lui riconoscendo di avere sbagliato, ma deciso a ricominciare da capo. – spiega il Papa – Fermarsi soltanto alla legge equivale a vanificare la fede e la misericordia divina“.

È sulla base di questa riflessione che Francesco, pur ribadendo la gravità di un peccato come quello dell’aborto, nel quale si pone fine a una vita innocente, ha voluto per mezzo della lettera apostolica “Misericordia et Misera” concedere a tutti i sacerdoti la facoltà di perdonare per il peccato di aborto.

Nessuno di noi può porre condizioni alla misericordia; essa rimane sempre un atto di gratuità del Padre celeste, un amore incondizionato e immeritato. – ha commentato il Santo Padre – Non possiamo, pertanto, correre il rischio di opporci alla piena libertà dell’amore con cui Dio entra nella vita di ogni persona. La misericordia è questa azione concreta dell’amore che, perdonando, trasforma e cambia la vita”.

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aer-papa-francesco_omelia-chiusura-giubileo
aer-papa-francesco-lettera-ap_misericordia-et-misera

Aggiornamento del 29 agosto 2016

AeR – Quaderno di Ventotene 9 con copertina DEFINITIVO

Aggiornamento 30 luglio 2016

Il sito web Ognissanti non vi lascia soli in estate…………

Vi proponiamo alcune letture di approfondimento e riflessione che ci vengono suggerite da diversi avvenimenti di attualità, ad esempio la Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia dal 21 al 31 Luglio 2016. Le parole e i gesti di Papa Francesco sono particolarmente indicate per un’attenzione ai fatti di cronaca di oggi. Vi proponiamo degli stralci di letture ricavati dalle giornate di Bergoglio a Cracovia e da alcuni approfondimenti della rivista “Limes” sulla Chiesa rivolta alle periferie. Ecco gli articoli che vi proponiamo….

AeR – 1° Chiesa fuori da se stessa

AeR – 2° Chiesa fuori da se stessa

AeR – 3° Chiesa fuori da se stessa

AeR – GMG 2016 Cracovia – Discorsi di Papa Francesco

 

Aggiornamento del 7 luglio 2016

AeR – Riccardi 2^ parte

Aggiornamento del 5 luglio 2016

LA CHIESA E LE PERIFERIE: un tema scottante molto attuale ma poco vissuto, anche se percepito, nelle nostre comunità cristiane.

Mi hanno interessato e coinvolto molto due articoli letti sulla Rivista mensile “Limes”, n. 4 di Aprile 2016, che riportava come titolo monografico del suo approfondimento “Indagine sulle periferie”. L’argomento mi ha molto preso e fatto riflettere, soprattutto con gli articoli a firma di Andrea Riccardi e Gianni Valente. Tutti e due si interrogano sul rapporto far la Chiesa e le periferie. Infatti la situazione di molte delle nostre megalopoli, quali Napoli, Roma, Milano, Torino, Genova…. che soffrono della disastrosa situazione economico-sociale delle loro periferie, è veramente grave e deve interrogare seriamente i cristiani di oggi e la Chiesa.

Ma non voglio parlare solo delle periferie delle grandi “città metropolitane”, come sono state definite e ridisegnate dalla recente legislazione, ma mi voglio riferire alla situazione di molte delle nostre città, anche di media grandezza (10/20/25.000 abitanti), che soffrono di quanto Papa Bergoglio dice riguardo al rapporto tra la Chiesa e le periferie. Per questo desidero proporre alla riflessione dei nostri lettori del sito web parrocchiale i due articoli di cui fatto cenno all’inizio.

Il primo intervento è di Andrea Riccardi

Andrea Riccardi è uno storico, accademico, attivista e politico italiano, fondatore nel 1968 della C omunità di Sant’Egidio. Dal 22 marzo 2015 è Presidente della Società Dante Alighieri. Ha insegnato, come professore ordinario, Storia Contemporanea all’Università di Bari, alla Sapienza e alla Terza Università degli Studi di Roma.

Numerose Università lo hanno insignito con la laurea honoris causa: l’Università Cattolica di Lovanio (Belgio), l’Università Card. Herrera – CEU di Valencia (Spagna), la Georgetown University di Washington (USA), l’Università di Augsburg (Germania), l’Università Jean Moulin Lyon 3 (Francia) (« en raison de services éminents à la paix et à l’Université »).

Riccardi è noto anche per essere stato il Fondatore, nel 1968, della Comunità di Sant’Egidio. Sant’Egidio oltre che per l’impegno sociale e i numerosi progetti di sviluppo nel Sud del mondo, è conosciuta per il suo lavoro a favore della pace e del dialogo. In particolare, Riccardi ha avuto un ruolo di mediazione in diversi conflitti e ha contribuito al raggiungimento della pace in alcuni Paesi, tra cui il Mozambico, il Guatemala, la Costa d’Avorio, la Guinea. La rivista “Time” nel 2003 lo ha inserito nell’elenco dei trentasei “eroi moderni” d’Europa, che si sono distinti per il proprio coraggio professionale e impegno umanitario.

Esperto del pensiero umanistico contemporaneo, è voce autorevole del panorama internazionale.

AeR – Riccardi 1^ Parte 1-3

AeR – Riccardi 1^ Parte 4-5

Aggiornamento del 20 giugno 2016

ALCUNE PROPOSTE PER UN APPROFONDIMENTO PERSONALE

20 Giugno 2016

Per questo mese di giugno che ormai volge al termine, prima di aprire la stagione delle vacanze, desideriamo proporvi alcuni argomenti sui quali riflettere per comprendere meglio quanto sta accadendo. Sembra infatti che tutto ci stia venendo addosso senza poterci far niente, quindi convinti di dover subire senza possibilità d’intervenire in modo fattivo e partecipato. Quindi vi vogliamo proporre una riflessione di Mons. Bagnasco che affronta alcune tematiche forti e pressanti che assillano la società e i singoli in questi mesi.

AeR – I TEMI AFFRONTATI DAL CARDINALE BAGNASCO

Altro motivo di approfondimento ci viene offerto da Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale del Migrante. Oggi più che mai la lettura di questa parola del papa ci può orientare per capire cosa sta avvenendo in Europa, continente ricco, che con i suoi 500 milioni di abitanti, nei 28 paesi della Comunità Europea, è chiamato all’accoglienza di 1 milione di profughi che dalle regioni martoriate dell’Africa stanno raggiungendo i nostri territori.

AeR – MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO

«Migranti non sono pedine nello scacchiere dell’umanità »

Gli appuntamenti del giubileo ci portano a conoscere un’altra triste realtà che fa parte della nostra società, ed è quella dell’handicap, della disabilità, che nonostante i progressi della scienza in molti campi, continuano a pesare sulle spalle di molte famiglie.

AeR – Omelia papa Francesco_convegno-disabili

AeR – papa-francesco_20160612_omelia-giubileo-ammalati-disabili

AeR – Il Papa ai malati e disabili

Aggiornamento del 25 aprile 2016

Papa Francesco il 19 Marzo 2016 ha firmato la sua Esortazione Apostolica sulla famiglia…….

Domenica 17 aprile 2016

nella solennità di S.Giuseppe ed è stata emanata il 9 Aprile; “Amoris Laetitia” è stata accolta dal mondo cattolico e non come una sintesi del Sinodo sulla famiglia, una riflessione sulla famiglia appunto e i suoi valori più intrinseci, una proposta di analisi delle problematiche legate alla vita delle famiglie.

Proprio per questo, insieme al testo dell’Esortazione Apostolica, pubblichiamo …..

  1. una raccolta di riflessioni emerse a caldo nei mass media News – AeR – SINTESI Santa Sede – Amoris laetitia;

  2. Uno stralcio del documento papale contenente “L’INNO ALLA CARITA?” di S.Paolo, con un’interpretazione straordinaria di papa Francesco News – AeR – Nel cosiddetto inno alla carità di S.Paolo;

  3. La preghiera alla Santa Famiglia di Nazareth composta da papa Francesco a conclusione di questa Esortazione apostolica News – AeR – Preghiera alla Santa Famiglia;

  4. ed infine……………. alcune pagine di Famiglia Cristiana che si soffermano su questo “abbraccio ideale della Chiesa con tutte le famiglie, nessuna esclusa”.

Aggiornamento del 6 aprile 2016

AeR – Prolusione Bagnasco – marzo 2016

AeR – La violenza dei simboli

AeR – La vicenda degli psicologi

Aggiornamento del 11 marzo 2016

E I GIOVANI dove sono???? Per loro il volontariato può essere un campo di im­pegno!?

OM – AeR – E I GIOVANI dove sono

OM – AeR – giovani volontariato in Italia

Aggiornamento del 7 marzo 2016

UN MONDO CHE STA CAMBIANDO VELOCEMENTE, NELLE CULTURE, NELLA GEOPOLITICA, NELL’ECONOMIA………………… COME ORIENTARSI???????

È una delle certezze di cui tutti siamo a conoscenza senza ombra di dubbio. Tutti siamo coscienti che gli avvenimenti degli ultimi anni, degli ultimi mesi, sono frutto di un rapido e ineluttabile cambiamento epocale degli aspetti fondanti della nostra esistenza. Negli articoli che seguono si affronta il problema della così definita “Terza guerra mondiale …. a pezzi” che coinvolge aree, e nazioni ben definite del nostro pianeta, ma che direttamente o indirettamente chiama in causa ognuno di noi. Come difenderci?! Uno degli strumenti a nostra disposizione è “essere informati”, “essere a conoscenza di ciò che sta avvenendo”, “renderci conto che anche la nostra singola esistenza è inserita in un ingranaggio, o meglio in ingranaggi più grandi noi, planetari……..”. Quindi anche una semplice lettura di alcune argomentazioni, presentateci da alcuni studiosi, possono aiutarci a districarci in questo dedalo di problematiche.

Vi proponiamo quindi:

un articolo/ricerca sulla visione di Dio nei giovani d’oggi

di Paola Bignardi AeR – bignardi_dioamodomio_conclusioni

Le guerre in corso AeR – Guerre

Alcune note su un autore che spesso, nei suoi libri, ha ragionato sull’uomo e la guerra

di MASSIMO RAFFAELI AeR – La guerra di Fenoglio

di Giuseppe O. Longo AeR – Vale più la sicurezza o la libertà

sfida da veri cristiani di GABRIELLA COTTA AeR – Postmoderno

Aggiornamento del 28 febbraio 2016

AeR – I 10 anni dalla Deus caritas est

AeR – LETTERA ENCICLICA – Deus Caritas est

Troppe sono le paure che ci attanagliano in questo mondo frammentato e liquido, come qualche studioso, lo ha definito. Non abbiamo più certezze che ci rassicurino, che ci facciano vivere tranquilli. La proposta di alcuni brani qui di seguito riportati, vuole offrirti un supporto spirituale al desiderio di vivere con serenità la tua vita. Inoltre desidera offrirti una chiave di lettura di quanto il mondo d’oggi ci presenta in ogni campo. L’immigrazione selvaggia, la violenza gratuita, la mancanza di rispetto per la vita dell’altro… alcune indicazioni ci possono venire dagli articoli qui allegati…

AeR – Via la paura dell altro

AeR – Quaresima – i peccati su internet

AeR – Prodi – disuguaglianze e stagnazione

AeR – Alzheimer

Aggiornamento del 2 febbraio 2016

QUARESIMA DELLA MISERICORDIA GIUBILARE 2016

Web Ognissanti suggerisce alcune letture per il tempo di Quaresima del Giubileo della Misericordia. Ma seguiteci anche nel prossimo numero del Bollettino Parrocchiale nel quale continueremo con i nostri articoli sull’Anno Santo della Misericordia.

Ora qui pubblichiamo alcuni appuntamenti che sono pensati in preparazione alla quaresima che incomincerà Mercoledì 10 Febbraio con “Le Ceneri” e proseguirà fino alla Domenica di Pasqua del 27 Marzo.

Vi proponiamo:

Il messaggio di Papa Francesco per la quaresima G.AS – Messaggio x Quaresima 2016 curato da N. Gasparotto

I prossimi appuntamenti con riflessioni sulla misericordia con don Dario Vivian AeR – VOLANTINO INCONTRI GIUBILEO DARIO V.

Gli appuntamenti in vicariato per il Festival Biblico (19 – 29 Maggio 2016 ) AeR – FESTIVAL BIBLICO XII EDIZIONE A VICENZA 19-29 maggio 2016

Un articolo sulla tenerezza di Dio G.AS – Non abbiate paura della tenerezza

Aggiornamento del 12 gennaio 2016

Mondo travagliato ma amato da Dio…………………………..

Con queste parole di Papa Francesco riprendiamo l’aggiornamento del nostro sito nel quale oggi pubblichiamo una sintesi dei fatti salienti che hanno interessato l’anno ormai trascorso e sintetizziamo le prospettive future per il 2016. A questo alleghiamo l’interessante discorso che Papa Francesco a tenuto al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per gli Auguri per l’anno appena iniziato. In esso il Pontefice affronta molti aspetti scottanti della società d’oggi e propone agli stati soluzioni equilibrate e a vantaggi dei più svantaggiati.

AeR – Avvenimenti 2015 e progetti 2016

AeR – MONDO TRAVAGLIATO

Aggiornamento del 23 dicembre 2015

1° Gennaio 2016 “Giornata Mondiale della Pace”

Il messaggio di papa Francesco e doppiamente intenso e significativo perché ci richiama ai venti di guerra che soffiano in molte parti del mondo, poco tempo fa ha chiamato questo stato di cose “la terza guerra mondiale”. Il suo messaggio quindi ci scuote dall’indifferenza, dall’apatia e ci richiama ai molti gesti concreti di compassione che possiamo fare, ogni giorno. Il secondo motivo di richiamo e l’anno straordinario del “Giubileo della misericordia” e al suo motto “Misericordiosi come il Padre”. Riportiamo qui di seguito il testo integrale del messaggio di Papa Francesco per la 49a Giornata Mondiale della Pace.

G.AS – La parola materna che non conosce legge(1)

Aggiornamento dell’1 novembre 2015

AeR-GENDER-in-AVVENIRE-

Aggiornamento del 5 ottobre 2015

AeR – Nullità del matrimonio

AeR – La riforma della dichiarazione di nullità del matrimonio

AeR – comunità cristiana una famiglia che accoglie

Aggiornamento del 6 settembre 2015

Introduzione sul tema “Gender” e un lavoro di sintesi sul testo che viene raccomandato dal Vescovo.

AeR – La questione Gender- INTRODUZIONE

AeR – La questione Gender- SINTESI due capitoli

Aggiornamento del 5 settembre 2015

AeR – Beltrame e la Grande Guerra
AeR – La fede è il cuore di tutta la storia di Maria
AeR – Economia – no accumulazione
AeR – I due grandi doni
AeR – Parrocchia generatrice di fede

Aggiornamentodel 5 agosto 2015

AeR – ulp – Quando la bellezza giudicherà il bene

Aggiornamento del 24 luglio 2015

Parole per la felicità

Con questo titolo si presenta la serie di interventi che Enzo Bianchi ha fatto per proporre al suo pubblico una riflessione seria e continua sulle “Beatitudini”, ma innanzitutto vediamo quali sono:

LE BEATITUDINI DAL VANGELO SECONDO MATTEO (5,1-12)

1 Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli.

2 Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

3 “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

4 Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

5 Beati i miti, perché erediteranno la terra.

6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

10 Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

ALCUNE RIFLESSIONI GENERALI

Parlando più precisamente delle beatitudini in Matteo, possiamo dire che:

Sono la proposta di Dio di vivere in comunione con Lui, di partecipare alla vita stessa della Trinità.

Le beatitudini non sono delle cose da fare, né dei frutti di ascesi o di sforzo solo nostro. Sono la conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. È lo Spirito che ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi… La nostra opera consiste nella fede, cioè nell’accogliere l’azione dello Spirito in noi.

Le beatitudini sono la vita stessa di Cristo, Lui le ha vissute. Per questo, il nostro aderire ad esse ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce strettamente a Lui, ci pone alla sua sequela. È proprio questo il compito dello Spirito: di insegnarci a seguire Cristo, ad entrare nei suoi sentimenti.

Le beatitudini non sono anzitutto categorie sociali.

Disegnano la scelta fondamentale, la disposizione della persona ad aderire alla realtà vivente del Dio dell’alleanza. Persone che vivono la povertà, la mitezza, persone che patiscono afflizione non per condizione di vita ma per fedeltà a Dio e all’uomo. Il dolore di chi vede che l’uomo non accoglie Dio, non accetta il suo amore, lo rifiuta. Il dolore per solidarietà al dolore dell’umanità. Le beatitudini comunque hanno una ricaduta sociale, perché colgono l’uomo nella situazione concreta di povertà, di afflizione ecc. che viene riletta e illuminata nella fede.

Le beatitudini sono in ordine ascendente: il culmine sono gli operatori di pace… ma tutte sono contenute in tutte. Per es.: opero la pace con atteggiamenti di povertà, di mitezza, di misericordia, di giustizia… E viceversa.

Il Signore vuole che realmente collaboriamo con lui, dove la Sua e la nostra azione si incontrano.

Inoltre, il premio delle beatitudini è Dio stesso: è lui la sazietà della nostra fame, la terra, la misericordia, il Regno…: è la beatitudine, la vera felicità. Possiamo accostare le beatitudini ai doni dello Spirito Santo e alle virtù: è l’itinerario integrale del credente.

I piccoli e i poveri, ospiti privilegiati alla mensa del Regno annunciata dall’Eucaristia, ci sono maestri nella vita secondo lo spirito delle beatitudini.

Sapremo farci piccoli a nostra volta? Discepoli che apprendono? Donne e uomini della sequela di Gesù Cristo, povero, mite, seminatore di pace, misericordioso, puro di cuore, perseguitato?

Vi proponiamo le seguenti letture: (in PDF)

AeR – Parole per la felicità – 1: Beati i poveri in spirito

AeR – Parole per la felicità – 2: Beati quelli che sono nel pianto

AeR – Parole per la felicità – 3: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia

AeR – Parole per la felicità – 4: Beati i miti

AeR – Parole per la felicità – 5: Beati gli operatori di pace

AeR – Parole per la felicità – 6: Beati i puri di cuore

Aggiornamento del 4 luglio 2015

Le beatitudini / Prediche – 04 Luglio 2015

a cura dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia in collaborazione con Spoleto58 Festival dei 2Mondi e con il patrocinio del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione

«Una felicità “autentica, adeguata e totale” – scrive Z. Bauman nel suo L’arte della vita – sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci ad esso».

L’uomo vive continuamente in una ricerca quasi spasmodica della felicità, la rincorre in mille modi e su mille strade. Con il rischio anche di farsi male con le sue stesse mani… E quando crede di aver trovato la felicità, scopre che la sua sete non è pienamente appagata e vede la meta allontanarsi sempre più. 

Con il “discorso della montagna”, Gesù di Nazareth suggerisce un percorso per raggiungere una pienezza di conoscenza, una pienezza di vita, una pienezza di felicità, e pretende dare risposta alla ricerca dell’uomo. Il Vangelo dice che le beatitudini costituiscono il cammino più breve e più facile e allo stesso tempo il più difficile ed esigente, perché «è angusta la via che conduce alla vita» (Mt 7, 14). 

Ma tutto ciò ha ancora significato per chi vive nel terzo millennio? Davvero – oggi – chi è povero in spirito, piange, ha fame e sete della giustizia, è mite, costruisce la pace, è misericordioso, può essere felice? E, caso mai, cosa bisognerebbe fare per raggiungere una tale meta?

Dopo i vizi capitali, le opere di misericordia, i doni dello Spirito Santo, temi delle “prediche” delle ultime edizioni, quest’anno il Festival dei 2Mondi propone di riascoltare da voci diverse questo particolare “itinerario”, che si presenta quasi come una sfida all’uomo moderno. 

+ Renato Boccardo

Programma

VENERDÌ 27 GIUGNO ORE 17.00

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli

Fr. Enzo Bianchi, Priore di Bose

SABATO 28 GIUGNO ORE 17.00

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati

Dott. Salvatore Martinez, Presidente Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo

VENERDÌ 03 LUGLIO ORE 17.00

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati

Mons. Nunzio Galantino, Vescovo Segretario Generale della CEI Conferenza Episcopale Italiana

SABATO 4 LUGLIO ORE 17.00

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra

Card. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della cultura

DOMENICA 5 LUGLIO ORE 17.00

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio

P. Mauro Gambetti, Custode del Sacro Convento di Assisi

VENERDÌ 10 LUGLIO ORE 17.00

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio

Suor Cristina Cruciani, Pie Discepole del Divin Maestro

SABATO 11 LUGLIO ORE 17.00

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia

Mons. Renato Boccardo, Arcivescovo di Spoleto-Norcia

FRATE ENZO BIANCHI

Nato a Castel Boglione nel 1943, è priore della comunità monastica di Bose. “Esperto” nominato da papa Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla Parola di Dio (2008) e sulla Nuova evangelizzazione (2012), nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.  Opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa, la Repubblica e Avvenire, è autore di numerosi testi, tradotti in molte lingue, biblici, di spiritualità cristiana e sulla grande tradizione della Chiesa, scritti tenendo sempre conto del vasto e multiforme mondo di oggi.  

DOTTOR SALVATORE MARTINEZ

Laureato in Musicologia, è presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo dal 1997. È Consultore di tre Dicasteri Vaticani (Laici, Famiglia e Promozione Nuova Evangelizzazione). È presidente della Fondazione Vaticana “Centro Internazionale Famiglia di Nazareth” per lo sviluppo del Magistero della Famiglia nel mondo. Ha preso parte come Uditore al Sinodo sulla “Nuova Evangelizzazione”. È presidente di quattro fondazioni impegnate nel campo del disagio sociale. Ha pubblicato 26 libri. Collabora con riviste italiane e straniere, ha relazionato in 35 paesi su temi di natura spirituale.

MONSIGNOR NUNZIO GALANTINO

Nato a Cerignola nel 1948, dopo aver frequentato il Seminario diocesano di Ascoli Satriano, compie gli studi del ciclo istituzionale presso il Seminario Regionale di Benevento, conseguendovi il Baccalaureato in Teologia nel 1972. Prosegue gli studi presso l’Università di Bari, conseguendovi, nel 1974, la laurea in Filosofia e, nel 1974, l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole statali. Nel 1981 ottiene il Dottorato in Teologia Dogmatica presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Luigi di Napoli. Viene ordinato sacerdote il 23 dicembre 1972 per la diocesi di Cerignola – Ascoli Satriano. Fra gli incarichi pastorali più significativi da lui svolti: docente al Pontificio Seminario Regionale di Benevento(1974-1977); Vicario Episcopale per la Pastorale; Vicario Episcopale per la Cultura e la formazione permanente; dal 1977, docente di Storia e Filosofia nelle scuole pubbliche statali e docente di antropologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale dove ha tenuto corsi anche ai bienni di specializzazione in Teologia fondamentale e in Teologia dogmatica. Alla ricerca e all’insegnamento unisce da sempre il servizio pastorale come parroco (1977-2012) in Cerignola. Ha partecipato, in qualità di antropologo, al gruppo di ricerca internazionale per lo studio degli aspetti etico-antropologici e scientifici degli xenotrapianti. Ha seguito, presso la Conferenza Episcopale Italiana, l’attuazione del “Progetto di riordino della formazione teologica in Italia”. Dal 2004 è Responsabile del Servizio Nazionale per gli Studi Superiori di Teologia e di Scienze Religiose della CEI. È stato eletto Vescovo di Cassano all’Jonio il 9 dicembre 2011. È stato ordinato Vescovo il 25 febbraio 2012. Il 28 dicembre 2013 è stato nominato Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana ad interim. Il 25 marzo 2014 il Santo Padre lo ha nominato Segretario Generale ad quinquennium. È autore di numerosi volumi e saggi di carattere prevalentemente antropologico.

CARDINAL GIANFRANCO RAVASI

Cardinale, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Nato nel 1942 a Merate, esperto biblista ed ebraista, è stato Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano e docente di Esegesi dell’Antico Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. 

La sua vasta opera comprende circa centocinquanta volumi, riguardanti soprattutto argomenti biblici: edizioni curate e commentate dei Salmi, del Libro di Giobbe, del Cantico dei Cantici e di Qohelet. Molto noti al grande pubblico i libri: Breve storia dell’anima (Mondadori, 2003), Le sorgenti di Dio (San Paolo, 2005), Ritorno alle virtù (Mondadori, 2005), Le porte del peccato (Mondadori, 2007), 500 curiosità della fede (Mondadori, 2009), Questioni di fede (Mondadori 2010) e Le Parole del mattino (Mondadori 2011), Guida ai naviganti (Mondadori 2012), L’incontro, Esercizi Spirituali in Vaticano (Mondadori 2013), La Bibbia in un frammento (Mondadori 2013), Il cardinale e il filosofo e Le meraviglie dei Musei Vaticani (Mondadori 2014). Il Cardinale Ravasi collabora a giornali – per quindici anni al quotidiano Avvenire e attualmente a L’Osservatore Romano e a Il Sole 24Ore – e cura trasmissioni televisive, come la rubrica domenicale Le frontiere dello Spirito su Canale 5. Nel 2010 è stato annoverato tra i soci onorari dell’Accademia delle Belle Arti di Brera e insignito al contempo dell’Honoris Causa del Diploma di Secondo Livello in Comunicazione e Didattica dell’Arte. Ha ricevuto la Laurea honoris causa dall’Università di Bucarest nell’ottobre 2011 e dall’Università di Yerevan (Armenia) nel giugno 2011, e quella in Sacra teologia dall’Università Cattolica di Lublino e dalla Pontificia Università Lateranense nel 2012 e dall’Università Deusto di Bilbao nel marzo 2014. Inoltre il Cardinal Ravasi è dal 2013 Accademico onorario dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

PADRE MAURO GAMBETTI

Nato nel 1965 in provincia di Bologna, dopo la laurea in Ingegneria meccanica presso l’Università di Bologna, nel settembre 1992 è entrato nell’Ordine dei Frati Minori Conventali di cui ha professato definitivamente la regola e la vita nel settembre 1998. Dopo il Baccalaureato in Teologia presso l’Istituto Teologico di Assisi, ha conseguito la Licenza in Antropologia Teologica presso la Facoltà Teologica di Firenze. Ordinato presbitero nel gennaio dell’anno 2000, è stato Guardiano del Convento di Longiano (Forlì-Cesena) e, dalla primavera del 2009 Ministro provinciale dei conventi dei Frati Minori Conventuali dell’Emilia-Romagna. Il 22 febbraio 2013 è stato nominato Custode generale del Sacro Convento di San Francesco in Assisi per il quadriennio 2013-2017.

SUOR M. CRISTINA CRUCIANI

Appartiene all’Istituto Pie Discepole del Divino Maestro fondate dal B. Giacomo Alberione nella Famiglia Paolina. Vive a Roma, ma è originaria di San Severino M. Dopo aver conseguito la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, ha completato gli studi teologici specializzandosi al Pontificio Istituto Liturgico di Roma dove ha conseguito il grado di Licenza in Sacra Liturgia. Per 9 anni ha lavorato all’Ufficio Liturgico del Vicariato di Roma e nel frattempo ha insegnato in varie scuole. Da oltre 25 anni è responsabile della redazione del periodico di Liturgia edito dal suo Istituto “La Vita in Cristo e nella Chiesa” dove ha particolarmente curato la catechesi liturgica, biblica, inserti di arte sacra per la Liturgia. Ha svolto consulenza liturgica nei concorsi indetti dalla CEI per nuove chiese ed è membro della Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale, socio dell’APL dove è stata membro del Consiglio di Presidenza. Da molti anni organizza Corsi di formazione per laici e religiose dove mette a disposizione l’esperienza pastorale frutto dell’impegno nelle parrocchie accanto ai sacerdoti, agli animatori, catechisti, diaconi e ministri straordinari. Ha dato Corsi di Esercizi spirituali e Ritiri a religiosi e presbiteri.

MONSIGNOR RENATO BOCCARDO

Nato a S. Ambrogio di Torino il 21 dicembre 1952 e ordinato Sacerdote il 25 giugno 1977. Entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede nel 1982, presta la sua opera nelle Nunziature Apostoliche di Bolivia, Cameroun e Francia. Nominato Responsabile della Sezione Giovani del Pontificio Consiglio per i Laici il 22 luglio 1992. In questa veste coordina, tra l’altro, l’organizzazione e la celebrazione delle Giornate Mondiali della Gioventù di Denver (1993), Manila (1995), Parigi (1997) e Roma (2000), nonché il Pellegrinaggio dei Giovani d’Europa a Loreto (1995). Nominato Capo del Protocollo della Segreteria di Stato con incarichi speciali l’11 febbraio 2001 (responsabile dell’organizzazione dei viaggi apostolici del Sommo Pontefice). Nominato Vescovo titolare di Acquapendente e Segretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali il 29 novembre 2003. Nominato Segretario Generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano il 22 febbraio 2005. Promosso Arcivescovo di Spoleto-Norcia il 16 luglio 2009.

Ecco la sintesi delle prime 4 prediche di Spoleto in PDF

News – AeR – Spoleto 1 – CONDIVIDERE, gli umili di spirito

News – AeR – Spoleto 2 – La vera LETIZIA

News – AeR – Spoleto 3 La misura corretta d. GIUSTIZIA

News – AeR – Spoleto 4 – Mitezza la forza d. ragione

Aggiornamento del 7 giugno 2015

Un anno di rinnovamento interiore e di misericordia.

Stiamo vivendo un periodo che può scoraggiare e sconvolgere le menti e le coscienze. Ma è anche un momento che ha in sé una grande ricchezza che vale la pena saper cogliere nel verso giusto.

L’annuncio di Papa Francesco dell’indizione di un NUOVO ANNO SANTO a partire dall’8 Dicembre 2015 fino al 20 Novembre 2016, in concomitanza con il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Tema di richiamo per la cristianità in occasione di questo anno straordinario è la “MISERICORDIA” per un “rinnovamento” interiore.

È utile quindi che come cristiani ci disponiamo a cogliere la ricchezza di questi eventi che la Chiesa ci offre. Un aiuto può venire dagli articoli che vi vogliamo proporre di seguito, uno riguarda Vicenza e il suo Festival Biblico, appena concluso.

  1. AeR – Vicenza – Ecologia x uomo

  2. AeR – La fatica di guardare avanti

  3. AeR – La fame nel mondo scende sotto gli 800 milioni di persone

  4. AeR – L’ecologia quella per l’uomo

  5. AeR – Il messaggio della misericordia

  6. AeR – Cattolici glocal

Aggiornamento del 27 maggio 2015

IL LAVORO INTENSO DI EVANGELIZZAZIONE DI PAPA FRANCESCO

In queste ultime settimane si sono accentuati i “Discorsi e omelie” di Papa Francesco rivolti alle pià diverse categorie di persone, dalle famiglie, ai frati minori, ai lavoratori e imprenditori, senza dimenticare i giovani. Un filo rosso unisce le parole di Papa Francesco e le rende rivoluzionarie, “partire dagli ultimi, andare verso le periferie del nostro vivere quotidiano. Vi invito a leggere questi interventi del Santo Padre, perché toccano i temi emergenti della società di oggi. AeR – MESSAGGIO PER LA GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE 2015 AeR – Lavoro sia libero e creativo AeR – Il Papa ai frati AeR – Fidanzamento, impegno bello AeR – La malattia del secolo FENOMENO BURNOUT

Aggiornamento del 25 maggio 2015

CONTINUA LA PUBBLICAZIONE DI INTERESSANTI INTERVENTI SULLE CARATTERISTICHE DI UN’AZIENDA MODERNA ED ETICAMENTE SOSTENIBILE.

La lettura di questi articoli vi farà riflettere sulle caratteristiche fondanti sulle quali si deve basare un’azienda che voglia essere ricettiva dei bisogni, dei suoi operai e della società intera, oggi.

AeR – Etica in azienda – Lealtà 4

AeR – Etica azienda – Sincerità 5

AeR – Etica azienda – responsabilità 6

AeR – Etica azienda – integrità 7

Aggiornamento del 13 maggio 2015

Per un’etica dell’integrità in un’azienda

I comportamenti e le scelte

Vi proponiamo la lettura di tre articoli sulla gestione aziendale e sulle modalità di condurla perché essa risulti efficace per la produttività e la promozione umana. AeR – Etica integrità azienda 1: Etica e mondo dell’organizzazione AeR – Etica integrità azienda 2: La serietà AeR – Etica integrità azienda 3: Il rispetto

Aggiornamento del 10 maggio 2015

EXPO 2015-2SCUOLA, ASSOCIAZIONI, ISTITUZIONI IN GENERE IMPEGNATI NELL’EDUCAZIONE ALLA CONSERVAZIONE DEL CREATO

Continuiamo con la nostra carrellata di articoli per una riflessione sul tema. In particolare in questa puntata presentiamo due riflessioni su come le istituzioni, la scuola e le associazioni in particolare possono influenzare le coscienze per un rispetto del creato. A completamento di questo invito, il secondo articolo fa un richiamo al compito affidato all’insegnamento religioso. Per approfondire e riflettere proponiamo questi due interventi.

Educare alla resp. per il creato 3

Educare alla responsabilità per il creato 4

DUE TEMI DI ATTUALITÀ    07 maggio 2015

Oggi desideriamo proporre alla vostra attenzione TRE articoli di una certa importanza che potranno suscitare la vostra riflessione. Il primo riprende un ragionamento di Papa Bergoglio sulla “Teologia del popolo”. Il testo di Bianchi si presenta (così recita il sottotitolo) come Profilo teologico e spirituale di Rafael Tello, pensatore argentino che è da considerarsi uno dei fondatori della teologia del popolo. E che Bergoglio stima moltissimo: infatti, oltre a scrivere la prefazione al testo di Enrique Bianchi, volle anche intervenire con un discorso alla prima presentazione ufficiale di tale volume. Quel testo, inedito fino ad oggi, funge da prefazione all’edizione italiana di Introduzione alla teologia del popolo. Qui ne presentiamo ampi stralci. Il secondo articolo presenta una ricerca molto interessante, ma anche inquietante. Secondo lo studio pubblicato da Lancet, coordinato da 25 esperti e condotto in un centinaio di Nazioni, “in due terzi del mondo si muore anche per un’appendicite”. Il motivo? “Cinque miliardi di esseri umani non hanno accesso a strutture chirurgiche decenti e – nell’impossibilità di essere operati – continuano a morire per patologie ordinariamente curabili in occidente come l’appendicite o per banali complicazioni di parto”. Il terzo riguarda il dibattito aperto sul disegno di legge di riforma del sistema scolastico.

AeR – Bergoglio – La teologia del popolo AeR – Due terzi del mondo non ha cure decenti

AeR – Disegno di legge alla prova SWOT

Aggiornamento del 25 aprile 2015

RESPONSABILITA’ DEL CREATO PER TUTTI.

21 Aprile 2015

EXPO 2015-1Dal 1° Maggio al 31 Ottobre 2015 l’evento EXPO iniziamo il nostro percorso di riflessione leggendo e riflettendo sulle modalità con cui intendiamo educare alla salvaguardia del creato. Cresce la coscienza ecologica, a livello di singoli e di collettività, ma la disinvolta persistenza di pratiche anti-ecologiche in troppi settori portanti dell’attività umana, e l’evidente complicità di politiche locali, nazionali e internazionali nel perseguire interessi di potere (militari, finanziari, neocolonialisti … ) finiscono per far apparire patetici e velleitari tanti discorsi educativi, condannati a rimanere poco più che affermazioni parenetiche e retoriche. Noi con una serie di articoli terremo viva la nostra attenzione sul problema.

Come primo appuntamento vi offriamo i seguenti articoli

Educare alla responsabilità per il creato 1

Educare alla resp. per il creato 2

Aggiornamento del 20 aprile 2015

Offriamo ai nostri lettori un interessante articolo d’arte sulla tela del Caravaggio su “San Tommaso”.

San Tommaso apostolo e la testimonianza dell

Aggiornamento del 19 aprile 2015

UN’OCCASIONE PER RIFLETTERE SULLA SITUAZIONE DEL NOSTRO PIANETA E SULLA VITA.

21 Aprile 2015

EXPO 2015-1Dal 1° Maggio al 31 Ottobre 2015 l’evento EXPO ci offre l’occasione per affrontare molte tematiche inerenti al cibo e alla nutrizione . In particolare saremo invitati ad approfondire e….riflettere su alcuni temi: Il cibo: il suo ruolo, il suo valore, il suo percorso, le sue tipologie. Dall’industria agroalimentare, l’agricoltura, gli allevamenti, l’enogastronomia, l’alimentazione sicura e di qualità, al pane, la pasta, i dolci della nostra cucina e tradizione. Il nostro ambiente, il nostro territorio e i paesaggi. Dalla bioedilizia, tutela dell’ambiente, acqua alle infrastrutture, ai trasporti e le opere realizzate nella nostra regione. La ricerca e l’innovazione, la qualità delle abitazioni e delle strutture, la sostenibilità ambientale: la nanotecnologia, la ricerca farmaceutica, le innovazioni per la sostenibilità, gli arredamenti innovativi e sostenibili, l’illuminazione e la domotica, la green economy, il risparmio energetico, la chimica verde. La vita umana: La nostra storia, le eccellenze e tradizioni, lo stile, lo sport e il tempo libero, educazione e formazione, cultura e spettacolo, la nostra arte, i percorsi dello spirito, la nostra promozione turistica del territorio e la ricezione alberghiera, il benessere, la sanità, la qualità e sicurezza degli ambienti di lavoro.

i Temi dell’EXPO 2015 Nutrire Il cibo: il suo ruolo, il suo valore, il suo percorso, le sue tipologie. Dall’industria agroalimentare, l’agricoltura, gli allevamenti, l’enogastronomia, l’alimentazione sicura e di qualità, al pane, la pasta, i dolci della nostra cucina e tradizione. Pianeta Il nostro ambiente, il nostro territorio e i paesaggi. Dalla bioedilizia, tutela dell’ambiente, acqua alle infrastrutture, ai trasporti e le opere realizzate nella nostra regione. Energia La ricerca e l’innovazione, la qualità delle abitazioni e delle strutture, la sostenibilità ambientale: la nanotecnologia, la ricerca farmaceutica, le innovazioni per la sostenibilità, gli arredamenti innovativi e sostenibili, l’illuminazione e la domotica, la green economy, il risparmio energetico, la chimica verde. Vita La nostra storia, le eccellenze e tradizioni, lo stile, lo sport e il tempo libero, educazione e formazione, cultura e spettacolo, la nostra arte, i percorsi dello spirito, la nostra promozione turistica del territorio e la ricezione alberghiera, il benessere, la sanità, la qualità e sicurezza degli ambienti di lavoro.

Aggiornamento del 3 aprile 2015

APPUNTAMENTI IMPORTANTI CHE LA CHIESA DEL 2000 PROPONE AI CRISTIANI DI OGGI E AL MONDO Pasqua di Resurrezione, 05 Aprile 2015 Non mancano, in questi anni convulsi e sconvolti dal terrorismo, dalla crisi economica ed interiore, i richiami e gli appuntamenti che ci invitano alla riflessione e alla presa di coscienza del nostro vivere quotidiano. Il 2015 è ricco di questi richiami. In particolare dal 1° Maggio al 31 Ottobre l’EXPO di Milano,che ci richiama ad uno stile più razionale nella produzione e nell’alimentazione; il quinto Convegno ecclesiale nazionale che si svolgerà a Firenze dal 9 al 13 novembre, sul quale ci soffermiamo con un’intervista all’ Arcivescovo di Torino Nosiglia; il grande sinodo sulla famiglia che si occuperà del valore indissolubile del matrimonio cristiano, XIV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” che si terrà dal 4 al 25 ottobre 2015.Subito dopo dal 08 Dicembre 2015 inizierà il Giubileo straordinario, indetto da Papa Francesco, che si protrarrà fino al 20 Novembre 2016, anno della Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia dal 25 Luglio al 1 Agosto 2016.

Riportiamo alcuni articoli e documenti di approfondimento in preparazione a tali eventi: AeR – Agonia Matrimonio legale AeR – La famiglia – CVard. Bagnasco AeR – Relatio Synodi AeR – Domande recezione Relatio Synodi AeR – Trent’anni GMG AeR – Nosiglia – Stili di evangelizzazione

colomba ramo ulivo

BUONA PASQUA

  Aggiornamento dell’1 aprile 2015

IL TRIDUO PASQUALE INIZIA CON LA CENA DI GESÙ CON I DISCEPOLI

ultima cena  Giovedì Santo, 2 Aprile 2015

La Pasqua entra nel vivo del suo significato più profondo con il fare memoria dell’ultima cena di Gesù nel cenacolo e l’istituzione del Sacramento dell’Eucaristia. Per introdurci a questa ricorrenza e al triduo pasquale vi invitiamo a leggere questi due articoli, il primo è una dissertazione sulla simbologia del Dipinto dell’ultima cena, il secondo sul rapporto che dovrebbe esistere fra eucaristia e solidarietà con i più poveri, con le periferie del mondo.

AeR – Il corpo di Cristo

AeR – Cosa ne abbiamo fatto Eucaristia

 

Aggiornamento del 27 marzo 2015 SI AVVICINA LA SETTIMANA SANTA E LA PASQUA DI UN ANNO RICCO DI EVENTI E DI MOTIVI DI RIFLESSIONE Domenica delle Palme – 29 marzo 2015 La domenica delle Palme 29 marzo 2015 ci introduce in una settimana Santa che si prefigura ricca di motivi di riflessione per ognuno di noi. Abbiamo già avuto modo di richiamare alla vostra attenzione gli eventi internazionali che caratterizzano questo anno. A questi si è aggiunto l’annuncio del prossimo Giubileo Straordinario che, con il suo inizio l’8 Dicembre p.v., ci proietta verso un 2016 ricco di eventi e di motivi di ricerca interiore. Sulla scia di questi pensieri oggi sottopongo alla vostra lettura e riflessione questi cinque articoli. AeR – Amico dei pubblicani e dei peccatori AeR – Ma erano palme oppure ulivi

AeR – Ebola un anno dopo

AeR – Ai criminali

AeR – La scintilla che incendiò la Siria

Aggiornamento del 23 marzo 2015

UN TEMPO PER LA MISERICORDIA

L’annuncio di Papa Francesco ha aperto per il mondo un visuale nuova che va verso le periferie del mondo ………… e dell’anima.

L’annuncio dell’apertura di un Giubileo straordinario sulla misericordia ha dato orizzonti nuovi alla Chiesa e ai nostri cuori. Leggiamo con attenzione i documenti che Papa Francesco e la Commissione incaricata di organizzare questo evento emaneranno, troveremo un indirizzo sicuro verso orizzonti nuovi anche per la nostra vita. Ci prepariamo così a vivere un anno di grazia con due eventi eccezionali a) il documento sul prossimo Giubileo della misericordia, b) gli atti del sinodo sulla famiglia. In questo periodo in cui ci stiamo avvicinando alla Pasqua desidero proporre alla vostra attenzione e riflessione alcuni articoli di approfondimento sulla figura e le azioni di Gesù. Per cui qui di seguito troverete quattro articoli

AeR – Il menù dell’ultima cena

AeR – La preghiera di Gesù

AeR – Un tempo per la misericordia

AeR – Genealogia di Gesù

Aggiornamento del 13 marzo 2015

Un anno di rinnovamento interiore e di misericordia.

Stiamo vivendo un periodo che può scoraggiare e sconvolgere le menti e le coscienze. Ma è anche un momento che ha in sé una grande ricchezza che vale la pena saper cogliere nel verso giusto.

È di oggi l’annuncio di Papa Francesco dell’indizione di un NUOVO ANNO SANTO a partire dall’8 Dicembre 2015 fino al 20 Novembre 2016, in concomitanza con il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Tema di richiamo per la cristianità in occasione di questo anno straordinario è la “MISERICORDIA” per un “rinnovamento” interiore.

È utile quindi che come cristiani ci disponiamo a cogliere la ricchezza di questi eventi che la Chiesa ci offre. Un aiuto può venire dagli articoli che vi vogliamo proporre di seguito.

  1. AeR – Il messaggio della misericordia

  2. AeR – Una verifica per la nostra fede

  3. AeR – Cattolici glocal

Aggiornamento del 21 febbraio 2015

ALCUNI DEGLI EVENTI INTERNAZIONALI E MONDIALI FRUTTO DELLA GLOBALIZZAZIONE

Quest’anno 2015 è ricco di avvenimenti dal sapore globalizzante. Molti infatti sono i temi sul tappeto della riflessione da parte delle nazioni del mondo. Innanzitutto EXPO 2015 sull’alimentazione globale e le problematiche emergenti sulla nutrizione di tutte le genti e sulla nutrizione adeguata. Il secondo avvenimento di portata mondiale è il sinodo dei Vescovi sulla famiglia, sul suo ruolo, sulle sue diverse sfaccettature e problematiche; il terzo tema d’interesse mondiale e quello sulle “vite consacrate”, il senso oggi della consacrazione e il ruolo che queste persone assumono in un mondo globalizzato e tecnologico. Altro argomento di portata mondiale è il Convegno Ecclesiale di Firenze, nel Novembre 2015 su “In Gesù Cristo il nuovo Umanesimo”. Più vicino a noi poi è da ricordare il “Festival Biblico”, che si terrà nel mese di Maggio 2015 in alcune città del Veneto, fra le quali anche Vicenza, che porta il titolo significativo Custodire il Creato, coltivare l’Umano” .

Nei prossimi mesi vi invitiamo a seguire questa nostra rubrica “Approfondiamo e…..riflettiamo” e le nostre news per essere aggiornati su questi ed altri importanti avvenimenti.

Per ora vi invitiamo a leggere gli articoli qui di seguito riportati in PDF

AeR – Consacrati e consacrate nel mondo

AeR – Nelle periferie – Novembre 2015

AeR – La famiglia luogo dell’incontro

POTENZIALITÀ NEI GIOVANI PER IL FUTURO E ANONIMATO NELLE NOSTRE CITTA’

Questa settimana desidero sottoporre alla vostra riflessione alcuni temi che riguardano i giovani, più direttamente, ma di riflesso anche tutti noi, sto parlando della scuola legata alla formazione al lavoro dei giovani e dell’anonimato che regna nelle nostre città e che isola molti cittadini relegandoli nella solitudine che può, a volte, diventare disperazione. Occorre ripensare alla struttura delle nostre città e al modello di vita produttiva che vogliamo preparare per il futuro dei nostri giovani. Per riflettere su questi temi vi presento tre articoli, due dei quali ci ricordano le potenzialità presenti nei giovani e nella scuola che li prepara al futuro. Il terzo articolo si sofferma sulla struttura delle nostre città e sulla loro capacità di isolare i singoli fino a farli cadere nell’anonimato.

Vedi PDF che seguono

AeR – 1- Il futuro è potenzialità nei giovani e responsabilità negli adulti

AeR – 2 – Il futuro è potenzialità nei giovani e responsabilità negli adulti 2

AeR – Anonimato nelle città

    Aggiornamento del 7 febbraio 2015 PAPA FRANCESCO E IL RUOLO DEI “padri” NELLA FAMIGLIA D’OGGI.

In questa settimana di febbraio 2015 ho pensato di sottoporre alla vostra attenzione due discorsi che Papa Francesco ha fatto riflettendo sulla figura del “padre” di famiglia. In particolare, nel primo parla dei padri assenti e non responsabili del loro ruolo AeR – Papa Francesco e i padri di famiglia latitanti. Nel secondo discorso invece richiama la positività del “padre” presente e che si fa carico della responsabilità genitoriale AeR – Papa Francesco e i padri di famiglia presenti. Mi sembra sia un richiamo importante per i nostri giorni in cui è alla ribalta la discussione sulla famiglia o meglio sui diversi generi di famiglia. Vi invito a leggerli con attenzione.

Aggiornamento del 2 febbraio 2015

All’inizio di questo mese di Febbraio 2015 desideriamo riflettere su due argomenti assai vivi e molto presenti nelle nostre discussioni e nel nostro pensiero occidentale, il sincretismo e progresso umano e scientifico. Sono senza dubbio due motivi sui quali i teologi, gli scienziati, i filosofi di oggi si soffermano di frequente cercando di trovare una sintesi nel comprendere il modo di pensare dell’uomo contemporaneo. Vi invito quindi a leggere i due articoli che vi alleghiamo in PDF. Il primo, tratto dal discorso che Papa Francesco ha tenuto il 24 gennaio u.s., sul “sincretismo conciliante” (Accordo o fusione di dottrine di origine diversa, sia nella sfera delle credenze religiose sia in quella delle concezioni filosofiche. Più particolarmente, nella storia delle religioni, fusione di motivi e concezioni religiose differenti, o anche la parziale contaminazione di una religione con elementi di altre) AeR – I lacci di un sincretismo conciliante. Il secondo articolo in un’intervista fatta da ReteSicomoro al Prof. Giandomenico Boffi, durante un Convegno su “Progresso scientifico e progresso umano” AeR – Progresso scientifico e progresso umano.

  Aggiornamento del 25 gennaio 2015 Penso che tutti abbiamo sentito parlare delle responsabilità che gravano sui potenti della terra per quanto riguarda, “povertà”, “disuguaglianza” e “cambiamenti climatici”, ma tutti fanno orecchie da mercante e badano solo ai propri interessi, il più delle volte illeciti. L’articolo è un richiamo e un grido d’allarme che denincia al mondo il dilagare della massa di poveri nelle diverse nazioni del mondo; anche in Italia. Leggiamo e denunciamo questo grave scandalo che i nostri governanti stanno dando. (Vedi PDF “AeR – miliardo di poveri in più nel 2030).

********************************************************************************* Questo articolo ci propone una riflessione di carattere filosofico sull’umanità di Dio, Dio infatti ha umanizzato la fede attraverso Cristo fatto uomo.

Leggiamo l’articolo che segue in PDF “AeR – La fede che umanizza, la religione da umanizzare” ********************************************************************************* Aggiornamento del 12 gennaio 2015

L’uomo frainteso e il Dio inatteso

L’identità di Gesù

C’è un tema che attraversa tutto il Vangelo di Marco e che, a ben vedere, è il tema del Vangelo, il centro di gravità attorno al quale il testo ruota. È la questione dell’identità di Gesù. Chi è Gesù? Non si tratta di trovare la risposta esatta a un problema matematico, perché non c’è una dimostrazione da formulare. È la chiamata a una presa di posizione personale: chi è Gesù per me? Il che equivale a dire: in quale volto di Dio credo? E di conseguenza: che cosa significa credere in Dio, essere discepoli di Gesù? Come dovrebbe essere la chiesa, nel “sogno” di Gesù? Il Vangelo è una parola che mi chiama, mi provoca a decidere della mia vita, perché tocca le corde della mia umanità. Lo si vede bene, dopo la sezione delle controversie, nel testo di Mc 3,7-31. C’è molta gente che cerca Gesù, che lo vuole vedere e toccare, vere e proprie folle (cfr. 3,7-8). Vogliono i miracoli, vogliono essere guariti da quest’uomo che sembra avere grandi poteri. Gesù è diventato un uomo di successo, ma invece di sfruttare il momento e di cavalcare l’onda, si sottrae. Gli spiriti maligni cadono ai suoi piedi gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!» (3,11). Se accadesse oggi, ci aspetteremmo un Gesù sotto i riflettori, che spopola nelle immagini e nei video condivisi sui social network. Guardate il Figlio di Dio! Gesù, invece, impone il silenzio. Non vuole che si dicano queste cose di lui. È quello che gli esegeti chiamano “il segreto messianico”. Seguendo questa scelta di anti-popolarità, Gesù si ritira su un monte, fuori dalla mischia, e sceglie i dodici apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni (3,14). Gli apostoli sono chiamati a stare con lui e a fare come lui, a camminare lungo la sua via, ad assumere il suo stile. E subito dopo si capisce il motivo del suo comportamento, perché la via del Vangelo è una via che viene fraintesa, anche dalle stesse persone religiose. Proseguendo la lettura, infatti, vediamo che i parenti di Gesù lo credevano pazzo (cfr. 3,21) e gli scribi lo accusavano di essere lui stesso posseduto dal demonio (cfr. 3,22). Il successo è dolce, a un buon sapore, è un vino che ubriaca facilmente, perché ci illude di essere importanti. Ma il successo è anche bugiardo, si ferma all’immagine e all’apparenza. La gente vedeva in Gesù un uomo di potere ed era pronta a seguirlo, ma sarebbe stato per i motivi sbagliati. E lui lo spiega: «Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella o madre» (3,35). Gesù non vuole essere il padrone di nessuno, vuole fratelli e sorelle che come lui imparino a fare la volontà di Dio, cioè imparino ad amare. E il segno dell’amore è la morte in croce, il contrario del potere. È solo sulla croce che si capisce davvero chi è il Figlio di Dio e a riconoscerlo per come è veramente è un pagano, il centurione (cfr. 15,39). Ecco il motivo del “segreto messianico”. Gesù capisce che la gente fraintenderebbe lui e fraintenderebbe Dio, il quale non è un imperatore celeste a cui inchinarsi attendendo dei favori da lui. Porta gli apostoli sul monte, perché non vuole che si facciano un’idea sbagliata. Il loro compito non è diventare autorità religiose, ma annunciare il Vangelo e aiutare i sofferenti. Per amore, non per conquistare adepti! Gli apostoli devono imparare a non credersi migliori degli altri, padroni delle coscienze; devono imparare a servire, più che a essere serviti. Come il loro maestro. È il motivo per cui papa Francesco da fastidio a certi uomini di chiesa, quando ricorda queste cose. Bisogna fare attenzione a chi parla tanto del bene dell’uomo, di Dio, della verità, ma con il linguggio dell’autorità e non con quello dell’amore. Lo scopo della chiesa non è essere una sorta di partito religioso che deve affermare le sue posizioni, acquisire importanza e sbaragliare i propri nemici. Il suo unico scopo è vivere e testimoniare il Vangelo, la legge dell’amore.

Christian Albini

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OMELIA PER LA SANTA MESSA NEL GIORNO DI NATALE(Cattedrale di Vicenza, 25 dicembre 2014)

Porgo l’augurio di un Santo Natale a tutti voi e a ciascuno di voi, fratelli e sorelle, canonici, sacerdoti, diacono, consacrati e consacrate e a voi carissimi ascoltatori di Radio Oreb.

In questo giorno di Natale, contemplando l’amore immenso di Dio che si è fatto Bambino nella grotta di Betlemme, il nostro cuore è pieno di gioia. Il Natale risveglia in noi le emozioni più belle, ma c’è il rischio di fermarsi solo all’emozione. Il Natale è una festa grande, ma c’è il pericolo di fermarsi solo all’esteriorità. La nostra fede è credere all’Amore di Dio che si è fatto visibile in Gesù.

Il profeta Isaia, nella prima lettura, annuncia la prossima liberazione al popolo in esilio ed insiste nell’annunciare una salvezza che tutti i confini della terra vedranno. Gli stessi piedi di coloro che portano questo annuncio di salvezza e di pace sono belli: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di buone notizie che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie, che annunzia la salvezza” (Is 52,7).

La seconda lettura ci dice che “molte volte in diversi modi Dio aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio suo” (Eb 1,1).

Gesù è riflesso perfetto della luce divina, è il Figlio di Dio che risplende della luce del Padre. La luce splende nelle tenebre, che non riescono a vincerla anche quando non la vogliono accogliere, ci dice Giovanni nel Vangelo che abbiamo ascoltato. Abbiamo sentito in questo brano che tutta la realtà del Natale ruota attorno a un fatto incredibile: il Verbo di Dio si è fatto carne nel Bambino Gesù. Ma chi è questo Verbo?

Verbo, in latino, significa “parola”, logos, in greco. È come se nel Vangelo secondo Giovanni fosse stato scritto: “La Parola che era presso Dio, la Parola che era Dio, si è fatta carne in Gesù”. È da Gesù che sappiamo che Dio è Parola. Dio non è solitudine, isolamento, deserto. Dio è comunione, dialogo, relazione, incontro. Perché Dio è amore. Per mezzo di questa parola eterna, che è in Dio, che è Dio, tutto è stato creato. Non c’è niente di bello e di buono che non venga dalla Parola creatrice di Dio.

Non è stato facile, per Dio, farsi capire. Perché molte volte l’uomo è distratto, è confuso, addormentato, spesso è arrabbiato e non vuole sentire. Ma con pazienza sempre nuova, Dio ha continuato a parlargli. Ecco come il profeta Osea descrive i sentimenti di Dio per l’umanità: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore” (Os 2,16.21).

Certo, la Parola di Dio è stata anche severa. “La Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture delle midolla e scruta i sentimenti e pensieri del cuore” (Eb 4,12).

Questa Parola eterna di Dio che ha creato il mondo, che ci ha svelato il volto di Dio, che continuamente ci pungola nella nostra mediocrità, “in questi giorni”, anzi “in questo giorno” è entrata nella storia dell’uomo e ha dato la vita al Bambino Gesù.

Ed ecco allora il significato del mio augurio di Santo Natale: accogliamo la Parola di Dio, il Verbo fatto carne nella nostra vita, nel nostro cuore, perché possa nascere e crescere in noi il Figlio di Dio, Gesù. Ricordandoci che tutti noi siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, che è comunione, che è dialogo, che è Parola efficace, impegniamoci a stabilire relazioni buone con tutte le persone che il Signore mette sulla nostra strada, nella fraternità, nel perdono reciproco e nella pace.

Il Natale è anche l’annunzio di uno sconvolgente scambio fra l’uomo e Dio: Dio si fa uomo, perché, in Gesù, ogni uomo diventi figlio di Dio e fratello di tutti gli uomini. Il presepio è un’immagine bella e carica di dolcezza, ma la realtà del Natale è immensamente più grande, eppure vicina ad ogni cuore, perché Dio, a Natale, si è mosso dal cielo per avvicinarsi ed abitare nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.

A partire dal Natale Dio, in Gesù, si dà un nome nuovo: “Emmanuele”, che vuol dire Dio-con-noi, colui che unisce tutti gli uomini. La solidarietà, la condivisione, il rifiuto di ogni discriminazione e l’accoglienza trovano qui la loro sorgente e la loro motivazione più profonda.

Nel mistero del Santo Natale, che oggi celebriamo, anche i poveri e  i senza dimora, che la società spesso rifiuta, ritrovano in Gesù la loro dignità; gli ammalati e gli anziani sono consolati; le famiglie gravate da pesanti situazioni di disabilità fisica o mentale ritrovano la speranza; i popoli più poveri capiscono di non essere abbandonati; tutti gli uomini e le donne perseguitati a causa della loro fede o della loro appartenenza religiosa si sentono meno soli perché Gesù si è preso cura di loro, attraverso la vicinanza e la solidarietà di tanti cristiani e di tanti uomini e donne di buona volontà.

In questo santo giorno, poi, vogliamo pregare insistentemente Gesù, principe di pace. All’inizio di questa solenne liturgia abbiamo cantato: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama” (Lc 2,14). Questo canto esprime l’anelito perenne ed insopprimibile del cuore umano: l’amore a Dio e l’impegno per la promozione della pace dentro di noi e fuori di noi. Una pace che è da costruire, giorno dopo giorno, con coscienza, serietà e fantasia.

Quest’anno la nostra comunità diocesana, e tanta parte della società civile, è stata chiamata a preparare in questi mesi e a partecipare nell’ultimo giorno dell’anno civile, il 31 dicembre, alla 47ª Marcia Nazionale della Pace proposta dei vescovi italiani, Pax Christi, dalla Caritas e dall’Azione Cattolica. Si svolgerà partendo dal Piazzale della Vittoria, davanti la Basilica di Monteberico, alle ore 16.30, concludendosi in cattedrale alle ore 22.30 con la messa presieduta dal vescovo.

La certezza che Dio ci ama e ci vuol salvare, che Dio non rifiuta la nostra storia, spesso confusa e tormentata, ma che è già presente in essa, ci accompagni ogni giorno della nostra vita: sia la nostra forza e la luce di speranza che illumina la nostra strada.

A tutti: buon Natale!

Beniamino Pizziol Vescovo di Vicenza

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Messaggio di Papa Francesco per la XXIII Giornata mondiale del malato 2015:

Sapientia cordis. «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (Gb 29,15)

Cari fratelli e sorelle,

in occasione della XXIII Giornata Mondiale del Malato, istituita da san Giovanni Paolo II, mi rivolgo a tutti voi che portate il peso della malattia e siete in diversi modi uniti alla carne di Cristo sofferente; come pure a voi, professionisti e volontari nell’ambito sanitario. Il tema di quest’anno ci invita a meditare un’espressione del Libro di Giobbe: «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (29,15). Vorrei farlo nella prospettiva della “sapientia cordis”, la sapienza del cuore.

1. Questa sapienza non è una conoscenza teorica, astratta, frutto di ragionamenti. Essa piuttosto, come la descrive san Giacomo nella sua Lettera, è «pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (3,17). È dunque un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio. Facciamo nostra, pertanto, l’invocazione del Salmo: «Insegnaci a contare i nostri giorni / e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 90,12). In questa sapientia cordis, che è dono di Dio, possiamo riassumere i frutti della Giornata Mondiale del Malato.

2. Sapienza del cuore è servire il fratello. Nel discorso di Giobbe che contiene le parole «io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo», si evidenzia la dimensione di servizio ai bisognosi da parte di quest’uomo giusto, che gode di una certa autorità e ha un posto di riguardo tra gli anziani della città. La sua statura morale si manifesta nel servizio al povero che chiede aiuto, come pure nel prendersi cura dell’orfano e della vedova (vv.12-13).

Quanti cristiani anche oggi testimoniano, non con le parole, ma con la loro vita radicata in una fede genuina, di essere “occhi per il cieco” e “piedi per lo zoppo”! Persone che stanno vicino ai malati che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi. Questo servizio, specialmente quando si prolunga nel tempo, può diventare faticoso e pesante.

È relativamente facile servire per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per mesi o addirittura per anni, anche quando essa non è più in grado di ringraziare. E tuttavia, che grande cammino di santificazione è questo! In quei momenti si può contare in modo particolare sulla vicinanza del Signore, e si è anche di speciale sostegno alla missione della Chiesa.

3. Sapienza del cuore è stare con il fratello. Il tempo passato accanto al malato è un tempo santo. È lode a Dio, che ci conforma all’immagine di suo Figlio, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Gesù stesso ha detto: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).

Chiediamo con viva fede allo Spirito Santo che ci doni la grazia di comprendere il valore dell’accompagnamento, tante volte silenzioso, che ci porta a dedicare tempo a queste sorelle e a questi fratelli, i quali, grazie alla nostra vicinanza e al nostro affetto, si sentono più amati e confortati. Quale grande menzogna invece si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”, per indurre a credere che le vite gravemente affette da malattia non sarebbero degne di essere vissute!

4. Sapienza del cuore è uscire da sé verso il fratello. Il nostro mondo dimentica a volte il valore speciale del tempo speso accanto al letto del malato, perché si è assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro. In fondo, dietro questo atteggiamento c’è spesso una fede tiepida, che ha dimenticato quella parola del Signore che dice: «L’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Per questo, vorrei ricordare ancora una volta «l’assoluta priorità dell’“uscita da sé verso il fratello” come uno dei due comandamenti principali che fondano ogni norma morale e come il segno più chiaro per fare discernimento sul cammino di crescita spirituale in risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 179). Dalla stessa natura missionaria della Chiesa sgorgano «la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (ibid.).

5. Sapienza del cuore è essere solidali col fratello senza giudicarlo. La carità ha bisogno di tempo. Tempo per curare i malati e tempo per visitarli. Tempo per stare accanto a loro come fecero gli amici di Giobbe: «Poi sedettero accanto a lui in  terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore» (Gb 2,13). Ma gli amici di Giobbe nascondevano dentro di sé un giudizio negativo su di lui: pensavano che la sua sventura fosse la punizione di Dio per una sua colpa. Invece la vera carità è condivisione che non giudica, che non pretende di convertire l’altro; è libera da quella falsa umiltà che sotto sotto cerca approvazione e si compiace del bene fatto.

L’esperienza di Giobbe trova la sua autentica risposta solo nella Croce di Gesù, atto supremo di solidarietà di Dio con noi, totalmente gratuito, totalmente misericordioso. E questa risposta d’amore al dramma del dolore umano, specialmente del dolore innocente, rimane per sempre impressa nel corpo di Cristo risorto, in quelle sue piaghe gloriose, che sono scandalo per la fede ma sono anche verifica della fede (cfr Omelia per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, 27 aprile 2014).

Anche quando la malattia, la solitudine e l’inabilità hanno il sopravvento sulla nostra vita di donazione, l’esperienza del dolore può diventare luogo privilegiato della trasmissione della grazia e fonte per acquisire e rafforzare la sapientia cordis. Si comprende perciò come Giobbe, alla fine della sua esperienza, rivolgendosi a Dio possa affermare: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Anche le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede, possono diventare testimoni viventi di una fede che permette di abitare la stessa sofferenza, benché l’uomo con la propria intelligenza non sia capace di comprenderla fino in fondo.

6. Affido questa Giornata Mondiale del Malato alla protezione materna di Maria, che ha accolto nel grembo e generato la Sapienza incarnata, Gesù Cristo, nostro Signore. O Maria, Sede della Sapienza, intercedi quale nostra Madre per tutti i malati e per coloro che se ne prendono cura. Fa’ che, nel servizio al prossimo sofferente e attraverso la stessa esperienza del dolore, possiamo accogliere e far crescere in noi la vera sapienza del cuore.

Accompagno questa supplica per tutti voi con la mia Benedizione Apostolica.  

Per scaricare il documento clicca su AeR – Messaggio Giornata del malato 2015     Aggiornamento del 9 gennaio 2015

Siamo liberi o siamo schiavi?

Omelia del Papa per i primi vespri della Solennità di Maria

Omelia di Papa Francesco per la celebrazione dei primi vespri della Solennità di Maria Ss.ma Madre di Dio (31 dicembre 2014): La Parola di Dio ci introduce oggi, in modo speciale, nel significato del tempo, nel capire che il tempo non è una realtà estranea a Dio, semplicemente perché Egli ha voluto rivelarsi e salvarci nella storia, nel tempo. Il significato del tempo, la temporalità, è l’atmosfera dell’epifania di Dio, ossia della manifestazione del mistero di Dio e del Suo amore concreto. Infatti, il tempo è il messaggero di Dio, come diceva San Pietro Favre. La liturgia di oggi ci ricorda la frase dell’apostolo Giovanni: «Figlioli, è giunta l’ultima ora» (1 Gv 2,18), e quella di San Paolo che ci parla della «pienezza del tempo» (Gal 4,4). Dunque, il giorno di oggi ci manifesta come il tempo che è stato – per così dire – “toccato” da Cristo, il Figlio di Dio e di Maria, e da Lui ha ricevuto significati nuovi e sorprendenti: è diventato il “tempo salvifico”, cioè il tempo definitivo di salvezza e di grazia. E tutto questo ci induce a pensare alla fine del cammino della vita, alla fine del nostro cammino. Ci fu un inizio e ci sarà un termine, «un tempo per nascere e un tempo per morire» (Qo 3,2). Con questa verità, alquanto semplice e fondamentale e alquanto trascurata e dimenticata, la santa madre Chiesa ci insegna a concludere l’anno e anche le nostre giornate con un esame di coscienza, attraverso il quale ripercorriamo quello che è accaduto; ringraziamo il Signore per ogni bene che abbiamo ricevuto e che abbiamo potuto compiere e, in pari tempo, ripensiamo alle nostre mancanze e ai nostri peccati. Ringraziare e chiedere perdono. È quello che facciamo anche oggi al termine di un anno. Lodiamo il Signore con l’inno Te Deum e nello stesso tempo Gli chiediamo perdono. L’atteggiamento del ringraziare ci dispone all’umiltà, a riconoscere e accogliere i doni del Signore. L’apostolo Paolo riassume, nella Lettura di questi Primi Vespri, il motivo fondamentale del nostro rendere grazie a Dio: Egli ci ha fatti suoi figli, ci ha adottati come figli. Questo dono immeritato ci riempie di una gratitudine colma di stupore! Qualcuno potrebbe dire: “Ma non siamo già tutti suoi figli, per il fatto stesso di essere uomini?”. Certamente perché Dio è Padre di ogni persona che viene al mondo. Ma senza dimenticare che siamo da Lui allontanati a causa del peccato originale che ci ha separati dal nostro Padre: la nostra relazione filiale è profondamente ferita. Per questo Dio ha mandato suo Figlio a riscattarci a prezzo del Suo sangue. E se c’è un riscatto, è perché c’è una schiavitù. Noi eravamo figli, ma siamo diventati schiavi, seguendo la voce del Maligno. Nessun altro ci riscatta da quella schiavitù sostanziale se non Gesù, che ha assunto la nostra carne dalla Vergine Maria ed è morto sulla croce per liberarci, liberarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la perduta condizione filiale. La liturgia di oggi ricorda anche che, “nel principio (prima del tempo) c’era il Verbo … e il Verbo si è fatto uomo” e per questo afferma Sant’Ireneo: «Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio» (Adversus haereses, 3,19,1: PG 7,939; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 460). Contemporaneamente il dono stesso per cui ringraziamo è anche motivo di esame di coscienza, di revisione della vita personale e comunitaria, del domandarci: com’è il nostro modo di vivere? Viviamo da figli o viviamo da schiavi? Viviamo da persone battezzate in Cristo, unte dallo Spirito, riscattate, libere? Oppure viviamo secondo la logica mondana, corrotta, facendo quello che il diavolo ci fa credere sia il nostro interesse? Esiste sempre nel nostro cammino esistenziale una tendenza a resistere alla liberazione; abbiamo paura della libertà e, paradossalmente, preferiamo più o meno inconsapevolmente la schiavitù. La libertà ci spaventa perché ci pone davanti al tempo e di fronte alla nostra responsabilità di viverlo bene. La schiavitù, invece, riduce il tempo a “momento” e così ci sentiamo più sicuri, e cioè ci fa vivere momenti slegati dal loro passato e dal nostro futuro. In altre parole, la schiavitù ci impedisce di vivere pienamente e realmente il presente, perché lo svuota del passato e lo chiude di fronte al futuro, di fronte all’eternità. La schiavitù ci fa credere che non possiamo sognare, volare, sperare. Diceva qualche giorno fa un grande artista italiano che per il Signore fu più facile togliere gli israeliti dall’Egitto che togliere l’Egitto dal cuore degli israeliti. Erano stati, “sì”, liberati “materialmente” dalla schiavitù, ma durante la marcia nel deserto con le varie difficoltà e con la fame cominciarono allora a provare nostalgia per l’Egitto e ricordavano quando “mangiavano … cipolle e aglio” (cfr Nm 11,5); ma si dimenticavano però che ne mangiavano al tavolo della schiavitù. Nel nostro cuore si annida la nostalgia della schiavitù, perché apparentemente più rassicurante, più della libertà, che è molto più rischiosa. Come ci piace essere ingabbiati da tanti fuochi d’artificio, apparentemente belli ma che in realtà durano solo pochi istanti! E questo è il regno, questo è il fascino del momento! Da questo esame di coscienza dipende anche, per noi cristiani, la qualità del nostro operare, del nostro vivere, della nostra presenza nella città, del nostro servizio al bene comune, della nostra partecipazione alle istituzioni pubbliche ed ecclesiali. Per tale motivo, ed essendo Vescovo di Roma, vorrei soffermarmi sul nostro vivere a Roma che rappresenta un grande dono, perché significa abitare nella città eterna, significa per un cristiano soprattutto far parte della Chiesa fondata sulla testimonianza e sul martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. E pertanto anche di questo ringraziamo il Signore. Ma al tempo stesso rappresenta una grande responsabilità. E Gesù ha detto: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (Lc 12, 48). Dunque domandiamoci: in questa città, in questa Comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti e stanchi? Senz’altro le gravi vicende di corruzione, emerse di recente, richiedono una seria e consapevole conversione dei cuori per una rinascita spirituale e morale, come pure per un rinnovato impegno per costruire una città più giusta e solidale, dove i poveri, i deboli e gli emarginati siano al centro delle nostre preoccupazioni e del nostro agire quotidiano. È necessario un grande e quotidiano atteggiamento di libertà cristiana per avere il coraggio di proclamare, nella nostra Città, che occorre difendere i poveri, e non difendersi dai poveri, che occorre servire i deboli e non servirsi dei deboli! L’insegnamento di un semplice diacono romano ci può aiutare. Quando chiesero a San Lorenzo di portare e mostrare i tesori della Chiesa, portò semplicemente alcuni poveri. Quando in una città i poveri e i deboli sono curati, soccorsi e aiutati a promuoversi nella società, essi si rivelano il tesoro della Chiesa e un tesoro nella società. Invece, quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a “mafiarsi”, quella società si impoverisce fino alla miseria, perde la libertà e preferisce “l’aglio e le cipolle” della schiavitù, della schiavitù del suo egoismo, della schiavitù della sua pusillanimità e quella società cessa di essere cristiana. Cari fratelli e sorelle, concludere l’anno è tornare ad affermare che esiste un’“ultima ora” e che esiste la “pienezza del tempo”. Nel concludere questo anno, nel ringraziare e nel chiedere perdono, ci farà bene domandare la grazia di poter camminare in libertà per poter così riparare i tanti danni fatti e poter difenderci dalla nostalgia della schiavitù, difenderci dal non “nostalgiare” la schiavitù. La Vergine Santa, la Santa Madre di Dio che è proprio al cuore del tempio di Dio, quando il Verbo – che era nel principio – si è fatto uno di noi nel tempo; Ella che ha dato al mondo il Salvatore, ci aiuti ad accoglierLo con cuore aperto, per essere e vivere veramente liberi, come figli di Dio. Così sia. Omelia di Papa Francesco per la celebrazione dei primi vespri della Solennità di Maria Ss.ma Madre di Dio (31 dicembre 2014): La Parola di Dio ci introduce oggi, in modo speciale, nel significato del tempo, nel capire che il tempo non è una realtà estranea a Dio, semplicemente perché Egli ha voluto rivelarsi e salvarci nella storia, nel tempo. Il significato del tempo, la temporalità, è l’atmosfera dell’epifania di Dio, ossia della manifestazione del mistero di Dio e del Suo amore concreto. Infatti, il tempo è il messaggero di Dio, come diceva San Pietro Favre. La liturgia di oggi ci ricorda la frase dell’apostolo Giovanni: «Figlioli, è giunta l’ultima ora» (1 Gv 2,18), e quella di San Paolo che ci parla della «pienezza del tempo» (Gal 4,4). Dunque, il giorno di oggi ci manifesta come il tempo che è stato – per così dire – “toccato” da Cristo, il Figlio di Dio e di Maria, e da Lui ha ricevuto significati nuovi e sorprendenti: è diventato il “tempo salvifico”, cioè il tempo definitivo di salvezza e di grazia. E tutto questo ci induce a pensare alla fine del cammino della vita, alla fine del nostro cammino. Ci fu un inizio e ci sarà un termine, «un tempo per nascere e un tempo per morire» (Qo 3,2). Con questa verità, alquanto semplice e fondamentale e alquanto trascurata e dimenticata, la santa madre Chiesa ci insegna a concludere l’anno e anche le nostre giornate con un esame di coscienza, attraverso il quale ripercorriamo quello che è accaduto; ringraziamo il Signore per ogni bene che abbiamo ricevuto e che abbiamo potuto compiere e, in pari tempo, ripensiamo alle nostre mancanze e ai nostri peccati. Ringraziare e chiedere perdono. È quello che facciamo anche oggi al termine di un anno. Lodiamo il Signore con l’inno Te Deum e nello stesso tempo Gli chiediamo perdono. L’atteggiamento del ringraziare ci dispone all’umiltà, a riconoscere e accogliere i doni del Signore. L’apostolo Paolo riassume, nella Lettura di questi Primi Vespri, il motivo fondamentale del nostro rendere grazie a Dio: Egli ci ha fatti suoi figli, ci ha adottati come figli. Questo dono immeritato ci riempie di una gratitudine colma di stupore! Qualcuno potrebbe dire: “Ma non siamo già tutti suoi figli, per il fatto stesso di essere uomini?”. Certamente perché Dio è Padre di ogni persona che viene al mondo. Ma senza dimenticare che siamo da Lui allontanati a causa del peccato originale che ci ha separati dal nostro Padre: la nostra relazione filiale è profondamente ferita. Per questo Dio ha mandato suo Figlio a riscattarci a prezzo del Suo sangue. E se c’è un riscatto, è perché c’è una schiavitù. Noi eravamo figli, ma siamo diventati schiavi, seguendo la voce del Maligno. Nessun altro ci riscatta da quella schiavitù sostanziale se non Gesù, che ha assunto la nostra carne dalla Vergine Maria ed è morto sulla croce per liberarci, liberarci dalla schiavitù del peccato e restituirci la perduta condizione filiale. La liturgia di oggi ricorda anche che, “nel principio (prima del tempo) c’era il Verbo … e il Verbo si è fatto uomo” e per questo afferma Sant’Ireneo: «Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio» (Adversus haereses, 3,19,1: PG 7,939; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 460). Contemporaneamente il dono stesso per cui ringraziamo è anche motivo di esame di coscienza, di revisione della vita personale e comunitaria, del domandarci: com’è il nostro modo di vivere? Viviamo da figli o viviamo da schiavi? Viviamo da persone battezzate in Cristo, unte dallo Spirito, riscattate, libere? Oppure viviamo secondo la logica mondana, corrotta, facendo quello che il diavolo ci fa credere sia il nostro interesse? Esiste sempre nel nostro cammino esistenziale una tendenza a resistere alla liberazione; abbiamo paura della libertà e, paradossalmente, preferiamo più o meno inconsapevolmente la schiavitù. La libertà ci spaventa perché ci pone davanti al tempo e di fronte alla nostra responsabilità di viverlo bene. La schiavitù, invece, riduce il tempo a “momento” e così ci sentiamo più sicuri, e cioè ci fa vivere momenti slegati dal loro passato e dal nostro futuro. In altre parole, la schiavitù ci impedisce di vivere pienamente e realmente il presente, perché lo svuota del passato e lo chiude di fronte al futuro, di fronte all’eternità. La schiavitù ci fa credere che non possiamo sognare, volare, sperare. Diceva qualche giorno fa un grande artista italiano che per il Signore fu più facile togliere gli israeliti dall’Egitto che togliere l’Egitto dal cuore degli israeliti. Erano stati, “sì”, liberati “materialmente” dalla schiavitù, ma durante la marcia nel deserto con le varie difficoltà e con la fame cominciarono allora a provare nostalgia per l’Egitto e ricordavano quando “mangiavano … cipolle e aglio” (cfr Nm 11,5); ma si dimenticavano però che ne mangiavano al tavolo della schiavitù. Nel nostro cuore si annida la nostalgia della schiavitù, perché apparentemente più rassicurante, più della libertà, che è molto più rischiosa. Come ci piace essere ingabbiati da tanti fuochi d’artificio, apparentemente belli ma che in realtà durano solo pochi istanti! E questo è il regno, questo è il fascino del momento! Da questo esame di coscienza dipende anche, per noi cristiani, la qualità del nostro operare, del nostro vivere, della nostra presenza nella città, del nostro servizio al bene comune, della nostra partecipazione alle istituzioni pubbliche ed ecclesiali. Per tale motivo, ed essendo Vescovo di Roma, vorrei soffermarmi sul nostro vivere a Roma che rappresenta un grande dono, perché significa abitare nella città eterna, significa per un cristiano soprattutto far parte della Chiesa fondata sulla testimonianza e sul martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. E pertanto anche di questo ringraziamo il Signore. Ma al tempo stesso rappresenta una grande responsabilità. E Gesù ha detto: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto» (Lc 12, 48). Dunque domandiamoci: in questa città, in questa Comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti e stanchi? Senz’altro le gravi vicende di corruzione, emerse di recente, richiedono una seria e consapevole conversione dei cuori per una rinascita spirituale e morale, come pure per un rinnovato impegno per costruire una città più giusta e solidale, dove i poveri, i deboli e gli emarginati siano al centro delle nostre preoccupazioni e del nostro agire quotidiano. È necessario un grande e quotidiano atteggiamento di libertà cristiana per avere il coraggio di proclamare, nella nostra Città, che occorre difendere i poveri, e non difendersi dai poveri, che occorre servire i deboli e non servirsi dei deboli! L’insegnamento di un semplice diacono romano ci può aiutare. Quando chiesero a San Lorenzo di portare e mostrare i tesori della Chiesa, portò semplicemente alcuni poveri. Quando in una città i poveri e i deboli sono curati, soccorsi e aiutati a promuoversi nella società, essi si rivelano il tesoro della Chiesa e un tesoro nella società. Invece, quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a “mafiarsi”, quella società si impoverisce fino alla miseria, perde la libertà e preferisce “l’aglio e le cipolle” della schiavitù, della schiavitù del suo egoismo, della schiavitù della sua pusillanimità e quella società cessa di essere cristiana. Cari fratelli e sorelle, concludere l’anno è tornare ad affermare che esiste un’“ultima ora” e che esiste la “pienezza del tempo”. Nel concludere questo anno, nel ringraziare e nel chiedere perdono, ci farà bene domandare la grazia di poter camminare in libertà per poter così riparare i tanti danni fatti e poter difenderci dalla nostalgia della schiavitù, difenderci dal non “nostalgiare” la schiavitù. La Vergine Santa, la Santa Madre di Dio che è proprio al cuore del tempio di Dio, quando il Verbo – che era nel principio – si è fatto uno di noi nel tempo; Ella che ha dato al mondo il Salvatore, ci aiuti ad accoglierLo con cuore aperto, per essere e vivere veramente liberi, come figli di Dio. Così sia. Sicomoro 1

Messaggio del Papa per la Giornata del malato

Messaggio di Papa Francesco per la XXIII Giornata mondiale del malato 2015: Sapientia cordis. «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (Gb 29,15)

Cari fratelli e sorelle, in occasione della XXIII Giornata Mondiale del Malato, istituita da san Giovanni Paolo II, mi rivolgo a tutti voi che portate il peso della malattia e siete in diversi modi uniti alla carne di Cristo sofferente; come pure a voi, professionisti e volontari nell’ambito sanitario. Il tema di quest’anno ci invita a meditare un’espressione del Libro di Giobbe: «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (29,15). Vorrei farlo nella prospettiva della “sapientia cordis”, la sapienza del cuore. 1. Questa sapienza non è una conoscenza teorica, astratta, frutto di ragionamenti. Essa piuttosto, come la descrive san Giacomo nella sua Lettera, è «pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (3,17). È dunque un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio. Facciamo nostra, pertanto, l’invocazione del Salmo: «Insegnaci a contare i nostri giorni / e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 90,12). In questa sapientia cordis, che è dono di Dio, possiamo riassumere i frutti della Giornata Mondiale del Malato. 2. Sapienza del cuore è servire il fratello. Nel discorso di Giobbe che contiene le parole «io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo», si evidenzia la dimensione di servizio ai bisognosi da parte di quest’uomo giusto, che gode di una certa autorità e ha un posto di riguardo tra gli anziani della città. La sua statura morale si manifesta nel servizio al povero che chiede aiuto, come pure nel prendersi cura dell’orfano e della vedova (vv.12-13). Quanti cristiani anche oggi testimoniano, non con le parole, ma con la loro vita radicata in una fede genuina, di essere “occhi per il cieco” e “piedi per lo zoppo”! Persone che stanno vicino ai malati che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi. Questo servizio, specialmente quando si prolunga nel tempo, può diventare faticoso e pesante. È relativamente facile servire per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per mesi o addirittura per anni, anche quando essa non è più in grado di ringraziare. E tuttavia, che grande cammino di santificazione è questo! In quei momenti si può contare in modo particolare sulla vicinanza del Signore, e si è anche di speciale sostegno alla missione della Chiesa. 3. Sapienza del cuore è stare con il fratello. Il tempo passato accanto al malato è un tempo santo. È lode a Dio, che ci conforma all’immagine di suo Figlio, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Gesù stesso ha detto: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27). Chiediamo con viva fede allo Spirito Santo che ci doni la grazia di comprendere il valore dell’accompagnamento, tante volte silenzioso, che ci porta a dedicare tempo a queste sorelle e a questi fratelli, i quali, grazie alla nostra vicinanza e al nostro affetto, si sentono più amati e confortati. Quale grande menzogna invece si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”, per indurre a credere che le vite gravemente affette da malattia non sarebbero degne di essere vissute! 4. Sapienza del cuore è uscire da sé verso il fratello. Il nostro mondo dimentica a volte il valore speciale del tempo speso accanto al letto del malato, perché si è assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro. In fondo, dietro questo atteggiamento c’è spesso una fede tiepida, che ha dimenticato quella parola del Signore che dice: «L’avete fatto a me» (Mt 25,40). Per questo, vorrei ricordare ancora una volta «l’assoluta priorità dell’“uscita da sé verso il fratello” come uno dei due comandamenti principali che fondano ogni norma morale e come il segno più chiaro per fare discernimento sul cammino di crescita spirituale in risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 179). Dalla stessa natura missionaria della Chiesa sgorgano «la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (ibid.). 5. Sapienza del cuore è essere solidali col fratello senza giudicarlo. La carità ha bisogno di tempo. Tempo per curare i malati e tempo per visitarli. Tempo per stare accanto a loro come fecero gli amici di Giobbe: «Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore» (Gb 2,13). Ma gli amici di Giobbe nascondevano dentro di sé un giudizio negativo su di lui: pensavano che la sua sventura fosse la punizione di Dio per una sua colpa. Invece la vera carità è condivisione che non giudica, che non pretende di convertire l’altro; è libera da quella falsa umiltà che sotto sotto cerca approvazione e si compiace del bene fatto. L’esperienza di Giobbe trova la sua autentica risposta solo nella Croce di Gesù, atto supremo di solidarietà di Dio con noi, totalmente gratuito, totalmente misericordioso. E questa risposta d’amore al dramma del dolore umano, specialmente del dolore innocente, rimane per sempre impressa nel corpo di Cristo risorto, in quelle sue piaghe gloriose, che sono scandalo per la fede ma sono anche verifica della fede (cfr Omelia per la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, 27 aprile 2014). Anche quando la malattia, la solitudine e l’inabilità hanno il sopravvento sulla nostra vita di donazione, l’esperienza del dolore può diventare luogo privilegiato della trasmissione della grazia e fonte per acquisire e rafforzare la sapientia cordis. Si comprende perciò come Giobbe, alla fine della sua esperienza, rivolgendosi a Dio possa affermare: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Anche le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede, possono diventare testimoni viventi di una fede che permette di abitare la stessa sofferenza, benché l’uomo con la propria intelligenza non sia capace di comprenderla fino in fondo. 6. Affido questa Giornata Mondiale del Malato alla protezione materna di Maria, che ha accolto nel grembo e generato la Sapienza incarnata, Gesù Cristo, nostro Signore. O Maria, Sede della Sapienza, intercedi quale nostra Madre per tutti i malati e per coloro che se ne prendono cura. Fa’ che, nel servizio al prossimo sofferente e attraverso la stessa esperienza del dolore, possiamo accogliere e far crescere in noi la vera sapienza del cuore. Accompagno questa supplica per tutti voi con la mia Benedizione Apostolica. Sicomoro 2

Il nuovo anno inizia con Maria

Una bellezza scavata nell’abisso delle tenebre

La storia dell’arte cristiana è unica, perché unica è la storia cristiana, cioè la storia di Cristo. Si lascia alle spalle tutta la seduzione dell’arte antica e mette in scena, riscattandola in bellezza, la verità sul cuore dell’uomo e sul cuore di Dio. L’uomo è violento, Dio è buono, come nell’incompiuta Adorazione dei Magi di Leonardo in cui, nella metà alta del quadro, si svolge una cruenta scena di guerra e distruzione. Gli uomini, adoratori di Cristo, sono anche portatori di morte, il cuore che adora è lo stesso che sacrifica l’altro uomo. L’arte cristiana mette in scena la strage degli innocenti, grande risposta storica a tutti coloro che, troppo comodamente, giustificano la non esistenza di Dio a partire dalle stragi. Proprio la venuta del bambino-Dio indifeso smaschera subito la violenza degli Erode di tutta la storia, sacrificatori di innocenti in nome del potere e del dominio, tecnico, politico, sociale, economico… La vicinanza di Dio scatena la violenza dell’uomo perché la smaschera, senza per questo privare l’uomo che continua a fidarsi della compagnia di Dio. Per questo l’arte cristiana ha nella sua faretra una galleria di immagini straordinarie, soprattutto Madonne con il Bambino, che gettano piena luce, nel momento in cui narrano la scena più dolce della vita umana, sull’orrore della violenza dell’uomo, violenza resa evidente proprio perché l’uomo senta il bisogno di essere salvato. Non fuga di vinti nell’aldilà per dimenticare l’aldiqua, secondo l’accusa di Nietzsche, ma al contrario smascheramento proveniente dall’aldilà proprio per farci aprire gli occhi sull’aldiqua, per essere raggiunti nell’aldiqua da un principio che lo trasforma in e attraverso di noi. L’arte cristiana racconta e rappresenta il dolore della vittima, sacrificata per ragioni senza ragione. Una bellezza scavata nell’abisso di tenebra del cuore dell’uomo, da cui zampilla l’acqua pura della grazia trasformante dell’assolutamente buono. Ho scelto tra queste immagini una che amo particolarmente e che si sposa bene con la festa della Madre di Dio. La Madonna greca di Bellini, conservata a Brera. Operando a Venezia, Bellini conosceva bene la tradizione iconografica bizantina, di cui riprende la composizione generale del quadro ma in una nuova sintesi originale. All’oro dello sfondo sostituisce una più quotidiana tenda nera, che ha il compito simbolico di rappresentare il trono delle Madonne di tradizione occidentale, ma serve primariamente a far risaltare le figure come se uscissero fuori dal quadro, fino a toccare non solo gli occhi ma anche il cuore dello spettatore. Bellini muta la fissità frontale delle icone in umanissimo sguardo malinconico di tre quarti, che dà tutto il senso della drammaticità della storia che sta raccontando, quasi che i soggetti del quadro non riescano a guardare negli occhi l’artefice di ciò che accadrà a quel bambino: noi spettatori, messi sottosopra da un quadro, bisognosi di un’inversione di marcia: la conversione. Il bambino poggia il suo corpo pesante su un davanzale, come se stesse per buttarsi in avanti e l’abbraccio della Madonna lo trattiene come qualsiasi bambino in pericolo. Ma quel bambino è in pericolo, si metterà nelle mani di chi guarda il quadro, uscito dalla sua condizione divina per farsi uomo. Ma grazie a Dio le prime mani che incontra sono quelle di Maria, vestita di blu e rosso, divino e umano si intrecciano: come in una Pietà nascosta, sostiene il corpo del figlio, a cui ha dato la vita e che un giorno terrà esanime tra le braccia. E la croce fa capolino non solo nella malinconia del volto del Bambino, ma anche nel frutto che tiene in mano: Maria è la nuova Eva e Cristo il nuovo Adamo. La malinconia non serve a rendere malinconici noi, ma a portarci dentro uno spazio di consapevolezza che l’evento trascendente della sola icona bizantina non basterebbe a raccontare ad un occidentale. Si sposano perfettamente trascendenza e quotidianità, divino e umano, Dio entra nella storia e la storia ha la sua malinconia, dovuta alla violenza umana, l’essere peccatori, cioè distruttori dell’opera di fioritura del creato. Eppure possiamo rallegrarci, perché tutta la malinconia della storia se la prende lui, sul suo corpo, sulle sue spalle, sul suo volto. Si prende la tortura e la morte sulle spalle e le tramuta in amore, ribadendo la sua innocenza, ci apre gli occhi ma non ci condanna. Quello sguardo dice: tu sei violento, ma io ti amo, mi rende triste, ma è per trasformare questa tristezza che sono venuto qui, senza di me non puoi fare nulla. È il motivo per cui questi quadri continueranno ad attirare osservatori distratti o inconsapevoli, che vi troveranno quello che forse non sapevano di cercare e che solo il Dio incarnato può offrire: la verità, senza che essa ci schiacci, perché quella verità ha adesso un volto di bimbo. Ma anche di Madre. La violenza è nella nostra vita sotto molteplici forme: dall’invidia per i successi altrui agli sguardi in cagnesco in una coda al supermercato, da un bambino strangolato a un’insegnante che dice al suo alunno “non combinerai mai nulla di buono”, dalla raccomandazione che mette fuori gioco chi merita un posto alla cresta su un prezzo stabilito dalle leggi, dalla femminilità ridotta a gioco degli occhi e del dominio allo scherno verso chi ha un difetto. L’originalità dell’arte cristiana è l’originalità di Cristo: nel dire il male lo supera, non lo nasconde ma non gli lascia l’ultima parola: neanche il Bambino è solo. Lo tiene saldo la Madre, come dice il monogramma greco ai margini del quadro (MHTHP OEOY, “Madre di Dio”). Non è malinconica come lui, anche se ha già saputo che anche a lei una spada le trafiggerà l’anima, proprio nel momento di massima gioia: la presentazione di quel bambino al tempio pochi giorni dopo la nascita. Dice un proverbio ebraico, che mi ripete spesso mia madre, che Dio creò il mondo e quando vide che non arrivava a tutto creò le madri. È un’intuizione popolare di una verità teologica da far tremare: anche Dio ha avuto bisogno di una madre, per nascere e per resistere alla sua morte. Senza quelle mani di madre nessuno può raggiungere Dio, «sua disianza vuol volar sanz’ali» direbbe Dante: non è forse lei a “costringerlo” ad accelerare i tempi, quando gli uomini non hanno più vino (cioè non hanno più sangue, perché questo viene anticipato a Cana) per far festa. Possiamo cercare quelle mani all’inizio di un nuovo anno, perché la festa non finisca, tutte le volte che non abbiamo più vino. Alessandro D’Avenia La storia dell’arte cristiana è unica, perché unica è la storia cristiana, cioè la storia di Cristo. Si lascia alle spalle tutta la seduzione dell’arte antica e mette in scena, riscattandola in bellezza, la verità sul cuore dell’uomo e sul cuore di Dio. L’uomo è violento, Dio è buono, come nell’incompiuta Adorazione dei Magi di Leonardo in cui, nella metà alta del quadro, si svolge una cruenta scena di guerra e distruzione. Gli uomini, adoratori di Cristo, sono anche portatori di morte, il cuore che adora è lo stesso che sacrifica l’altro uomo. L’arte cristiana mette in scena la strage degli innocenti, grande risposta storica a tutti coloro che, troppo comodamente, giustificano la non esistenza di Dio a partire dalle stragi. Proprio la venuta del bambino-Dio indifeso smaschera subito la violenza degli Erode di tutta la storia, sacrificatori di innocenti in nome del potere e del dominio, tecnico, politico, sociale, economico… La vicinanza di Dio scatena la violenza dell’uomo perché la smaschera, senza per questo privare l’uomo che continua a fidarsi della compagnia di Dio. Per questo l’arte cristiana ha nella sua faretra una galleria di immagini straordinarie, soprattutto Madonne con il Bambino, che gettano piena luce, nel momento in cui narrano la scena più dolce della vita umana, sull’orrore della violenza dell’uomo, violenza resa evidente proprio perché l’uomo senta il bisogno di essere salvato. Non fuga di vinti nell’aldilà per dimenticare l’aldiqua, secondo l’accusa di Nietzsche, ma al contrario smascheramento proveniente dall’aldilà proprio per farci aprire gli occhi sull’aldiqua, per essere raggiunti nell’aldiqua da un principio che lo trasforma in e attraverso di noi. L’arte cristiana racconta e rappresenta il dolore della vittima, sacrificata per ragioni senza ragione. Una bellezza scavata nell’abisso di tenebra del cuore dell’uomo, da cui zampilla l’acqua pura della grazia trasformante dell’assolutamente buono. Ho scelto tra queste immagini una che amo particolarmente e che si sposa bene con la festa della Madre di Dio. La Madonna greca di Bellini, conservata a Brera. Operando a Venezia, Bellini conosceva bene la tradizione iconografica bizantina, di cui riprende la composizione generale del quadro ma in una nuova sintesi originale. All’oro dello sfondo sostituisce una più quotidiana tenda nera, che ha il compito simbolico di rappresentare il trono delle Madonne di tradizione occidentale, ma serve primariamente a far risaltare le figure come se uscissero fuori dal quadro, fino a toccare non solo gli occhi ma anche il cuore dello spettatore. Bellini muta la fissità frontale delle icone in umanissimo sguardo malinconico di tre quarti, che dà tutto il senso della drammaticità della storia che sta raccontando, quasi che i soggetti del quadro non riescano a guardare negli occhi l’artefice di ciò che accadrà a quel bambino: noi spettatori, messi sottosopra da un quadro, bisognosi di un’inversione di marcia: la conversione. Il bambino poggia il suo corpo pesante su un davanzale, come se stesse per buttarsi in avanti e l’abbraccio della Madonna lo trattiene come qualsiasi bambino in pericolo. Ma quel bambino è in pericolo, si metterà nelle mani di chi guarda il quadro, uscito dalla sua condizione divina per farsi uomo. Ma grazie a Dio le prime mani che incontra sono quelle di Maria, vestita di blu e rosso, divino e umano si intrecciano: come in una Pietà nascosta, sostiene il corpo del figlio, a cui ha dato la vita e che un giorno terrà esanime tra le braccia. E la croce fa capolino non solo nella malinconia del volto del Bambino, ma anche nel frutto che tiene in mano: Maria è la nuova Eva e Cristo il nuovo Adamo. La malinconia non serve a rendere malinconici noi, ma a portarci dentro uno spazio di consapevolezza che l’evento trascendente della sola icona bizantina non basterebbe a raccontare ad un occidentale. Si sposano perfettamente trascendenza e quotidianità, divino e umano, Dio entra nella storia e la storia ha la sua malinconia, dovuta alla violenza umana, l’essere peccatori, cioè distruttori dell’opera di fioritura del creato. Eppure possiamo rallegrarci, perché tutta la malinconia della storia se la prende lui, sul suo corpo, sulle sue spalle, sul suo volto. Si prende la tortura e la morte sulle spalle e le tramuta in amore, ribadendo la sua innocenza, ci apre gli occhi ma non ci condanna. Quello sguardo dice: tu sei violento, ma io ti amo, mi rende triste, ma è per trasformare questa tristezza che sono venuto qui, senza di me non puoi fare nulla. È il motivo per cui questi quadri continueranno ad attirare osservatori distratti o inconsapevoli, che vi troveranno quello che forse non sapevano di cercare e che solo il Dio incarnato può offrire: la verità, senza che essa ci schiacci, perché quella verità ha adesso un volto di bimbo. Ma anche di Madre. La violenza è nella nostra vita sotto molteplici forme: dall’invidia per i successi altrui agli sguardi in cagnesco in una coda al supermercato, da un bambino strangolato a un’insegnante che dice al suo alunno “non combinerai mai nulla di buono”, dalla raccomandazione che mette fuori gioco chi merita un posto alla cresta su un prezzo stabilito dalle leggi, dalla femminilità ridotta a gioco degli occhi e del dominio allo scherno verso chi ha un difetto. L’originalità dell’arte cristiana è l’originalità di Cristo: nel dire il male lo supera, non lo nasconde ma non gli lascia l’ultima parola: neanche il Bambino è solo. Lo tiene saldo la Madre, come dice il monogramma greco ai margini del quadro (MHTHP OEOY, “Madre di Dio”). Non è malinconica come lui, anche se ha già saputo che anche a lei una spada le trafiggerà l’anima, proprio nel momento di massima gioia: la presentazione di quel bambino al tempio pochi giorni dopo la nascita. Dice un proverbio ebraico, che mi ripete spesso mia madre, che Dio creò il mondo e quando vide che non arrivava a tutto creò le madri. È un’intuizione popolare di una verità teologica da far tremare: anche Dio ha avuto bisogno di una madre, per nascere e per resistere alla sua morte. Senza quelle mani di madre nessuno può raggiungere Dio, «sua disianza vuol volar sanz’ali» direbbe Dante: non è forse lei a “costringerlo” ad accelerare i tempi, quando gli uomini non hanno più vino (cioè non hanno più sangue, perché questo viene anticipato a Cana) per far festa. Possiamo cercare quelle mani all’inizio di un nuovo anno, perché la festa non finisca, tutte le volte che non abbiamo più vino. Alessandro D’Avenia Sicomoro 3

Il Cristo medico

La cura di Dio

«Come qualsiasi cura è la via per recuperare la salute, così fu della cura adottata da Dio: si rivolse a dei peccatori per guarirli e per rimetterli in salute. E come quando i medici fasciano le ferite lo fanno non alla buona ma con arte, per cui dalla fasciatura deriva non solo un’utilità ma anche una specie di bellezza, così è stato della medicina della Sapienza quando, assumendo l’umanità, si è adeguata alle nostre ferite. Certuni li ha curati con rimedi contrari, altri con rimedi congeneri. Si è comportata come colui che cura le ferite del corpo. Usa, a volte, rimedi contrari, come quando applica cose fredde a ciò che è caldo, cose bagnate a ciò che è asciutto o altri simili rimedi. Usa anche dei rimedi congeneri, come una benda rotonda per una ferita rotonda, una benda allungata per una ferita di forma allungata e, quando esegue la fasciatura, non la fa identica per tutte le membra ma fatta su misura per ogni singolo membro. Così fece la Sapienza di Dio quando volle curare l’uomo: per guarirlo gli offrì se stessa e divenne medico e medicina» (Agostino, De doctrina cristiana I,14,13). Le parole di Agostino mettono in luce quel tema del Cristo medico che non solo era a lui particolarmente caro, ma che aveva trovato anche un’ampia diffusione popolare nel cristianesimo dei primi secoli. Un’antica iscrizione funebre trovata a Timgad (Africa settentrionale) contiene l’invocazione: «Cristo, tu solo medico (Christe, solus medicus), vieni in aiuto…». L’immagine del Cristo medico è quella che maggiormente si è impressa nella tradizione cristiana primitiva, come appare dalla massiccia testimonianza evangelica. La quale, d’altronde, riprende la testimonianza dell’Antico Testamento sul Dio d’Israele, chiamato “Colui che guarisce” (Esodo 15,26). Per quel che riguarda l’Antico Testamento, «guarigioni naturali e miracolose non vengono fondamentalmente distinte. Sia che cooperino disposizioni umane e pratiche o no, è assolutamente essenziale il fatto che il malato nella sua malattia e il convalescente nella sua guarigione incontra Dio, il quale manda mediatamente o senza mediazioni la malattia e la guarigione. Mentre lo stesso Esculapio, dio preminente dell’arte medica, deve tollerare accanto a sé la concorrenza di Apollo e questo a sua volta quella dei figli di Esculapio, Macaone e Iodalerio, per Israele i rapporti con la malattia sono monopolio esclusivo di YHWH. Egli stesso non si ammala o si ferisce come gli dèi, per esempio Horus in Egitto, che Thot deve guarire da una puntura di scorpione» (Hans Walter Wolff). Ora, secondo i vangeli, l’attività terapeutica è centrale nel ministero di Gesù. I vangeli sottolineano che Gesù cura i malati (il verbo greco therapèuein, “curare”, ricorre 36 volte, mentre il verbo iàsthai, “guarire”, si trova 19 volte), e curare significa anzitutto “servire” e “onorare” una persona, averne sollecitudine. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l’unicità e si relaziona a lui con la totalità del suo essere, cogliendone la ricerca di senso, vedendolo come una creatura capace di preghiera e segnata da fragilità, mossa da speranza e disposta all’apertura di fede, desiderosa non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza all’intera sua vita. Il Gesù terapeuta manifesta che ciò che conta è la persona malata, non la sua malattia. I racconti di guarigione lasciano trasparire la lunghezza e la fatica di tali interventi di Gesù: non si tratta di interventi magici, ma di incontri personali, che costano tempo ed energie fisiche e psichiche per condurre colui che sragiona a entrare in una relazione umanizzata (l’indemoniato geraseno: Mc 5,1-20), che chiedono a Gesù di informarsi e di avere ragguagli sulla malattia del ragazzo epilettico per poter intervenire (Mc 9,14-29), che richiedono la ripetizione di gesti terapeutici (come nel caso della guarigione del cieco di Betsaida: Mc 8,22-26), che gli sottraggono forze (come nell’episodio della guarigione dell’emorroissa: Mc 5,25-34). La maggioranza dei lettori dei vangeli attribuiscono le guarigioni, riferite dai quattro vangeli, a Gesù come agente attraverso cui si producono i benefici nel malato. Una simile lettura è sconfessata dalla lettera stessa di tali racconti. L’analisi dei testi implica non solo che ci si debba opporre a tale lettura, ma che si debba anche portare una significativa chiarificazione. Nei racconti di guarigione, normalmente la guarigione è menzionata alla fine, brevemente, ed è l’effetto congiunto di Gesù e di uno o più partner nell’azione. Essa è il frutto della relazione che si è stabilita fra Gesù e chi gli sta accanto, il suo o i suoi interlocutori, i partner nella scena. È la presentazione di questa relazione che occupa la parte principale del racconto. Mai l’uomo è puramente passivo nel racconto di guarigione. A lui è chiesto di aprirsi all’azione di Cristo e in questo è centrale la fede. Il miracolo assume così una struttura dialogica che riflette la struttura stessa della salvezza cristiana, l’incontro tra Cristo e l’uomo bisognoso. La fede è lo spazio e la possibilità di questo incontro. In sostanza, l’attività di guarigione del Cristo medico consiste essenzialmente nello stabilire una relazione vera con la persona che ha di fronte. Possiamo scegliere, fra i tanti, l’esempio della guarigione di un uomo lebbroso. Il testo si trova in Marco 1,40-45: «Venne a Gesù un lebbroso e lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, tu puoi guarirmi”. Mosso a compassione, (Gesù) stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”. Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte». Colpisce anzitutto l’atteggiamento del lebbroso: se la malattia a volte indurisce, incattivisce, isola, porta a nutrire sfiducia verso gli altri e la vita, quest’uomo mostra volontà di vivere e fiducia in Gesù. La guarigione trova nel malato il suo più potente alleato. Egli supera con slancio vitale le barriere poste dalla società fra lui e gli altri e si fa vicino a Gesù, quindi gli dice: «Se vuoi, tu puoi guarirmi». Egli trova finalmente un “tu” con cui relazionarsi, che non lo lascia nell’isolamento a cui erano condannati i lebbrosi, che gli rivolge uno sguardo non omologato, diverso, di condivisione della sua sofferenza e non di paura o di commiserazione, e così lo autorizza a guardarsi lui stesso in modo diverso, più libero e umano. Egli non si chiude nell’autocommiserazione, ma si rimette al buon-volere di Gesù, quasi dicendogli: «Se è tua gioia il guarirmi, io sono convinto che tu puoi farlo»; «Se ti sta a cuore di me, il cammino di guarigione può iniziare». Ciò che cerca è anzitutto una relazione. La guarigione emerge nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa è il sapere che la reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro, che la sua persona e la sua vita sono preziose per un altro. La reazione di Gesù è la compassione (Mc 1,41): si lascia ferire dalla sofferenza del malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Lo tocca e così non solo rischia il contagio, ma si contamina e contrae impurità rituale, che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa esclusione è il prezzo pagato per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale. La carità non è innocente, ma contamina, compromette. Colui che nessuno poteva e voleva più toccare si sente toccato e questo contatto è linguaggio comunicativo e affettivo che trasmette il senso di una presenza amica, linguaggio ben colto da quella pelle che non è solo l’organo di senso più esteso del corpo umano, ma anche il primo luogo dello scambio e dell’esperienza che noi facciamo del mondo e che il mondo fa di noi. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con se stesso, che la sua situazione di isolamento non è senza speranza. L’incontro con l’altro, con questa compromissione tattile così significativa, può aiutare il lebbroso ad accogliere se stesso e a guardarsi con occhi nuovi. La guarigione sta avanzando grazie al ritrovamento di una relazione autentica. Gesù poi riprende le parole del lebbroso stesso quando gli dice: «Lo voglio, sii guarito». Gesù sposa le parole di quell’uomo, si lascia incontrare da lui e fa avvenire in sé qualcosa della diversità che abitava il lebbroso. In effetti, l’episodio si conclude mostrando un Gesù che si trova nella situazione del lebbroso: «Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti» (Mc 1,45). Gesù prende su di sé la sofferenza dell’altro e così appare veramente come il Servo sofferente che ha assunto e portato le malattie e infermità degli umani (Mt 8,16-17). Luciano Manicardi Il Cristo medico

Straniero e multiculturalità: il dato della Rivelazione / 1

Il “caso serio” dello straniero nel tempo della globalizzazione

Il momento storico che viviamo, con i fatti della cronaca e gli scenari nuovi che si vanno delineando anche nel mondo della scuola e delle comunità cristiane, ci porta a pensare che il secolo da poco iniziato sarà il secolo dello straniero per eccellenza. Se, infatti, nelle culture del passato, lo straniero aveva il tratto dell’evento eccezionale e soprattutto traumatico, nel villaggio globale che la tecnica e l’economia vanno instaurando e che noi abitiamo, quella figura diviene sempre più familiare. I tratti che lo identificano, tra l’altro, si presentano ben diversificati perché tra noi non ci sono solo stranieri per turismo, ma soprattutto ci sono gli stranieri per disperazione o, quantomeno, per necessità. Accanto a loro, in una sorta di somiglianza rispetto alla condizione esistenziale dei primi, c’è pure colui che oggi vive questo tempo in una condizione di estraneità nei confronti di se stesso, abitato da un sentimento di spaesamento dell’io nei confronti del suo sé. Quest’ultimo tratto «è la trascrizione psicologica della disidentificazione dell’io con la cultura o con le culture di appartenenza e l’affermazione su di esse della sua alterità e trascendenza»1. Si tratta di quel fenomeno che la postmodernità ci ha recato, espresso nella negazione della ragione universale e nell’esplosione delle ragioni individuali che, mentre potenziano il narcisismo dell’io, creano al contempo sentimenti di grande estraneità. In quel prezioso libretto dal titolo La società dell’incertezza, Bauman pone insieme, quasi specularmente, la condizione degli stranieri oggi con la condizione dell’estraneità dell’uomo. Egli afferma: «Ora gli stranieri sono mal definiti e proteiformi; proprio come l’identità personale che ha fondamenta fragili, instabili, volubili. L’ipséité, quella differenza che separa il sé dal non-io, il “noi” da “loro”, non è più fornita dalla struttura precostituita del mondo, né da un ordine impartito dall’alto. Deve essere costruita e ricostruita, e costruita ancora e ricostruita di nuovo, in entrambe le dimensioni nel medesimo tempo, poiché nessuna può vantare una durata o una “stabilità definita” maggiore dell’altra. Gli stranieri di oggi sono i “prodotti”, ma anche “i mezzi di produzione”, dell’incessante e mai definitivo processo di costruzione dell’identità»2. Di fronte ad un panorama che si va delineando con questi tratti e queste tinte, si fa urgente un nuovo pensiero che accolga la sfida e la novità avanzate dalla figura dello straniero e sia all’altezza di elaborare percorsi nuovi nei quali si invera quel passaggio, tanto auspicato da Daniélou già nel 1951, circa la percezione dello straniero da hostis a hospes, da nemico a ospite3. Potrà essere questa la ragione per la quale il tempo che ci è dato di vivere sia davvero il kairòs per ripensare il rapporto con lo straniero, cogliendone non più la dimensione di minaccia, come storicamente è avvenuto prevalentemente, quanto quella di sacralità, come invece è avvenuto eccezionalmente. Si tratta, dunque, di istituire un pensiero a partire dallo straniero, dove la condizione di estraneità non rappresenta una minaccia da espellere quanto piuttosto una parola da accogliere e che, una volta accolta, genera una nuova etica e un nuovo pensiero al cui centro si erge non più l’io ma l’altro, con il suo volto e la sua storia attraverso cui si riflette una luce che proviene da altrove disegnando una traccia che, per la Scrittura, è proprio quella dell’Assoluto e della Trascendenza nella storia. Che non sia proprio lo straniero, paradossalmente, a prefigurare la futura «identità culturale» di tutti noi? Egli è come la punta avanzata dell’umanità di questo Terzo millennio. Nel volto dello straniero, infatti, si coglie la traccia dell’uomo planetario, globalizzato, che lotta e che cerca di convivere con le «differenze» nella società multietnica, multiculturale e multireligiosa, tenendo ferma la propria identità, ma senza chiudersi in essa4. Il tentativo che vi propongo, dunque, vorrebbe tracciare un sentiero possibile di riflessione sulla figura dello straniero, cifra sintetica dell’alterità, a partire dai dati della Rivelazione. Il mio non sarà un approccio strettamente esegetico, ma non potrò fare a meno di muovermi tra le ricche pagine della Scrittura, individuando alcuni tornanti fondamentali che dischiudono orizzonti estremamente interessanti in rapporto al nostro tema, dal profilo teologico nonché antropologico. Andando alla Bibbia, pertanto, essa ci offre una prospettiva singolare per guardare allo straniero, sfuggendo a quel luogo comune che lo vorrebbe considerare esclusivamente come una minaccia da espellere a favore di uno sguardo positivo, libero dalla paura e ricco di sapienza. Resta vero, tuttavia, che il ricorso alla Scrittura non può essere falsato dal desiderio di trovarvi delle soluzioni ai nostri problemi, magari volendovi leggere risposte già confezionate alle domande odierne. La Bibbia non vuole una lettura puerile delle sue pagine; piuttosto, occorre assumersi la fatica di interpretare le potenti suggestioni che vengono dai suoi racconti come pure dalle sue pagine normative, così da favorire orizzonti di accoglienza, prima di tutto come apertura mentale e poi come ospitalità nei confronti di chi si presenta, appunto, nella sua condizione di straniero. Nella Bibbia lo straniero – come pure il povero, l’orfano, la vedova e il nemico – prima che categorie sociologiche, volte a circoscrivere le diverse identità che compongono l’organismo sociale, per il racconto ebraico-cristiano sono soprattutto categorie teologiche, utilizzate per definire il luogo originario dove Dio si rivela all’uomo e dove costui, al contempo, ridefinisce il reale della propria esistenza nel suo triplice rapporto con il divino, con l’umano e con il mondano. In altri termini, attraverso la figura dello straniero la Bibbia ci dice chi è Dio, l’uomo e la polis nella quale costui vive. Se è vero, infatti, che il luogo in cui Dio accade è l’evento, allora lo straniero ha a che fare con l’accadere di Dio. Colui che attraversa la frontiera, del resto, si rivela, e per questo è figura di Dio stesso. Del resto, il modo in cui Cristo si fa presente non segue altre modalità: «Gesù è straniero per i suoi; e solo un dono di rivelazione può farlo conoscere agli uomini»5. Si faccia attenzione, però, a cogliere questa linea interpretativa nel modo corretto, senza equivocarla: dire che l’estraneità ha un potere rivelante non è un’indicazione immediatamente politica che descriverebbe l’accoglienza indiscriminata dei migranti. Significa, piuttosto, una svolta radicale di paradigma antropologico: laddove l’altro, per la cultura individualistica moderna finisce per rappresentare un’aporia, nell’esperienza cristiana diventa il luogo manifestativo della verità6. Per tale ragione la teologia «ha il compito di parlare dello straniero come persona nell’orizzonte del suo concetto di Dio»7. In questa linea vorrebbe collocarsi il mio intervento. 1 C. Di Sante, Lo straniero nella bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2006, p. 14. 2 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p. 66. 3 J. Daniélou, Pour une théologie de l’hospitalité, in VS 85/1951, p. 340. 4 Cf. A. Nanni, Educare alla convivialità. Un progetto formativo per l’uomo planetario, EMI, Bologna 1994, p. 29. 5 L. Cilia, Gesù straniero tra i suoi nel Vangelo di Giovanni, in I. Cardellini (a cura di), Lo «straniero nella Bibbia». Aspetti storici, istituzionali e teologici, «Ricerche storico-bibliche» 1-2 (1996) p. 250. 6 Si veda l’interessante lettura della figura dello straniero/altro presente in P. Gomarasca, I confini dell’altro. Etica dello spazio multiculturale, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 165. 7 R. Bucher, Die Theologie der Fremde. Die theologische Diskurs und sein anderes, in O. Fuchs (a cura di), Die Fremden, Düsseldorf 1988, pp. 312-319; la citazione è a pagina 319. Vito Mignozzi Facoltà Teologica Pugliese Il momento storico che viviamo, con i fatti della cronaca e gli scenari nuovi che si vanno delineando anche nel mondo della scuola e delle comunità cristiane, ci porta a pensare che il secolo da poco iniziato sarà il secolo dello straniero per eccellenza. Se, infatti, nelle culture del passato, lo straniero aveva il tratto dell’evento eccezionale e soprattutto traumatico, nel villaggio globale che la tecnica e l’economia vanno instaurando e che noi abitiamo, quella figura diviene sempre più familiare. I tratti che lo identificano, tra l’altro, si presentano ben diversificati perché tra noi non ci sono solo stranieri per turismo, ma soprattutto ci sono gli stranieri per disperazione o, quantomeno, per necessità. Accanto a loro, in una sorta di somiglianza rispetto alla condizione esistenziale dei primi, c’è pure colui che oggi vive questo tempo in una condizione di estraneità nei confronti di se stesso, abitato da un sentimento di spaesamento dell’io nei confronti del suo sé. Quest’ultimo tratto «è la trascrizione psicologica della disidentificazione dell’io con la cultura o con le culture di appartenenza e l’affermazione su di esse della sua alterità e trascendenza»1. Si tratta di quel fenomeno che la postmodernità ci ha recato, espresso nella negazione della ragione universale e nell’esplosione delle ragioni individuali che, mentre potenziano il narcisismo dell’io, creano al contempo sentimenti di grande estraneità. In quel prezioso libretto dal titolo La società dell’incertezza, Bauman pone insieme, quasi specularmente, la condizione degli stranieri oggi con la condizione dell’estraneità dell’uomo. Egli afferma: «Ora gli stranieri sono mal definiti e proteiformi; proprio come l’identità personale che ha fondamenta fragili, instabili, volubili. L’ipséité, quella differenza che separa il sé dal non-io, il “noi” da “loro”, non è più fornita dalla struttura precostituita del mondo, né da un ordine impartito dall’alto. Deve essere costruita e ricostruita, e costruita ancora e ricostruita di nuovo, in entrambe le dimensioni nel medesimo tempo, poiché nessuna può vantare una durata o una “stabilità definita” maggiore dell’altra. Gli stranieri di oggi sono i “prodotti”, ma anche “i mezzi di produzione”, dell’incessante e mai definitivo processo di costruzione dell’identità»2. Di fronte ad un panorama che si va delineando con questi tratti e queste tinte, si fa urgente un nuovo pensiero che accolga la sfida e la novità avanzate dalla figura dello straniero e sia all’altezza di elaborare percorsi nuovi nei quali si invera quel passaggio, tanto auspicato da Daniélou già nel 1951, circa la percezione dello straniero da hostis a hospes, da nemico a ospite3. Potrà essere questa la ragione per la quale il tempo che ci è dato di vivere sia davvero il kairòs per ripensare il rapporto con lo straniero, cogliendone non più la dimensione di minaccia, come storicamente è avvenuto prevalentemente, quanto quella di sacralità, come invece è avvenuto eccezionalmente. Si tratta, dunque, di istituire un pensiero a partire dallo straniero, dove la condizione di estraneità non rappresenta una minaccia da espellere quanto piuttosto una parola da accogliere e che, una volta accolta, genera una nuova etica e un nuovo pensiero al cui centro si erge non più l’io ma l’altro, con il suo volto e la sua storia attraverso cui si riflette una luce che proviene da altrove disegnando una traccia che, per la Scrittura, è proprio quella dell’Assoluto e della Trascendenza nella storia. Che non sia proprio lo straniero, paradossalmente, a prefigurare la futura «identità culturale» di tutti noi? Egli è come la punta avanzata dell’umanità di questo Terzo millennio. Nel volto dello straniero, infatti, si coglie la traccia dell’uomo planetario, globalizzato, che lotta e che cerca di convivere con le «differenze» nella società multietnica, multiculturale e multireligiosa, tenendo ferma la propria identità, ma senza chiudersi in essa4. Il tentativo che vi propongo, dunque, vorrebbe tracciare un sentiero possibile di riflessione sulla figura dello straniero, cifra sintetica dell’alterità, a partire dai dati della Rivelazione. Il mio non sarà un approccio strettamente esegetico, ma non potrò fare a meno di muovermi tra le ricche pagine della Scrittura, individuando alcuni tornanti fondamentali che dischiudono orizzonti estremamente interessanti in rapporto al nostro tema, dal profilo teologico nonché antropologico. Andando alla Bibbia, pertanto, essa ci offre una prospettiva singolare per guardare allo straniero, sfuggendo a quel luogo comune che lo vorrebbe considerare esclusivamente come una minaccia da espellere a favore di uno sguardo positivo, libero dalla paura e ricco di sapienza. Resta vero, tuttavia, che il ricorso alla Scrittura non può essere falsato dal desiderio di trovarvi delle soluzioni ai nostri problemi, magari volendovi leggere risposte già confezionate alle domande odierne. La Bibbia non vuole una lettura puerile delle sue pagine; piuttosto, occorre assumersi la fatica di interpretare le potenti suggestioni che vengono dai suoi racconti come pure dalle sue pagine normative, così da favorire orizzonti di accoglienza, prima di tutto come apertura mentale e poi come ospitalità nei confronti di chi si presenta, appunto, nella sua condizione di straniero. Nella Bibbia lo straniero – come pure il povero, l’orfano, la vedova e il nemico – prima che categorie sociologiche, volte a circoscrivere le diverse identità che compongono l’organismo sociale, per il racconto ebraico-cristiano sono soprattutto categorie teologiche, utilizzate per definire il luogo originario dove Dio si rivela all’uomo e dove costui, al contempo, ridefinisce il reale della propria esistenza nel suo triplice rapporto con il divino, con l’umano e con il mondano. In altri termini, attraverso la figura dello straniero la Bibbia ci dice chi è Dio, l’uomo e la polis nella quale costui vive. Se è vero, infatti, che il luogo in cui Dio accade è l’evento, allora lo straniero ha a che fare con l’accadere di Dio. Colui che attraversa la frontiera, del resto, si rivela, e per questo è figura di Dio stesso. Del resto, il modo in cui Cristo si fa presente non segue altre modalità: «Gesù è straniero per i suoi; e solo un dono di rivelazione può farlo conoscere agli uomini»5. Si faccia attenzione, però, a cogliere questa linea interpretativa nel modo corretto, senza equivocarla: dire che l’estraneità ha un potere rivelante non è un’indicazione immediatamente politica che descriverebbe l’accoglienza indiscriminata dei migranti. Significa, piuttosto, una svolta radicale di paradigma antropologico: laddove l’altro, per la cultura individualistica moderna finisce per rappresentare un’aporia, nell’esperienza cristiana diventa il luogo manifestativo della verità6. Per tale ragione la teologia «ha il compito di parlare dello straniero come persona nell’orizzonte del suo concetto di Dio»7. In questa linea vorrebbe collocarsi il mio intervento. 1 C. Di Sante, Lo straniero nella bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2006, p. 14. 2 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p. 66. 3 J. Daniélou, Pour une théologie de l’hospitalité, in VS 85/1951, p. 340. 4 Cf. A. Nanni, Educare alla convivialità. Un progetto formativo per l’uomo planetario, EMI, Bologna 1994, p. 29. 5 L. Cilia, Gesù straniero tra i suoi nel Vangelo di Giovanni, in I. Cardellini (a cura di), Lo «straniero nella Bibbia». Aspetti storici, istituzionali e teologici, «Ricerche storico-bibliche» 1-2 (1996) p. 250. 6 Si veda l’interessante lettura della figura dello straniero/altro presente in P. Gomarasca, I confini dell’altro. Etica dello spazio multiculturale, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 165. 7 R. Bucher, Die Theologie der Fremde. Die theologische Diskurs und sein anderes, in O. Fuchs (a cura di), Die Fremden, Düsseldorf 1988, pp. 312-319; la citazione è a pagina 319. Vito Mignozzi Facoltà Teologica Pugliese Straniero e multiculturalità   Aggiornamento del 24 dicembre 2014

Un impasto di pazienza, parsimonia e leggerezza

Custodire e conservare

Tra i lasciti che nel mondo contadino una generazione trasmetteva all’altra come beni preziosi vi erano due elementi molto concreti e al tempo stesso for­temente simbolici: gli uomini consegnavano ai figli la “madre” dell’aceto, il fermento che trasforma in sapore intenso l’evanescenza del vino; le donne trasmettevano alle figlie la pasta “madre”, il lievito naturale che genera altro pane.

Enzimi che nascevano da realtà quotidiane – un po’ di vino, un impasto di acqua e farina – e che si sviluppavano nell’oscurità di una cantina o nel tepore di una madia. Il vino della gratuità, una volta smarrita la sua forza, riceve nuova vita facendosi agro; il pane della necessità trova nell’acidità del lievito una leggerezza di cui sarebbe incapa­ce. E se la madre dell’aceto sviluppa nel tempo le sue potenzialità da sola, accontentandosi di ricevere ogni tanto un rabbocco di vino, il lievito richiede cura, attenzione, costante rimessa in gioco da parte di chi giorno dopo giorno lo utilizza per il nuovo pane.

Lievito è divenuto fin dai tempi biblici sinonimo di realtà piccola, nascosta ma capace di far muovere grandi masse – il Vangelo lo paragona addirittura al mistero del regno di Dio – di dilatare le dimensioni della materia con cui è mescolato. Ma lievito è anche invito alla pazienza, al saper aspettare i tempi di maturazione, al non perturbare il microclima circostante; è richiamo – stiamo parlando di quello naturale, ottenuto dalla pasta madre – a saper custo­dire, al non consumare tutto ma a mettere da parte qualcosa in vista di un domani in cui il patrimonio del passato diventa pegno per il futuro.

Pazienza, lavoro, mani tenere e braccia robuste, acqua che amalgama, farina che imbianca l’impasto e poi ne divie­ne parte, tepore che stimola… tutta questa fatica e sapienza per ottenere qualcosa di impalpabile: la leggerezza, la sofficità, la fragranza, la complementarietà tra pieno e vuoto.

Certo, anche per la lievitazione, come per ogni lavorìo che richiede pazienza, esistono scorciatoie, accelerazioni chimiche, surrogati che ottengono “quasi” lo stesso risultato: ma quante volte la qualità delle nostre vite si misura proprio su ciò che manca a quel “quasi”, su quella leggerezza naturale che si ha per aggiunta di aria, di soffio, di re­spiro e non per ansia di bruciare le tappe.

Se mangiare pane non lievitato è segno di fretta, di impazienza, di tempi accorciati, mangiare pane secco significa aver lasciato svanire la vivacità del lievito, aver interrotto quel continuo pulsare della crescita al cuore del pane e anche aver spezzato la catena che unisce un impasto di farina con quello che l’ha preceduto.

Chiediamoci allora se nel nostro quotidiano sappiamo custodire quanto ci è stato trasmesso, se riusciamo ad aste­nerci dal consumare tutto e subito, se affrontiamo l’impasto delle nostre esistenze con la leggerezza che le dilata, se ci riconosciamo debitori verso l’amorevole cura di chi ci ha preceduto. Ne va della lievitazione del nostro piacere di vivere.

Enzo Bianchi

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Le 15 malattie che indeboliscono il servizio al Signore

Gli auguri natalizi del Papa alla Curia romana

Discorso di Papa Francesco alla presentazione degli auguri natalizi della Curia Romana (lunedì 22 dicembre 2014):

Cari fratelli,

 Al termine dell’Avvento ci incontriamo per i tradizionali saluti. Tra qualche giorno avremo la gioia di celebrare il Natale del Signore; l’evento di Dio che si fa uomo per salvare gli uomini; la manifestazione dell’amore di Dio che non si limita a darci qualcosa o a inviarci qualche messaggio o taluni messaggeri ma dona a noi sé stesso; il mistero di Dio che prende su di sé la nostra condizione umana e i nostri peccati per rivelarci la sua Vita divina, la sua grazia immensa e il suo perdono gratuito. E’ l’appuntamento con Dio che nasce nella povertà della grotta di Betlemme per insegnarci la potenza dell’umiltà. Infatti, il Natale è anche la festa della luce che non viene accolta dalla gente “eletta” ma dalla gente povera e semplice che aspettava la salvezza del Signore.

Innanzitutto, vorrei augurare a tutti voi – collaboratori, fratelli e sorelle, Rappresentanti pontifici sparsi per il mondo – e a tutti i vostri cari un santo Natale e un felice Anno Nuovo. Desidero ringraziarvi cordialmente, per il vostro impegno quotidiano al servizio della Santa Sede, della Chiesa Cattolica, delle Chiese particolari e del Successore di Pietro.

Essendo noi persone e non numeri o soltanto denominazioni, ricordo in maniera particolare coloro che, durante questo anno, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età o per aver assunto altri ruoli oppure perché sono stati chiamati alla Casa del Padre. Anche a tutti loro e ai loro famigliari va il mio pensiero e gratitudine.

Desidero insieme a voi elevare al Signore un vivo e sentito ringraziamento per l’anno che ci sta lasciando, per gli eventi vissuti e per tutto il bene che Egli ha voluto generosamente compiere attraverso il servizio della Santa Sede, chiedendogli umilmente perdono per le mancanze commesse “in pensieri, parole, opere e omissioni”.

E partendo proprio da questa richiesta di perdono, vorrei che questo nostro incontro e le riflessioni che condividerò con voi diventassero, per tutti noi, un sostegno e uno stimolo a un vero esame di coscienza per preparare il nostro cuore al Santo Natale.

Pensando a questo nostro incontro mi è venuta in mente l’immagine della Chiesa come il Corpo mistico di Gesù Cristo. È un’espressione che, come ebbe a spiegare il Papa Pio XII, «scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri»[1]. Al riguardo san Paolo scrisse: «Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1 Cor 12,12)[2].

In questo senso il Concilio Vaticano II ci ricorda che «nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l’utilità della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1 Cor 12,1-11)»[3]. Perciò «Cristo e la Chiesa formano il “Cristo totale” – Christus totus -. La Chiesa è una con Cristo»[4].

È bello pensare alla Curia Romana come a un piccolo modello della Chiesa, cioè come a un “corpo” che cerca seriamente e quotidianamente di essere più vivo, più sano, più armonioso e più unito in sé stesso e con Cristo. In realtà, la Curia Romana è un corpo complesso, composto da tanti Dicasteri, Consigli, Uffici, Tribunali, Commissioni e da numerosi elementi che non hanno tutti il medesimo compito, ma sono coordinati per un funzionamento efficace, edificante, disciplinato ed esemplare, nonostante le diversità culturali, linguistiche e nazionali dei suoi membri[5].

Comunque, essendo la Curia un corpo dinamico, essa non può vivere senza nutrirsi e senza curarsi. Difatti, la Curia – come la Chiesa – non può vivere senza avere un rapporto vitale, personale, autentico e saldo con Cristo[6]. Un membro della Curia che non si alimenta quotidianamente con quel Cibo diventerà un burocrate (un formalista, un funzionalista, un mero impiegato): un tralcio che si secca e pian piano muore e viene gettato lontano.

La preghiera quotidiana, la partecipazione assidua ai Sacramenti, in modo particolare all’Eucaristia e alla riconciliazione, il contatto quotidiano con la parola di Dio e la spiritualità tradotta in carità vissuta sono l’alimento vitale per ciascuno di noi. Che sia chiaro a tutti noi che senza di Lui non potremo fare nulla (cfr Gv 15, 8). Di conseguenza, il rapporto vivo con Dio alimenta e rafforza anche la comunione con gli altri, cioè tanto più siamo intimamente congiunti a Dio tanto più siamo uniti tra di noi perché lo Spirito di Dio unisce e lo spirito del maligno divide.

La Curia è chiamata a migliorarsi, a migliorarsi sempre e a crescere in comunione, santità e sapienza per realizzare pienamente la sua missione[7]. Eppure essa, come ogni corpo, come ogni corpo umano, è esposta anche alle malattie, al malfunzionamento, all’infermità. E qui vorrei menzionare alcune di queste probabili malattie, malattie curiali.

Sono malattie più abituali nella nostra vita di Curia. Sono malattie e tentazioni che indeboliscono il nostro servizio al Signore. Credo che ci aiuterà il “catalogo” delle malattie – sulla strada dei Padri del deserto, che facevano quei cataloghi – di cui parliamo oggi: ci aiuterà a prepararci al Sacramento della Riconciliazione, che sarà un bel passo di tutti noi per prepararci al Natale.

1. La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile” trascurando i necessari e abituali controlli. Una Curia che non si autocritica, che non si aggiorna, che non cerca di migliorarsi è un corpo infermo. Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfr Lc 12, 13-21) e anche di coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al servizio di tutti.

Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi[8]. L’antidoto a questa epidemia è la grazia di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10).

2. Un’altra: La malattia del “martalismo” (che viene da Marta), dell’eccessiva operosità: ossia di coloro che si immergono nel lavoro, trascurando, inevitabilmente, “la parte migliore”: il sedersi sotto i piedi di Gesù (cfr Lc 10,38-42). Per questo Gesù ha chiamato i suoi discepoli a “riposarsi un po’” (cfr Mc 6,31) perché trascurare il necessario riposo porta allo stress e all’agitazione. Il tempo del riposo, per chi ha portato a termine la propria missione, è necessario, doveroso e va vissuto seriamente: nel trascorrere un po’ di tempo con i famigliari e nel rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica; occorre imparare ciò che insegna il Qoèlet che «c’è un tempo per ogni cosa» (3,1-15).

3. C’è anche la malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che posseggono un cuore di pietra e un “duro collo” (At 7,51-60); di coloro che, strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di Dio” (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per farci piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono!

È la malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2,5-11) perché il loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40). Essere cristiano, infatti, significa «avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità[9].

4. La malattia dell’eccessiva pianificazione e del funzionalismo. Quando l’apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione (cfr Gv 3,8).

Si cade in questa malattia perché «è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo… – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, fantasia, novità»[10].

5. La malattia del cattivo coordinamento. Quando i membri perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo.

6. C’è anche la malattia dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della “storia della salvezza”, della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2,4). Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o meno lungo intervallo di tempo causa gravi handicap alla persona facendola diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie.

Lo vediamo in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non fanno il senso deuteronomico della vita; in coloro che dipendono completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in coloro che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini diventando, sempre di più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani.

7. La malattia della rivalità e della vanagloria[11]. Quando l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificenza diventano l’obiettivo primario della vita, dimenticando le parole di San Paolo: «Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,1-4). È la malattia che ci porta a essere uomini e donne falsi e a vivere un falso “misticismo” e un falso “quietismo”. Lo stesso San Paolo li definisce «nemici della Croce di Cristo» perché «si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra» (Fil 3,19).

8. La malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete.

Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32).

9. La malattia delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi. Di questa malattia ho già parlato tante volte ma mai abbastanza. E’ una malattia grave, che inizia semplicemente, magari solo per fare due chiacchiere e si impadronisce della persona facendola diventare “seminatrice di zizzania” (come satana), e in tanti casi “omicida a sangue freddo” della fama dei propri colleghi e confratelli. È la malattia delle persone vigliacche che non avendo il coraggio di parlare direttamente parlano dietro le spalle. San Paolo ci ammonisce: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri» (Fil 2,14-18). Fratelli, guardiamoci dal terrorismo delle chiacchiere!

10. La malattia di divinizzare i capi: è la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.

11. La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo.

12. La malattia della faccia funerea. Ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile[12] sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé.

L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili[13]. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More[14]: io la prego tutti i giorni, mi fa bene.

13.La malattia dell’accumulare: quando l’apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore accumulando beni materiali, non per necessità, ma solo per sentirsi al sicuro. In realtà, nulla di materiale potremo portare con noi perché “il sudario non ha tasche” e tutti i nostri tesori terreni – anche se sono regali – non potranno mai riempire quel vuoto, anzi lo renderanno sempre più esigente e più profondo. A queste persone il Signore ripete: «Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo … Sii dunque zelante e convertiti» (Ap 3,17-19).

L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente! E penso a un aneddoto: un tempo, i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la “cavalleria leggera della Chiesa”. Ricordo il trasloco di un giovane gesuita che, mentre caricava su di un camion i suoi tanti averi: bagagli, libri, oggetti e regali, si sentì dire, con un saggio sorriso, da un vecchio gesuita che lo stava ad osservare: questa sarebbe la “cavalleria leggera della Chiesa?”. I nostri traslochi sono un segno di questa malattia.

14.La malattia dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al Corpo e, in alcune situazioni, a Cristo stesso. Anche questa malattia inizia sempre da buone intenzioni ma con il passare del tempo schiavizza i membri diventando un cancro che minaccia l’armonia del Corpo e causa tanto male – scandali – specialmente ai nostri fratelli più piccoli. L’autodistruzione o il “fuoco amico” dei commilitoni è il pericolo più subdolo[15]. È il male che colpisce dal di dentro[16]; e, come dice Cristo, «ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11,17).

15.E l’ultima: la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi[17], quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere, e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani o più poteri. è la malattia delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per tale scopo sono capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Naturalmente per esibirsi e dimostrarsi più capaci degli altri. Anche questa malattia fa molto male al Corpo perché porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere tale scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza!

E qui mi viene in mente il ricordo di un sacerdote che chiamava i giornalisti per raccontare loro – e inventare – delle cose private e riservate dei suoi confratelli e parrocchiani. Per lui contava solo vedersi sulle prime pagine, perché così si sentiva “potente e avvincente”, causando tanto male agli altri e alla Chiesa. Poverino!

Fratelli, tali malattie e tali tentazioni sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario.

Occorre chiarire che è solo lo Spirito Santo – l’anima del Corpo Mistico di Cristo, come afferma il Credo Niceno-Costantinopolitano: «Credo… nello Spirito Santo, Signore e vivificatore» – a guarire ogni infermità. È lo Spirito Santo che sostiene ogni sincero sforzo di purificazione e ogni buona volontà di conversione. È Lui a farci capire che ogni membro partecipa alla santificazione del corpo e al suo indebolimento. È Lui il promotore dell’armonia[18]: “Ipse harmonia est”, dice san Basilio. Sant’Agostino ci dice: «Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi»[19].

La guarigione è anche frutto della consapevolezza della malattia e della decisione personale e comunitaria di curarsi sopportando pazientemente e con perseveranza la cura[20].

Dunque, siamo chiamati – in questo tempo di Natale e per tutto il tempo del nostro servizio e della nostra esistenza – a vivere «secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (Ef 4,15-16).

Cari fratelli!

Una volta ho letto che i sacerdoti sono come gli aerei: fanno notizia solo quando cadono, ma ce ne sono tanti che volano. Molti criticano e pochi pregano per loro. È una frase molto simpatica ma anche molto vera, perché delinea l’importanza e la delicatezza del nostro servizio sacerdotale e quanto male potrebbe causare un solo sacerdote che “cade” a tutto il corpo della Chiesa.

Dunque, per non cadere in questi giorni in cui ci prepariamo alla Confessione, chiediamo alla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, di sanare le ferite del peccato che ognuno di noi porta nel suo cuore e di sostenere la Chiesa e la Curia affinché siano sane e risanatrici; sante e santificatrici, a gloria del suo Figlio e per la salvezza nostra e del mondo intero. Chiediamo a Lei di farci amare la Chiesa come l’ha amata Cristo, suo figlio e nostro Signore, e di avere il coraggio di riconoscerci peccatori e bisognosi della sua Misericordia e di non aver paura di abbandonare la nostra mano tra le sue mani materne.

Tanti auguri di un santo Natale a tutti voi, alle vostre famiglie e ai vostri collaboratori. E, per favore, non dimenticate di pregare per me! Grazie di cuore!

[1] Egli afferma che la Chiesa, essendo mysticum Corpus Christi, «richiede anche una moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo … un Corpo costituito non da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse» (Enc. Mystici Corporis, Parte Prima: AAS 35 [1943], 200). [2] Cfr Rm 12,5: «Così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri».

[3] Cost. dogm. Lumen gentium, 7.

[4] Da ricordare che “il paragone della Chiesa con il corpo illumina l’intimo legame tra la Chiesa e Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a Lui; è unificata in Lui, nel suo Corpo. Tre aspetti della Chiesa-Corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l’unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo” Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, N. 789 e 795.

[5] Cfr. Evangelii Gaudium, 130-131.

[6] Gesù più volte aveva fatto conoscere l’unione che i fedeli debbono avere con Lui: “Come il tralcio non può portar frutto da sé stesso se non rimane unito alla vite, così neanche voi, se non rimarrete uniti in Me. Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15, 4-5).

[7] Cfr. Pastor Bounus Art. 1 e CIC can. 360.

[8] Cfr. Evangelii Gaudium, 197-201.

[9] Benedetto XVI Udienza Generale, 01 Giugno 2005.

[10] Francesco, Omelia Santa Messa in Turchia, 30 novembre 2014.

[11] Cfr. Evangelii Gaudium, 95-96.

[12] Ibid, 84-86.

[13] Ibid, 2.

[14] Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri. Amen.

[15] Evangelii Gaudium, 88.

[16] Il Beato Paolo VI riferendosi alla situazione della Chiesa affermò di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio», Omelia di Paolo VI, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Giovedì, 29 giugno 1972. Cfr. Evangelii Gaudium, 98-101.

[17] Cfr. Evangelii Gaudium: No alla mondanità spirituale, N. 93-97.

[18] “Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa. Egli dà la vita, suscita i differenti carismi che arricchiscono il Popolo di Dio e, soprattutto, crea l’unità tra i credenti: di molti fa un corpo solo, il Corpo di Cristo… Lo Spirito Santo fa l’unità della Chiesa: unità nella fede, unità nella carità, unità nella coesione interiore” (Francesco, Omelia Santa Messa in Turchia, 30 novembre 2014).

[19] August. Serm., CXXXVII, 1; Migne, P. L., XXXVIII, 754.

[20] Cfr. Evangelii Gaudium, Pastorale in conversione, n. 25-33. 

scarica l’articolo qui: AeR – Le 15 malattie che indeboliscono il servizio al Signore       Aggiornamento del 21 dicembre 2014

Le parole vere si forgiano nel silenzio

Riflessione sul silenzio di padre Bergoglio

Riflessione sul silenzio tratta dal libretto di Jorge Mario Bergoglio-Papa Francesco intitolato “La forza del pre­sepe”, contentente alcune riflessioni del 1987 dell’allora padre gesuita dedicate alla festa del Natale (ora edite dalla Emi):

L’abate Arsenio diceva d’essersi pentito spesso d’aver parlato, e mai d’aver taciuto. Intendeva che il silenzio è una disciplina interiore alla quale va prestata attenzione. «Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, ca­pace di tenere a freno anche tutto il corpo. Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possia­mo dirigere anche tutto il loro corpo.

Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte da venti gagliardi, con un piccolissimo timone vengono gui­date là dove vuole il pilota. Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inseri­ta nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna.

Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dall’uomo, ma la lingua nessuno la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. Con essa benediciamo il Signore e Pa­dre, e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. Dalla stessa bocca escono benedizione e maledi­zione » (Gc 3,2-10).

Dice santa Teresa: «È grave colpa quando una sorella abitualmente non osserva il silenzio». I Padri del deserto han­no molto insistito su questo punto. A modo di esempio: «Ogni lavoro sarà fonte di abbondanza, ma parlare molto spesso sarà fonte di povertà». «Colui che parla molto fa un danno alla sua anima»; «Il ciarlatano è sempre ignoran­te. Il saggio parla con parsimonia. Parlare molto indica stupidità. La voce dell’insensato moltiplica le parole e gli argomenti»; «Ciò che fai davvero fallo in silenzio e in preghiera».

Tutte queste sentenze si basano sul versetto della Scrittura: «Nel molto parlare non manca la colpa» (Pr 10,19). In­fatti la troppa loquacità indica sempre una certa mancanza di lavoro, un ozio cattivo. San Paolo lo ricorda a propo­sito delle vedove giovani: «Non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene» (1Tm 5,13).

I mezzi di comunicazione di massa ci sottopongono a quella che potremmo chiamare un’«alluvione di parole». Mi domando: «Sono capace di vivere senza la radio? Per quanti giorni?». Esiste un consumismo di parole: parole dol­ci, seduttive, oggettive, colleriche… di ogni tipo. Parole che cercano di entrarci rumorosamente nel cuore e non ap­portano niente alla verità. La Parola ha creato l’universo, la Parola di Dio, che ha detto e tutto fu fatto. La parola che usiamo è stata depotenziata della sua potenza creativa.

E noi infatti lo sappiamo, perché istintivamente diffidiamo delle parole che ci vengono dette, non vi prestiamo fede, diciamo: «Non sono altro che parole… Non hanno niente a che vedere con la verità». Eppure, quanto ci piace ascoltarle! E quando dobbiamo esprimere un sentimento, siccome le parole sono così consumate, a volte non sap­piamo come farlo; e allora ricorriamo a una serie di artifizi, anch’essi menzogneri, che prostituiscono il sentimento: la «formalità», la «provocazione», la parola «sdolcinata» dell’intimista.

Ma il sentimento resta dentro e non sappiamo come esprimerlo nella verità, come esprimerlo in solitudine. Ecco il cuore del problema: se non c’è solitudine non c’è silenzio, e senza entrambi non c’è verità. Il silenzio è l’espressio­ne più alta della solitudine del cuore. Il silenzio trasforma la solitudine in realtà. E quando non cediamo al prurito di ascoltare noi stessi, cioè alla vanità dell’anti-silenzio, sfuggiamo alla solitudine di quelle innumerevoli maniere for­mali, provocatorie, intimistiche, massificanti… Tutte parole che non danno vita, che non nascono da un cuore passato attraverso il crogiolo della solitudine, nella costanza e nell’affetto. Non nascono – in sostanza – da un cuore fecondo.

Le parole vere si forgiano nel silenzio. Più ancora: il nucleo stesso della parola dev’essere silenzioso. Se la parola è vera, nel suo cuore si annida il silenzio. E la parola, una volta pronunciata, torna al silenzio abissale e fecondo da cui proveniva. La parola muore per fare posto all’amore, alla bellezza, alla verità, che proprio essa ha portato.

Ce lo ricordava acutamente sant’Agostino: «Giovanni la voce, il Signore, invece, in principio era il Verbo. Giovan­ni voce nel tempo, Cristo in principio Parola eterna. […] La voce, senza la parola, colpisce l’orecchio, non apporta nulla alla mente. […] la parola, a te recata dal suono, è ormai nella tua mente e non si è allontanata dalla mia. Per­ciò il suono, proprio il suono, quando la parola è penetrata in te, non ti sembra dire: Egli deve crescere ed io, inve­ce, diminuire? La sonorità della voce ha vibrato nel far servizio, quindi si è allontanata, come per dire: questa mia gioia è completa. Conserviamo la parola, badiamo a non perdere la parola concepita nel profondo dell’essere».

La nostra parola, il nostro parlare, che nasce dal silenzio, dev’essere contenta di morire tornando al silenzio da cui era uscita. Il silenzio c’insegna a parlare, dà forza alla parola, la quale – per questo silenzio che racchiude – non è mero rumore (cfr. 1Cor 13,1). Il silenzio c’insegna a parlare perché mantiene nel nostro intimo il fervore religioso, l’attenzione allo Spirito Santo. Il silenzio alleva la vita dello Spirito Santo in noi.

Al riguardo dice Diadoco di Fotica: «Tenendo aperte di continuo le porte del bagno si perde il calore dell’ambiente interno; così, quando l’anima cede al desiderio del troppo parlare, anche se è bene ciò che dice, disperde l’intima presenza a sé stessa per la porta della voce. Priva dei pensieri giusti, manifesta in modo tumultuoso a chiunque le capiti il susseguirsi dei suoi pensieri, perché non possiede più lo Spirito Santo che la preservi dalla dissipazione, con pensieri privi di immagini sensibili. Il bene rifugge dalla loquacità, alieno com’è dal tumultuoso fantasticare. Grande cosa è il silenzio opportuno, è il padre del pensiero penetrante».

Altrove parla di «avida ricerca di silenzio» da parte del cuore che voglia custodire la vita divina dentro di sé. Si tratta di quel «silenzio lungi dal pesare ad alcuno» a cui si riferisce santa Teresa.

I Padri del deserto riferivano al silenzio la nostra vita di pellegrini. Dicevano: Peregrinatio est tacere («Il pellegri­naggio consiste nel tacere»). Questo «peregrinare» è «essere alla ricerca di una patria» (Eb 11,14) senza lasciarsi ir­retire da questa patria terrena. Parlare ci inserisce nelle questioni del mondo. La nostra missione apostolica ci obbli­ga a parlare. Ma quando in questo parlare manca il nucleo del silenzio che ci rende pellegrini, finiamo per lasciarci corrompere dallo spirito del mondo, «piantiamo le tende nel mondo».

Allora sperimentiamo quel sentimento interiore di fallimento che l’eccesso delle parole ha la caratteristica di lascia­re nel cuore. Le parole c’intrattengono e ci fanno scordare che siamo pellegrini. È proprio il silenzio a mantenerci nella nostra condizione di pellegrini. «Vigilerò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua; metterò il morso alla mia bocca finché [poiché sono pellegrino] ho davanti il malvagio» (Sal 39,2).

Sant’Ignazio, quando si riferisce al silenzio, parla volentieri di «tranquillità» e «modestia» dell’anima. È significati­vo che tutte le doti del silenzio vengano applicate all’immagine che egli delinea dei fratelli coadiutori. Quasi che costoro debbano costituire il bastione silenzioso di una comunità, affinché quest’ultima sia in grado di parlare bene agli uomini. Ci sono anche le Regole della modestia. Ma voglio piuttosto rimarcare che sant’Ignazio non menziona il silenzio soltanto come mezzo per la vita spirituale, per la preghiera, per gli Esercizi e via dicendo, ma invece mira a una concezione del silenzio che, nella vita del gesuita, è totalizzante.

Il gesuita «tranquillo», «modesto», «silenzioso » non è un ingenuo che esclude dalla propria comprensione le voci e i rumori che gli giungono. Al contrario, dev’essere pienamente consapevole di tutti questi suoni che vengono a bus­sare alla porta del suo cuore, così come dei suoni che escono dal suo stesso cuore, in modo da accogliere quelli buoni e respingere quelli cattivi.

Parla del silenzio l’apostolo Giacomo quando scrive: «Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di con­tesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità» (3,14). Quando nel tuo cuore non c’è silenzio, quando c’è un rumore cattivo, non esprimerlo sotto le mille forme della vanagloria: il sarcasmo, la vanità, l’intimismo, la fatui­tà, il pettegolezzo, il fare contrariato e tormentato, il bisogno di avere sempre qualcosa da ridire. Amarezze, affetti disordinati, risentimenti, il cullarsi nel proprio egoismo… tutte queste cose sono mancanza di silenzio interiore e corrompono la verità.

Infine, il silenzio è l’espressione più alta e più quotidiana della dignità. Tanto più nei momenti di prova e di croci­fissione, quando la carne vorrebbe giustificarsi e sottrarsi alla croce. Nel momento supremo dell’ingiustizia, «Gesù taceva» (Mt 26,63; cfr. anche Is 53,7; At 8,32). Non è stato al gioco del rispondere a quanti gli dicevano di scende­re dalla croce. Tutta la pazienza di Dio, la pazienza di secoli, e anche il suo affetto, emergono qui, in questo silen­zio del Cristo umiliato. Nella storia degli uomini fanno irruzione il silenzio eterno della Parola, la «contemplatività» amorosa del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, tutta la comunione trinitaria dal silenzio dei secoli.

È Parola, ma Parola che – nell’ora dell’annientamento provocato dall’ingiustizia – si fa silenzio. Iesus autem tace­bat. Contempliamo tutto il «viaggio» della Parola di Dio (cfr. Gv 1,1; 14,2-3; 14,10; 16,28); come si fa tenerezza nel seno di una Madre. Questa Madre «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Nel cuore silenzioso di Maria ha sede la memoria della Chiesa. Il silenzio «incarnato» del Verbo si esprime in quel mo­mento d’ingiustizia, di umiliazione, di annientamento, nell’ora del potere delle tenebre. Quella è la dignità di Gesù, ed è anche la nostra. 

AeR – Le parole vere si forgiano nel silenzio

In lotta contro il tempo vuoto

La sfida del quotidiano

Perché ci alziamo dal letto la mattina? Detto altrimenti, con il fulminante incipit de Il mito di Sisifo di Albert Camus: «Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale». Sì, perché tutti noi ci troviamo a fare i conti con la fatica del quotidiano, che spesso ci logora, con i suoi problemi che sfociano nell’assurdo, nel non senso.

I disagi economici, la gestione del tempo, i dubbi, le piccole e grandi sofferen­ze… La sfida più grande è davvero quella delle piccole cose di ogni giorno. A volte ci sembra di tirare avanti, di essere inesorabilmente incastrati in un grande meccanismo, ma sembra che ci sfugga una vita autentica. A qualcuno scappa da dire: “Non ce la faccio più!”. A volte si perde la bussola…

C’è, nel Vangelo di Marco, una risposta a questi interrogativi e a queste contraddizioni? Proseguendo nella lettura, il primo capitolo si chiude con una significativa sezione che gli esegeti definiscono la “giornata tipo” di Gesù (cfr. 1,14-45), così strutturata: sommario dell’attività di Gesù (1,14-15); chiamata dei primi discepoli (1,16-20); esorci­smo (1,21-28); guarigione della suocera di Pietro (1,29-31); varie guarigioni (1,32-39); guarigione di un lebbroso (1,40-45).

È uno sguardo molto diretto, scandito da una narrazione serrata, sulla quotidianità di Gesù, che sembra molto lonta­na dalla nostra, estranea. Però, da una lettura attenta possiamo ricavare delle “chiavi” che ci aiutano a rileggere la nostra quotidianità, a darci delle priorità. C’è un particolare che può essere di aiuto nella comprensione, quando viene sintetizzato il messaggio che Gesù predicava nei villaggi della Galilea: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (1,15).

Questo versetto ci chiede una scelta di fondo, mette alla prova le nostre convinzioni: la nostra vita è una nube che passa e svanisce, o va verso un approdo? Navighiamo alla cieca, o abbiamo un porto da raggiungere? Gesù dice di sì! “Il tempo è compiuto”, si legge. È una delle due ricorrenze in Marco del verbo plēróō (l’altra è in Mc 14,49: quando Gesù viene arrestato).

È un verbo che significa “compiere”, ma può anche significare “riempire”. Possiamo leggere, allora, “Il tempo è riempito”. Gesù non viveva un tempo vuoto, assurdo. Il suo tempo era pieno di vita, pieno di senso, pieno di orien­tamento, pieno di relazioni. Proprio quell’ossigeno che a volte ci sembra mancare e ci accorcia il respiro.

Ecco, allora, che la sua parola era vera, significativa: il Vangelo dice che aveva autorità (cfr. 1,22). Era una persona che viveva quel che diceva. Infatti, anche i suoi gesti non erano vuoti. Portavano vita agli altri. Questo è il senso dei racconti di guarigione. Quando incontriamo le persone, noi poniamo gesti e parole di vita, d’incontro, di relazione? Questo fa la differenza.

A volte vorremmo fuggire dal nostro quotidiano, ma la vera sfida è abitarlo, “riempirlo” di vita negli incontri con le persone. È nella quotidianità del loro lavoro che Gesù incontra i discepoli: il luogo della fede non è la chiesa, come spazio separato dal mondo, è la vita di ogni giorno, dove abbiamo la possibilità, piccola o grande, di realizzare co­munione, presenza, solidarietà oppure divisione e indifferenza. Spesso, la frustrazione ci sovrasta proprio perché ci sentiamo soli e isolati.

C’è un “segreto” di Gesù, che spiega come riuscisse a riempire il proprio tempo: «Al mattino presto si alzava quan­do era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (1,35). Dobbiamo lottare per il nostro tem­po, per la nostra libertà, per avere spazi di silenzio, ascolto, interiorità. Se no, ci perdiamo, manca unità nel nostro vivere. La preghiera ci fa trovare questa unità.

Christian Albini

AeR – In lotta contro il tempo vuoto

Il vero cristiano non perde mai la pace

Omelia del Papa in visita pastorale

Omelia di Papa Francesco per la visita pastorale alla parrocchia romana di San Giuseppe all’Aurelio (domenica 14 dicembre 2014):

La Chiesa, in questa domenica, anticipa un po’ la gioia del Natale, e per questo si chiama “la domenica della gioia”. In questo tempo, tempo di preparazione al Natale, per la Messa indossiamo i paramenti scuri, ma oggi ci sono que­sti rosa, perché fiorisce la gioia del Natale. E la gioia del Natale è una gioia speciale; ma è una gioia che non è solo per il giorno di Natale, è per tutta la vita del cristiano. E’ una gioia serena, tranquilla, una gioia che sempre accom­pagna il cristiano. Anche nei momenti difficili, nei momenti di difficoltà, questa gioia diventa pace.

Il cristiano non perde mai la pace, quando è vero cristiano, anche nelle sofferenze. Quella pace è un dono del Si­gnore. La gioia cristiana è un dono del Signore. “Ah, Padre, noi facciamo un bel pranzone, tutti contenti”. Questo è bello, un bel pranzone sta bene; ma questa non è la gioia cristiana della quale parliamo oggi, la gioia cristiana è un’altra cosa. Ci porta anche a fare festa, è vero, ma è un’altra cosa. E per questo, la Chiesa vuol far capire che cosa sia questa gioia cristiana.

L’Apostolo san Paolo ai Tessalonicesi dice: “Fratelli, siate sempre lieti”. E come posso essere lieto? Lui dice: “Pre­gate, ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie”. La gioia cristiana la troviamo nella preghiera, viene dalla pre­ghiera e anche dal rendere grazie a Dio: “Grazie, Signore, per tante cose belle!”. Ma ci sono persone che non sanno ringraziare Dio: cercano sempre qualcosa per lamentarsi. Io conoscevo una suora – lontano da qui! – questa suora era buona, lavorava… ma la sua vita era lamentarsi, lamentarsi di tante cose che succedevano…. Nel convento la chiamavano “Suor Lamentela”, si capisce.

Ma un cristiano non può vivere così, sempre cercando di lamentarsi: “Quello ha qualcosa che io non ho, quello… Hai visto che cosa è successo?…”. Questo non è cristiano! E fa male trovare cristiani con la faccia amareggiata, con quella faccia inquieta dell’amarezza, che non è in pace. Mai, mai un santo o una santa ha avuto la faccia fune­bre, mai! I santi hanno sempre la faccia della gioia. O almeno, nelle sofferenze, la faccia della pace. La sofferenza massima, il martirio di Gesù: Lui aveva quel volto di pace e si preoccupava degli altri: della mamma, di Giovanni, del ladrone… si preoccupava degli altri.

Per avere questa gioia cristiana, primo, pregare; secondo, rendere grazie. E come faccio, per rendere grazie? Ricor­da la tua vita, e pensa a tante cose buone che la vita ti ha dato: tante. “Ma, Padre, è vero, ma io ho ricevuto tante cose cattive!” – “Sì, è vero, succede a tutti. Ma pensa alle cose buone” – “Io ho avuto una famiglia cristiana, geni­tori cristiani, grazie a Dio ho un lavoro, la mia famiglia non soffre la fame, siamo tutti sani…”. Non so, tante cose, e rendere grazie al Signore per questo. E questo ci abitua alla gioia. Pregare, rendere grazie…

E poi, la prima Lettura ci suggerisce un’altra dimensione che ci aiuterà ad avere la gioia: è portare agli altri il lieto annuncio. Noi siamo cristiani. “Cristiani” viene da “Cristo”, e “Cristo” significa “unto”. E noi siamo “unti”: lo Spi­rito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione. Noi siamo unti: cristiani vuol dire “unti”.

E perché siamo unti? Per fare che cosa? “Mi ha mandato a portare il lieto annuncio” a chi? “Ai miseri”, “a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore” (cfr Is 61,1-2). Questa è la vocazione di Cristo e anche la vocazione dei cristiani. An­dare agli altri, a quelli che hanno bisogno, sia bisogni materiali, sia spirituali… Tanta gente che soffre angoscia per problemi familiari… Portare la pace lì, portare l’unzione di Gesù, quell’olio di Gesù che fa tanto bene e consola le anime.

Dunque, per avere questa gioia nella preparazione del Natale, primo, pregare: “Signore, che io viva questo Natale con la vera gioia”. Non con la gioia del consumismo che ci porta al 24 dicembre tutti in ansia, perché “Ah, mi man­ca questo, mi manca quello…”. No, questa non è la gioia di Dio. Pregare. Secondo: rendere grazie al Signore per le cose buone che ci ha dato. Terzo, pensare come posso andare agli altri, a quelli che hanno difficoltà, problemi – pensiamo agli ammalati, a tanti problemi – a portare un po’ di unzione, di pace, di gioia. Questa è la gioia del cristiano. D’accordo?

Mancano appena 15 giorni, un po’ di meno: 13 giorni. In questi giorni, preghiamo. Ma non dimenticate: preghiamo chiedendo la gioia del Natale. Rendiamo grazie a Dio per tante cose che ci ha dato, prima di tutto la fede. Questa è una grazia grande. Terzo, pensiamo dove io posso andare a portare un po’ di sollievo, di pace a quelli che soffrono. Preghiera, rendimento di grazie e aiuto agli altri. E così arriveremo al Natale dell’Unto, del Cristo, unti di grazia, di preghiera, di azione di grazia e di aiuto agli altri.

Che la Madonna ci accompagni in questa strada verso il Natale. Ma la gioia, la gioia!

AeR – Il vero cristiano non perde mai la pace     Aggiornamento del 17 dicembre 2014  Puro dono è la dote della terra

L’importanza dei patti

Per capire e rivivere, qui ed ora, il grande messaggio delle “dieci parole” dona­te da Elohim-YHWH, ci sarebbe bisogno di una cultura dell’alleanza, di una ci­viltà delle promesse fedeli, capace di patti, che riconosca il valore del “per sem­pre”. Una grande nota del nostro tempo è invece la trasformazione di tutti i pat­ti in contratti, una nota che risuona sempre più forte fino a coprire tutti gli altri suoni del concerto della vita in comune.

Lo vediamo con estrema nitidezza nell’ambito dei rapporti familiari, ma anche nel mondo del lavoro, dove le relazioni lavorative che nel XX secolo erano state concepite e descritte ricorrendo al registro relazionale del patto, oggi si stanno sempre più appiattendo sul solo contratto. Come se la moneta potesse compensare sogni, progetti, attese, la fioritura umana, soprattutto quella dei giovani. Stiamo smarrendo il principio alla base di ogni civiltà capace di futuro: che ai giovani va dato credito, va donata fiducia quando ancora non la me­ritano perché non la possono meritare.

Credito e fiducia ricevuti, che domani potranno e dovranno a loro volta ridonare ai nuovi giovani. Il lavoro cresce e vive in questa amicizia e solidarietà attraverso il tempo, si nutre di questa reciprocità intertemporale. Senza questa staffetta generosa tra generazioni, il lavoro non nasce o nasce male, perché gli manca l’humus della gratuità e dei patti. Ma non lo capiamo più, e così ci stiamo perdendo. Forse avremmo bisogno di rivedere la nube e il fuoco, riu­dire il tuono dell’Oreb; avremmo bisogno dei profeti, dei loro occhi, della loro voce. Mentre Mosè ascolta le dieci parole dentro la nube del Sinai, il popolo “vede” i segni della presenza di Dio, e ha paura: «Allora dissero a Mosè: “Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”». (Esodo 20,19). E Mosè: «Non abbiate paura» (20,20). Ritornano qui, alle pendici del monte, quelle stesse parole – «non abbiate paura» – che aveva pronunciato nei pressi del Mare, quando il popolo si sentiva schiacciato tra gli egi­ziani e il muro delle acque (14,13). I profeti sono necessari sempre, ma sono indispensabili nei tempi delle paure collettive.

Fuori dall’Egitto, il popolo si sta abituando un po’ alla volta all’idea di un Elohim diverso, che lo ha liberato dalla schiavitù, che lo ama ed è misericordioso. Ma il processo è lungo e difficile, perché l’esperienza religiosa dell’uomo antico, inclusa quella dei popoli circostanti Israele, è primariamente quella della paura, del timore, della colpa.

Occorre sacrificare agli dei gli animali migliori e offrire loro le primizie perché plachino la loro ira e siano benigni. YHWH sta offrendo al suo popolo un’altra esperienza religiosa, un altro “timore di Dio” (20,20), che da paura delle divinità diventa sempre più “timore di uscire dall’alleanza con YHWH”. La rivelazione di un altro volto di Dio è stata un processo lento e accidentato, che si è svolta nel tempo e nello spazio concreti. Questa dimensione storica e geografica della Torah emerge con grande forza e chiarezza nel cosiddetto “Codice dell’Alleanza”, quella lunga e mirabile raccolta di norme, raccomandazioni, leggi, una sorta di commento, di appli­cazione e concretizzazione del decalogo. In questi capitoli dell’Esodo si sente l’eco (a tratti nitidissima) delle leggi dei popoli semitici, del codice di Hammurabi, e della grande sapienza popolare maturata nel dolore e nell’amore della gente lungo i secoli e i millenni.

Quel popolo dal Dio diverso, l’Elohim che parla e non si vede, volle porre quelle parole di sapienza-dolore-amore a corredo delle dieci parole di YWHW, donando loro una dignità altissima. Volle con quelle parole terrestri risponde­re al dono delle parole celesti. È la dote della terra, il dono per le nozze dell’Alleanza, la risposta al dono della Leg­ge.

L’Alleanza è reciprocità anche perché è un dialogo tra cielo e terra, dove le parole inedite e nuove che squarciano la nube si incontrano con le parole terrestri fiorite dalle ferite amate della storia dell’Adam, creato a immagine della voce che aveva detto le dieci parole. L’Esodo ci dice allora che l’asino sfiancato dal peso, il bue che cozza e uccide, il feto della donna schiava, la festa del raccolto, possono stare vicino al «Non uccidere» e al «Non ti farai idoli». Tutta parola che salva e libera. Sta qui, in questo impasto di parole di cielo con parole di terra, il cuore dell’umane­simo biblico. Incastonate in questo grande “Codice dell’Alleanza”, si trovano delle autentiche perle eterne di civiltà, che devono arrivare dentro i nostri giorni, per cambiarli o quantomeno scuoterli, per mandare in crisi le nostre certezze. «Quan­do tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza ri­scatto» (21,2). Anche in Israele c’erano gli schiavi (sebbene, in modo significativo, solo dopo la monarchia). Anche nel popolo di un Dio che si presenta sul Sinai come liberatore dalla schiavitù, che è l’anti-idolo perché nemico delle schiavitù, esistevano schiavi.

È uno dei paradossi dell’incarnazione della parola nella storia, che però ci dice molte cose. Questi schiavi erano persone “acquistate” (qnh, è un verbo usato per gli acquisti in moneta), dei debitori insolventi che perdevano la li­bertà perché non riuscivano a restituire i prestiti ricevuti. E con loro spesso finivano schiavi anche moglie, figli, e soprattutto figlie (21,3–5).

Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, dove imprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riescono a ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche la vita.

Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; ma ci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ci ricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza nessuna colpa: non tutti i debitori insolventi sono colpevoli.

Persone ridotte in condizione di schiavitù non solo dalle mafie e dagli usurai, ma anche da società finanziarie e ban­che protette dalle nostre “leggi” scritte troppo spesso dai potenti contro i deboli. Ma noi, diversamente dal popolo del Sinai, non riusciamo a chiamare per nome (”schiavi”) questi sventurati, e nessuna legge li libera alla scadenza del settimo anno.

Eppure quella antica Legge continua a ripeterci da millenni che nessuna schiavitù deve essere per sempre, perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi, veramente, fratelli e sorelle. Perché la ricchezza che possediamo, e che prestiamo ad un altro, prima di essere nostra proprietà privata è dono ricevuto, è provvidenza, perché «mia è tutta la terra» (19,5).

Il riconoscimento che la ricchezza e la terra che possediamo non sono dominio assoluto perché prima sono dono, ispira tutta la legislazione biblica sul denaro e sui beni. Quando, invece, noi oggi pensiamo che la nostra ricchezza sia solo conquista individuale e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavi non vengono liberati mai, la giustizia diventa filantropia. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose è invenzione tipica della no­stra civiltà, ma non è la logica del Sinai, non è la legge vera della vita. Dentro questa grande cornice vanno lette anche le parole del Codice dell’alleanza sui doveri verso il nemico, il di­vieto di chiedere gli interessi sul denaro all’indigente, la legge del mantello: «Quando vedrai l’asino di colui che ti odia accasciarsi sotto il carico, astieniti dal rimuoverlo solo per la bestia, ma lo devi rimuovere insieme a colui che ti odia» (23,5). Non è sufficiente sollevare l’asino accasciato per pietà verso la povera bestia: quell’incidente deve diventare occasione per la riconciliazione con il fratello-nemico che ti odia. Nessun nemico cessa di essere fratello, e il dolore dell’umile asino deve diventare via di ricomposizione della fraternità spezzata.

«Se tu presti al mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai da creditore, non imporrai su di lui inte­resse alcuno» (22,24). All’indigente non si presta a scopo di lucro, non si specula sulle povertà. E invece nel siste­ma economico che abbiamo costruito fuori dall’Alleanza, sono soprattutto i poveri, non i ricchi né i potenti, ad es­sere ridotti in schiavitù da interessi sbagliati e insostenibili.

E il povero continua a gridare. «Se veramente prendi in prestito in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo rende­rei al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello della sua pelle, con che cosa potrebbe dormire? Avverrà che quando griderà verso di me, io lo ascolterò, perché io sono misericordioso» (22,26). Dovremmo provare a scrivere una nuova economia a partire dalla “legge del mantello del povero”; almeno imma­ginarla, sognarla, desiderarla, se vogliamo essere degni della voce del Sinai. Dovremmo stampare e affiggere que­ste parole dell’Esodo sugli stipiti delle nostre banche, sulle porte delle agenzie delle entrate, nelle aule dei tribunali, di fronte alle nostre chiese. Troppi poveri sono lasciati “nudi e senza mantello” nella notte, e muoiono al freddo delle nostre città opulente.

 Ma il loro grido non resta inascoltato: sono tanti, anche oggi, le persone animate da carismi che tutte le sere copro­no con i loro mantelli molti poveri delle mille Stazioni Termini del mondo. Non sono sufficienti a coprire le troppe pelli ancora denudate di giorno e di notte. Ma la loro presenza rende vive e vere quelle antiche parole di vita, che così possono parlarci più forte, scuoterci, farci dormire meno tranquilli al caldo dei nostri molti mantelli.

Luigino Bruni

Approfondiamo e ………. Riflettiamo – La dote della terra   Nuovi modelli di sviluppo, tra tradizione cristiana e progresso civile Omelia di Papa Francesco per la celebrazione eucaristica nella festività di Nostra Signora di Guadalupe (Basilica Vaticana, venerdì 12 dicembre 2014):

 Ti lodino, Signore, tutti i popoli. Abbi pietà di noi e donaci la tua benedizione. Rivolgi, Signore, i tuoi occhi verso di noi. Conosca la terra la tua bontà e i popoli la tua salvezza. Le nazioni con giubilo ti cantino, perché giudichi il mondo con giustizia” (cfr Sal 66).

La preghiera del salmista, di  supplica di perdono e di benedizione dei popoli e delle nazioni e, allo stesso tempo, di lode gioiosa, aiuta ad esprimere il senso spirituale di questa celebrazione. Sono i popoli e le nazioni della nostra grande Patria latinoamericana quelli che oggi commemorano con gratitudine e gioia la festività della loro Patrona, Nostra Signora di Guadalupe, la cui devozione si estende dall’Alaska fino alla Patagonia. E dall’Arcangelo Gabrie­le e santa Elisabetta fino a noi, si innalza la nostra preghiera filiale: “Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te…” (Lc 1,28).

In questa festività di Nostra Signora di Guadalupe, facciamo prima di tutto grata memoria della sua visita e vicinan­za materna; cantiamo con Lei il suo “magnificat”; e le affidiamo la vita dei nostri popoli e la missione continentale della Chiesa.

Quando apparve a san Juan Diego nel Tepeyac, si presentò come la “perfetta sempre Vergine Santa Maria, Madre del vero Dio” (Nican Mopohua); e diede luogo ad una nuova “visitazione”. Corse premurosa ad abbracciare anche i nuovi popoli americani, in una drammatica gestazione. Fu come un “grande segno apparso nel cielo… una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi” (cfr Ap 12,1), che assume in sé la simbologia culturale e religiosa dei popoli originari, e annuncia e dona suo Figlio a tutti questi altri nuovi popoli di meticciato lacerato.

Tanti saltarono di gioia e speranza davanti alla sua visita e davanti al dono di suo Figlio, e la perfetta discepola del Signore è diventata la “grande missionaria che portò il Vangelo alla nostra America” (Documento di Aparecida, 269). Il Figlio di Maria Santissima, Immacolata incinta, si rivela così dalle origini della storia dei nuovi popoli come “il verissimo Dio grazie al quale si vive”, buona novella della dignità filiale di tutti suoi abitanti. Ormai più nessuno è solamente servo, ma tutti siamo figli di uno stesso Padre, fratelli tra di noi e servi nel Servo.

La Santa Madre di Dio ha visitato questi popoli e ha voluto rimanere con loro. Ha lasciato stampata misteriosamen­te la sua sacra immagine nella “tilma” del suo messaggero perché la avessimo ben presente, diventando così simbo­lo dell’alleanza di Maria con queste genti, a cui conferisce anima e tenerezza.

Per sua intercessione la fede cristiana ha incominciato a diventare il più ricco tesoro dell’anima dei popoli america­ni, la cui perla preziosa è Gesù Cristo: un patrimonio che si trasmette e manifesta fino ad oggi nel battesimo di mol­titudini di persone, nella fede, nella speranza e nella carità di molti, nella preziosità della pietà popolare e anche in quell’ethos americano che si mostra nella consapevolezza della dignità della persona umana, nella passione per la giustizia, nella solidarietà con i più poveri e sofferenti, nella speranza a volte contro ogni speranza.

Da qui noi, oggi, possiamo continuare a lodare Dio per le meraviglie che ha operato nella vita dei popoli latinoame­ricani. Dio, secondo il suo stile, “ha nascosto queste cose a saggi e colti, dandole a conoscere ai più piccoli e umili, ai semplici di cuore” (cfr Mt 11,21). Nelle meraviglie che il Signore ha realizzato in Maria, Ella riconosce lo stile e il modo di agire di suo Figlio nella storia della salvezza.

Sconvolgendo i giudizi mondani, distruggendo gli idoli del potere, della ricchezza, del successo a tutti i costi, de­nunciando l’autosufficienza, la superbia e i messianismi secolarizzati che allontanano da Dio, il cantico mariano confessa che Dio si compiace nel sovvertire le ideologie e le gerarchie mondane. Innalza gli umili, viene in aiuto dei poveri e dei piccoli, colma di beni, di benedizioni e di speranze quelli che si fidano della sua misericordia di ge­nerazione in generazione, mentre abbatte i ricchi, i potenti ed i dominatori dai loro troni.

Il “Magnificat” così ci introduce nelle Beatitudini, sintesi e legge primordiale del messaggio evangelico. Alla sua luce, oggi, ci sentiamo spinti a chiedere una grazia, la grazia tanto cristiana che il futuro dell’America Latina sia forgiato dai poveri e da quelli che soffrono, dagli umili, da quelli che hanno fame e sete di giustizia, dai misericor­diosi, dai puri di cuore, da quelli che lavorano per la pace, dai perseguitati a causa del nome di Cristo, “perché di loro sarà il Regno dei cieli” (cfr Mt 5,1-11). Sia la grazia di essere forgiati da quelli che oggi il sistema idolatrico della cultura dello scarto relega nella categoria di schiavi, di oggetti di cui servirsi o semplicemente da rifiutare.

E facciamo questa richiesta perché l’America Latina è il “continente della speranza”! Perché da essa si attendono nuovi modelli di sviluppo che coniughino tradizione cristiana e progresso civile, giustizia e equità con riconcilia­zione, sviluppo scientifico e tecnologico con saggezza umana, sofferenza feconda con gioia speranzosa. È possibile custodire questa speranza solo con grandi dosi di verità e di amore, fondamenti di tutta la realtà, motori rivoluzio­nari di un’autentica vita nuova.

Poniamo queste realtà e questi auspici sull’altare come dono gradito a Dio. Implorando il suo perdono e confidando nella sua misericordia, celebriamo il sacrificio e la vittoria pasquale di Nostro Signore Gesù Cristo. Lui è l’unico Signore, il “liberatore” di tutte le nostre schiavitù e miserie derivate dal peccato. Lui è la pietra angolare della storia ed è stato il grande scartato. Lui ci chiama a vivere la vera vita, una vita più umana, una convivenza come figli e fratelli, aperte ormai le porte della “nuova terra e dei nuovi cieli” (Ap 21,1).

Imploriamo la Santissima Vergine Maria, nella sua vocazione guadalupana – la Madre di Dio, la Regina e mia Si­gnora, “la mia giovinetta, la mia piccolina”, come la chiamò san Juan Diego, e con tutti gli appellativi amorosi con i quali si rivolgono a Lei nella pietà popolare – la supplichiamo perché continui ad accompagnare, aiutare e proteg­gere i nostri popoli.

E perché conduca per mano tutti i figli che vanno peregrinando in quelle terre incontro al suo Figlio, Gesù Cristo, Nostro Signore, presente nella Chiesa, nella sua sacramentalità, specialmente nell’ Eucaristia, presente nel tesoro della sua Parola e nei suoi insegnamenti, presente nel santo popolo fedele di Dio, presente in quelli che soffrono e negli umili di cuore. E se questo programma tanto audace ci spaventa o la pusillanimità mondana ci minaccia, che Lei torni a parlarci al cuore e ci faccia sentire la sua voce di Madre, di “buona Madre”, di “grande Madre”: “Perché hai paura? Non ci sono qui io, che sono tua Madre?”

Approfondiamo e ………. Riflettiamo – Nuovi modelli di sviluppo   Aggiornamento del 13 dicembre 2014

La dinamica dell’ascolto non ammette risposte standardizzate

Ringrazio il Senato Accademico e il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Sono davvero onorato di ricevere questa laurea honoris causa in comunicazione pubblica e d’impresa da parte di una così importante università della mia città, dove ogni giorno cerco di impegnar­mi, insieme a tanti collaboratori e volontari, nell’impresa di condividere un cammino con i più fragili e poveri. Provo in questo momento contentezza e gratitudine.

Per l’amicizia che ci lega, sono certo di interpretare anche i sentimenti di Luigi e di Gino se vi dico che sento questo vostro riconoscimento come un’opportu­nità per ripensare al senso profondo dell’essere chiamati “preti di strada”.

Siamo preti che vivono con una forte motivazione evangelica il partire dalla strada come scelta di vita, che non si stancano di comunicare che l’incontro con i poveri non è una relazione dove li si utilizza per esercitare bontà ma, come dice il Papa, essi sono una “categoria teologica”. Da lì passa quel Gesù che desideriamo incontrare ed atten­dere. Lì riscopriamo, nella profondità di una ricerca spirituale, quella cura appassionata che gli uomini tutti, senza eccezioni, possono scambiarsi tra di loro per essere più felici. Ci anima una domanda di felicità, una profonda esi­genza di felicità!

Per questo viviamo la strada che non è il luogo speciale dei più eroici, degli attivisti originali, ma è la condivisione di un cammino di ospitalità con chi è più vulnerabile, fragile e senza diritti; ci dà la possibilità di comunicare a tutti che il punto di partenza, per rendere possibile una visione di umanità fraterna e solidale, è la giustizia, è la difesa della dignità di ogni persona.

Comunicare, dunque, è condividere: la parola deriva dal latino cum munis, “mettere insieme”, e l’etimologia ci ri­vela la sua caratteristica di espressione sociale: la comunicazione è mettere un valore al servizio di qualcuno che è altro da noi, farlo diventare patrimonio comune per costruire una discussione, un sapere, una cultura.

Il Cardinale Carlo Maria Martini, uno dei miei maestri, nel suo modo di comunicare utilizzava il metodo che a me piace definire dell’icona. Traduceva un concetto, spesso non semplice, in un’immagine efficace, in modo che tutti riuscissero a capire, ad esempio, il senso profondo del fare operoso che caratterizza la dinamica della carità evange­lica.

È stato un arguto anticipatore quando nel 1991 scrisse per la Diocesi una lettera sulla comunicazione, paragonando i media ad un lembo del mantello del Maestro che, in un famoso brano evangelico, la donna ammalata tocca e subi­to guarisce, prima ancora che Gesù se ne accorga e le rivolga la parola. Non c’è sonoro in questa scena, c’è lo zoom su quella mano che sfiora il mantello e rifiorisce. Ecco un esempio di comunicazione efficace, profonda, salvifica, che avviene attraverso un mezzo semplice, povero, ma non insignificante.

Un po’ di quel mantello vorremmo essere anche noi della Casa della carità che, dalla periferia di Crescenzago, dove è nato l’amico Gino, parliamo con Milano, con le parrocchie della Diocesi, con le realtà della società civile, con le istituzioni e con i più “sprovveduti”, termine usato proprio dal Cardinal Martini quando annunciò ai Milanesi il dono della Casa della carità perché, disse, “provvedesse agli sprovveduti”.

Sono questi sprovveduti, poveri di diritti, che ogni giorno bussano alle nostre porte in via Brambilla, in fondo a via Padova. Da questo angolo di Milano, modesto e semplice, da dieci anni ci sforziamo di tessere un dialogo continuo con le diverse culture, i diversi saperi e le diverse religioni, con le università e i luoghi delle arti, con il territorio, attraverso le sue associazioni di quartiere, e con la città, attraverso le sue risorse sociali.

Ho gioito quando ho sentito per la prima volta Papa Francesco indicare a tutti la strada: “Partire dalle periferie esi­stenziali e sociali”. Per me, per noi, per tanti credenti e non credenti, cristiani o di altre religioni, questo è un sugge­rimento prezioso, perché oggi sono le periferie urbane ed esistenziali il punto strategico da cui guardare se si vuole cambiare questa società e renderla più giusta. Ecco, allora, che comunicare non è solo condividere, è scegliere il punto migliore da cui guardare la realtà per capirla e condividerla. È questo “sguardo” che il Cardinal Martini ci ha chiesto di tenere sulla città.

Del Cardinal Martini ricordo un’altra icona, forse la più bella, presa dalla Bibbia, dal libro della Genesi (cap. 18), dove si racconta di Abramo che accoglie tre uomini apparsi all’improvviso sotto il sole dell’ora più torrida del gior­no e, dopo aver subito ceduto loro il suo posto all’ombra delle querce di Mamre, corre a preparare insieme alla mo­glie Sara un pranzo con tutto ciò che ha in casa affinché possano godere di un’ospitalità degna e conviviale.

È un’immagine che resta impressa: quell’Abramo già anziano, che potrebbe starsene tranquillo a riposare all’ombra, che potrebbe sbrigarsela offrendo un riparo ai tre ospiti e che, invece, si dà freneticamente da fare per accogliere al meglio i tre viandanti, cedendo loro il posto migliore all’ombra, correndo a preparare da bere e man­giare. È la sintesi perfetta dell’idea di un’ospitalità generosa, disinteressata, desiderosa di dare all’altro tutto ciò che si può dare, senza chiedere all’altro chi è, cosa vuole, cosa è venuto a fare.

Un’ospitalità che sorprende e stupisce, che genera futuro e non ha nulla a che fare con il buonismo assistenzialista. Questa icona ci dice che non c’è comunicazione senza sorprese e senza emozione: questa emozione però non si muoverebbe se Abramo non sapesse scorgere il suo Signore nell’uomo che domanda ospitalità, che ci interroga, ci inquieta, non ci rassicura. Non si possono “usare” i poveri per rafforzare la propria identità: chi è povero dei diritti e privato dell’umanità interpella la responsabilità di tutti noi.

Comunicare è rendere le complessità comprensibili. Comunicare è stabilire un contatto con gli altri. Comunicare è abbattere divisioni. Ecco perché la Casa della carità per noi è un soggetto che comunica. Parafrasando il pensiero del filosofo tedesco Jurgen Habermas nella sua Teoria dell’agire comunicativo, la Casa della carità è un insieme di dire e di fare, dunque è un soggetto che comunica. Lo è in quanto luogo dove si svolgono azioni che parlano e in quanto luogo da cui escono parole cariche di azione.

Dire e fare. È questo un intreccio profondo che smonta qualsiasi atteggiamento retorico. Personalmente credo che lo si debba ricondurre anche a tematiche che riguardano la coscienza. Luigi dice spesso “graffiare le coscienze”, in­tendendo la necessità di entrare nel cuore. Ha ragione, c’è un gran bisogno di ricreare una coscienza educata. Siamo in ritardo e su questo ritardo pesano molte sconfitte. Così come ha ragione Gino che non si stanca mai di dire che bisogna investire molto di più nelle scelte educative per prevenire e promuovere giustizia.

È vero, da loro ho imparato molto. È un’operazione fortemente culturale quella che stiamo cercando di imbastire in­sieme. Non a caso, contro ogni tentazione di retorica, da tempo con Luigi e Gino diciamo che la parola “volontari” va archiviata e sostituita con il termine di “cittadini responsabili”.

Per unire azione sociale e ricerca culturale il Cardinal Martini volle che la Casa della carità promuovesse un’Acca­demia della carità; anche in questo guardava lontano. Perché non basta offrire un tetto, un letto e del cibo ai più po­veri, diceva, occorre promuovere e sollecitare ragionamenti e riflessioni sui fenomeni di esclusione sociale, se si vuole una città capace di inclusione. Occorre promuovere e dare spazio ad una cultura plurale.

Se guardo all’esperienza di questi dieci anni, Casa della carità è un luogo plurale dove sono passate migliaia di per­sone, uomini, donne e bambini provenienti da 95 differenti Paesi del mondo. È un luogo dove si incontrano le di­versità, ma dove contano i nomi delle persone, i loro volti, la loro soggettività, dove si cerca di evitare il più possi­bile qualsiasi rapporto massificante perché l’obiettivo è aiutare gli ospiti a riconquistare l’autonomia, prendersi cura dei loro bisogni, aiutarli (anche se in questo momento potete capire quanto sia difficile) a trovare un lavoro e una casa.

La nostra casa è un luogo pieno di domande più che di risposte. E comunicare significa fare domande più che dare risposte. Il Cardinal Martini ci ha insegnato ad essere appassionati da questa ricerca e da questa inquietudine: la cattedra dei non credenti, in questo senso, è stata una strategica indicazione culturale e credo, per noi preti, anche un’indicazione pastorale e spirituale.

Per fare domande, però, bisogna ascoltare: alla Casa della carità e in tutti gli anni della Caritas, ma soprattutto pen­sando all’avvio a Sesto San Giovanni della cooperativa Colce e della Grande Casa e all’esperienza di parroco in un quartiere di periferia, ho ascoltato storie individuali, storie di ghetti e di baraccopoli, di quartieri difficili, di fami­glie sfrattate, di ospedali dove si viene contenuti, di tanta sofferenza, di sofferenza mentale, di carceri dove ci si di­mentica di essere un uomo, di persone che hanno lottato per essere considerate persone normali, ma continuano a portarsi addosso lo stigma dell’esclusione.

In Casa della carità ho imparato la dinamica di un ascolto che non ammette risposte standardizzate, ma obbliga ad interrogarsi sulle tante domande che ci vengono poste. È un luogo dinamico dell’agire e un luogo pensante di ricer­ca, che ci richiama però continuamente all’umiltà del sapere perché i poveri, se li si ascolta con attenzione, ci danno una lezione di vita che può sedimentarsi in una capacità di pensiero e di riflessione.

Questa onorificenza va consegnata nel suo valore profondo a una visione di città dove gli ultimi sono portatori di domande di diritti, che ne siano consapevoli, oppure no. Ho già accennato al momento di crisi che stiamo vivendo e per questo oggi c’è un grande bisogno di dare alle persone segni di speranza. Le buone notizie sono segni di spe­ranza. Comunicare buone notizie deve diventare un segno di buona comunicazione.

Vladimiro Zagrebelsky, per molti anni giudice della corte europea dei diritti dell’uomo, quando parlava del ruolo che la stampa deve svolgere e deve poter svolgere in una società democratica usava anche lui un’icona, un’immagi­ne nata nei Paesi anglosassoni: la stampa come cane da guardia della democrazia, come “un cane che gira libero at­torno a casa, orecchie tese e naso al vento e abbaia, anche più forte del necessario e qualche volta deve mordere”.

Credo, però, che una corretta e completa informazione non debba trascurare mai quanto di buono avviene. Ad esempio, quando si racconta di migranti e di rom che occupano case popolari destinate ad altri, perché non dire an­che che quei rom, ai quali è stata data a Milano una possibilità concreta di abbandonare la vita nei campi, oggi vivono in case dove pagano l’affitto, mandando i figli a scuola con regolarità e che si mantengono lavorando?

Comunicare è impegnativo. Posso capire i tempi brevi nei quali un cronista deve spesso imbastire un articolo, ma la fretta non può mai giustificare il racconto di una parte sola di verità. Proprio perché non hanno diritti e non hanno voce per essere ascoltati, gli sprovveduti, gli ultimi, i più poveri tra i poveri, hanno bisogno di non essere conside­rati unicamente un problema, un problema di costi, di ordine pubblico o, peggio ancora, essere indicati come un pe­ricolo. Non hanno bisogno di falso pietismo e di atteggiamenti elemosinieri. Hanno bisogno di giustizia e di giusta comunicazione.

In Casa della carità abbiamo coniato uno slogan, “stare nel mezzo”. Significa stare là dove si determina l’emergen­za sociale per superarla gradualmente, impegnandosi in interventi condivisi, nella convinzione che a partire dall’attenzione per chi è ai margini si possa produrre benessere per tutti.

Per questo, tra mille difficoltà ma anche con tanto entusiasmo, io, Gino e Luigi cerchiamo di portare avanti le no­stre realtà che lavorano in quei luoghi e a contatto con persone che non producono il consenso, inteso come vantag­gio politico o economico. Accogliamo persone senza permesso di soggiorno, ma abbiamo abolito la parola “clande­stino” perché avvertiamo quanta irregolarità viene prodotta da dei meccanismi legislativi inadeguati, dall’abitare in strada e da una diffusa sotterranea disperazione.

Ci sono seri giornalisti che hanno saputo fare tesoro della Carta di Roma, quella stilata nel 2008 che invita i media ad avere delle attenzioni per gli stranieri, a non violarne la dignità, a rispettarne la fragilità. Non di rado specificare in un titolo la nazionalità dei protagonisti di una notizia può, dice la Carta, “incidere gravemente sulla convivenza civile e alimentare in modo pericoloso pulsioni razziste e xenofobe presenti nella nostra società”.

Se la comunicazione non pone tutti sullo stesso piano – di persone con uguali diritti e uguali doveri – non è buona comunicazione, ma comunicazione di parte. Per questo la sfida è culturale: far crescere nella società una visione di­versa di uguaglianza. Io chiamo questa sfida “utopia con i piedi per terra”, Padre Balducci la indicava con uno slo­gan impegnativo che mi piace sempre ricordare: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Don Tonino Bello preferiva definirla “convivialità delle differenze”.

Nel rileggere in Casa della carità la parabola del buon samaritano, il Cardinal Dionigi Tettamanzi ci ha consegnato un’altra icona, quella del samaritano, l’unico a fermarsi per soccorrere il malcapitato aggredito dai briganti sulla via che va da Gerusalemme a Gerico, mentre il levita e il sacerdote non si fermano ma fingono di non aver visto nulla. Alle cure del locandiere il samaritano affida il malcapitato.

La via, la strada che collega territori diversi, è dove ci si incontra. La locanda è dove si abita e si condivide. Per questo servono case che siano dimora e strade che portino alle case, soprattutto in un periodo come questo, dove la paura esce dai normali e abituali confini e diventa patologica, viene gestita in modi aggressivi, incapaci di riassu­mere la complessità del vivere, incapaci di dare risposte coraggiose che nascono solo da una profonda visione etica, umana, civile e spirituale. Accogliere lo straniero è importante perché lo straniero è il paradigma di questa alterità radicale e di una cultura che non vede nell’altro un diverso da escludere, da espellere, da demonizzare.

Per questo è necessaria una comunicazione coraggiosa. Il coraggio non è comunicare i problemi degli sprovveduti, il coraggio è comunicare che gli sprovveduti hanno diritto ad essere ascoltati, ad avere delle risposte e persino a dare risposte originali per il bene di tutta la collettività.

Casa della carità non sceglie i suoi interlocutori. È scelta. Si tratta di coloro che, con un termine ormai diventato fa­moso, definiremmo “vite di scarto”, vite prodotte dal libero mercato, modello dominante nella società liquida con­temporanea che ai tanti suoi rifiuti ha aggiunto persone private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza, gli esuli, i richiedenti asilo, i rifugiati della contemporaneità.

Questo mi ha dato la forza di non tenermi dentro tante storie, tanti volti, tante vite e mi ha dato il coraggio di comu­nicarle, nel sogno di una cittadinanza attiva in cui finalmente la cronaca bianca fa notizia, perché diventino un mes­saggio forte e pieno di speranza, che raggiunge il cuore di tanti uomini e donne del nostro tempo. Per questo, non sembri un paradosso, dobbiamo recuperare il valore del silenzio, del contemplare. È quella dinamica contemplativa che il Cardinal Martini indicò nella sua prima lettera pastorale. La parola che comunica sgorga dal silenzio.

don Virginio Colmegna

Approfondiamo e riflettiamo – la dinamica dell’ascolto

Oggi c’è bisogno di andare a ‘scuola di relazioni’

Voglio all’inizio di questa mia lezione ringraziare il Rettore, il Consiglio di Fa­coltà, e tutti coloro che hanno promosso la nostra laurea honoris causa. Per me, e credo anche per gli altri due colleghi, è un grande onore ricevere una laurea da questa nostra prestigiosa università milanese.

La “scienza della comunicazione” in particolare è stata, fin dall’inizio del mio lavoro sociale e della mia predicazione come sacerdote, un’intenzione impor­tante ed una cura molto ricercata e concreta. Ogni persona che svolga un lavoro educativo ha bisogno di curare le sue modalità di comunicazione, perché sono lo strumento di ingresso nella relazione.

 Agli inizi degli anni ’70 nel Carcere minorile “Beccaria” incontravo mediamente ogni anno mille giovani maschi e femmine provenienti quasi esclusivamente dal Sud Italia; dagli anni novanta è iniziato l’ingresso massiccio nel car­cere minorile dei minori stranieri portatori di altra cultura, di altra religione e di altra lingua. Questi giovani aveva­no certamente bisogno di essere ascoltati e capiti e poi aiutati a comprendere i problemi che avevano creato e le dif­ficoltà che avrebbero incontrato fuori dal carcere. Occorreva avere attenzione, cura e linguaggio. Mi è parso giusto dunque confrontarmi, studiare, andare ad imparare le regole e le risorse della comunicazione.

Senza una buona relazione, nei rapporti con i giovani ma anche con gli adulti è come parlare dietro una porta chiu­sa. Se non si apre la porta non si fa nulla. Non ho potuto frequentare qualche facoltà di “Scienze della comunicazio­ne” e allora ho cercato ed ho trovato una ottima formatrice alla comunicazione, una importante giornalista della Rai della quale ora purtroppo non ricordo il nome.

Mi ricordo bene però le due regole fondamentali che ci insegnò: “Si parla in pubblico quando si ha qualcosa da dire e si sa cosa si vuole dire” e la seconda: “gli altri, le persone alle quali voi parlate, hanno un difetto: esistono. Esisto­no con la loro cultura i loro giudizi ed i loro pregiudizi, i loro interessi e così via”. Se volete comunicare dovete parlare a chi avete davanti. Due regole necessarie e fondamentali da non dimenticare mai.

Esistono certamente molte modalità e molte intenzioni nella comunicazione. La modalità che io ho scelto, che ho cercato di imparare e che voglio praticare è quella di una comunicazione in funzione della relazione, siano i miei interlocutori giovani o adulti, italiani o stranieri.

Permettetemi di soffermarmi su questo termine, “relazione”, che ritengo una delle parole più importanti per la no­stra vita privata, sociale, laica o cristiana ma non per questo riconosciuta, proposta e fatta diventare regola nelle quotidiane pratiche individuali e sociali, centro della educazione nella famiglia e nelle scuole.

L’antropologia, la cultura, la fede nella relazione si fonda sulla convinzione che ogni essere umano è uguale a me e titolare di una dignità e di diritti sacri ed inalienabili. Per un cristiano ogni uomo o donna è figlia o figlio di Dio come me. La conseguenza e la coerenza legata a queste convinzioni è che con questa persona, con la quale condivi­do la comunità sociale o religiosa, la professione, la città, posso legare rapporti, progettualità, fare comunità, vivere insieme il lavoro e la cultura, la politica o la fede. Il pregiudizio, la convinzione preliminare è che con ogni persona è possibile costruire rapporti, collaborazioni, amicizia.

Ogni relazione, come ogni rapporto umano ha bisogno di onestà e di trasparenza, non è aliena dal conflitto ma ha come impegno e come desiderio quello di creare legami che possono andare dalla compagnia, all’amicizia, all’amore.

Questa è un’arte, secondo me l’arte per una vita bella e buona. Ma è anche una scelta ed una disciplina, come è scelta, disciplina e processo ogni forma amore. La capacità di relazione è facilitata da un carattere più aperto e di­sponibile, ma non diventa stile di vita se non è identificata come un bene, un processo da decidere, riconoscere e poi da curare, da accrescere, da proteggere, da purificare.

Se parliamo della relazione sotto il profilo specifico della fede, dobbiamo affermare che la relazione è un atto di fede, una ubbidienza di fede perché è una delle prime declinazioni della pratica concreta del grande Comandamento dell’amore.

Con la fede o senza la fede, una importante capacità di comunicazione e di relazione è la prima competenza che si deve richiedere ad ogni persona che svolga attività educative. Io ritengo che le incompetenze relazionali siano la più grande debolezza delle persone in generale, ed allora il lavoro per acquisire buone capacità relazionali diventa un impegno per la propria vita e per quello che si vuole realizzare, qualunque sia l’età, la professione, la fede. Gli altri non sono né estranei, né concorrenti, né nemici, ma potenziali alleati… Lo stile della relazione lo riconosci per­ché propone ed ha fiducia di poter creare legami.

Oggi, inquinati come siamo da relazioni opportuniste, ingannevoli e perfino violente, c’è un gran bisogno di andare a “scuola di relazioni” con una compagnia, una comunità capace di leggere i pensieri e i sentimenti.

La peggiore ignoranza che incontriamo e viviamo è una grande “ignoranza in amore”. Occorre trovare il modo di “liberare” la capacità di amore e perciò di relazione che abbiamo dentro, che avvertiamo quando siamo consapevoli dei bisogni della nostra persona, come la strada del benessere e della creatività.

La comunicazione della fede che offre Papa Francesco è stata per me, e spero per molti cristiani e no, uno stimolo per andare a rivedere la comunicazione che viene fatta dalla e dentro la Chiesa cattolica. Si incontrano delle magni­fiche notizie e dei paradossi, che si spiegano nella storia ma che vanno rimossi. Le cosiddette abitudini di devozio­ne sono certamente un aiuto per la vita ma talora diventano un potente narcotico.

Due esempi, e per me due vissuti, che ritengo necessario modificare: nel Vangelo Gesù ci chiama amici, ci assicura il suo amore e quello del Padre. Ci dice  tralci della vite che è lui, mentre S. Paolo ci incoraggia a chiamare Dio “papà”. Difficile capire come stia insieme il Padre nostro con i vari “Signore pietà” o con il greco Kyrie eleison, e con le frequentissime affermazioni della liturgia, ma anche dalla cosiddetta devozione, che sottolineano le nostre povertà, indegnità, peccati. Pensate anche solo al Confiteor: “ Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…”

Ma credo che ancora più grave sia la comunicazione del volto di Dio e di Gesù che passa attraverso il sacramento della Riconciliazione. Un elenco standard di peccati confessati da fedeli anche giovani: non essere andati a messa la domenica, avere fatto sesso fuori dalle regole, aver pregato poco, avere avuto dei litigi con qualcuno, avere detto qualche bugia. Mai sentito qualcuno confessare di non avere pagato le tasse o di avere trasgredito qualche legge ci­vile.

L’immagine di Dio che si ricava da queste modalità, ancora oggi “normali”, è quello di un Dio meschino, piagnu­coloso, legato a piccole cose, utili ma secondarie. Che fascino, che interesse può suscitare un Dio così? Ma soprat­tutto, Gesù, il Fondatore, è vissuto e morto per queste pur utili ma piccole cose?

Non è venuto per predicare la pace, la giustizia, l’uguaglianza tra le persone, la condivisione dei beni, la risposta alo male con il bene, la cura dei poveri, l’amore di Dio Padre? Non è per questo che è stato amato ma anche ucciso? Secondo me farebbe la stessa fine anche oggi. Come minimo non farebbe carriera. Ma il nostro compito è quello della fedeltà, non degli interessi o delle opportunità, men che meno del ripetere abitudini che non comunica­no la verità del suo volto.

La comunicazione è un formidabile strumento di relazione, di educazione e di verità. O, almeno, può esserlo e credo che oggi sia più che mai necessario. Grazie per averci permesso di diventare vostri colleghi.

don Gino Rigoldi

Approfondiamo e ….riflettiamo – Rigoldi

Sono stati emanati in questi giorni da Papa Francesco i “Lineamenta” che, seguiti da un questionario segnano la strada maestra alla prossima Assemblea Generale dei Vescovi sulla famiglia che è stata convocata dal Papa dal 4 al 25 Ottobre 2015.

Per un doveroso approfondimento da parte di noi Cristiani, mi è sembrato doveroso riportare il documento nel nostro sito web parrocchiale nella rubrica “ Approfondiamo e ……. riflettiamo”.

Introduco il documento con un articolo esplicativo tratto da l’Avvenire del 10 Dicembre 2014.

Famiglia, nuove domande per il Sinodo

Lineamenta per il Sinodo sulla Famiglia

La Chiesa è in cammino verso la XIV Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, che si riunirà dal 4 al 25 ottobre 2015.

I “Lineamenta” di questo appuntamento sinodale, resi noti oggi con l’approvazione del Papa sono costituiti dalla Relatio Synodi e da 46 domande sulla recezione del documento sinodale e sull’approfondimento dei temi in esso contenuti. Le risposte che dovranno pervenire alla Segreteria generale del Sinodo entro il 15 aprile 2015 permetteranno la redazione del prossimo Instrumentum Laboris.

Secondo la Segreteria generale del Sinodo – affidata al cardinale Lorenzo Baldisseri – questo tempo intersinodale di riflessione e di approfondimento si inscrive attivamente nel percorso già iniziato e coinvolge le Conferenze episcopali, i Sinodi delle Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, l’Unione dei Superiori Religiosi ed i Dicasteri della Curia Roma nel perfezionamento del documento di lavoro in vista del prossimo Sinodo ordinario.

È importante, si legge nel documento, “lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il Sinodo straordinario ha iniziato a delineare”, e “far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel Sinodo straordinario come punto di partenza”.

Il documento, inviato ai vari Organismi ecclesiali, chiede innanzitutto se sia stata descritta in maniera adeguata la realtà della famiglia nella società odierna o se vi siano aspetti che debbano ancora essere evidenziati. Al Popolo di Dio si chiede di riflettere adeguatamente sul modo più corretto di impostare la pastorale familiare di fronte alle sfide della secolarizzazione per sostenere le famiglie di fronte alle contraddizioni culturali  che caratterizzano il contesto socio-culturale attuale.

Come coinvolgere – si chiede il Sinodo – le comunità ecclesiali nella formazione dei presuli incaricati della cura pastorale delle famiglie e come sostenere le famiglie nella loro missione evangelizzatrice, in qualità di “Chiese domestiche”. Come aiutare le famiglie ferite e fragili, come promuovere al meglio i valori esaltati dalle famiglie cristiane e gioiose?

Gli interrogativi posti dal documento coinvolgono tutti gli ambiti della vita ecclesiale e vanno nella direzione di una sempre più forte collaborazione tra laici e religiosi. Gli obiettivi del resto sono molto impegnativi e toccano ambiti religiosi, teologici e sacramentali. In tal senso si pongono infatti le domande sui limiti imposti ai divorziati risposati, ma anche quelli sull’aiuto alle famiglie che abbiano al loro interno persone con tendenze omosessuali.

Il Concilio Vaticano II e il Vangelo della Famiglia sono le bussole per dare completezza alla vocazione e alla missione della famiglia. È necessario far comprendere il valore del matrimonio indissolubile e fecondo, valutare la conoscenza dei problemi legati alla denatalità e promuovere una profonda coscienza della trasmissione e della difesa della vita. Perché ciò sia possibile i “Lineamenta” non trascurano gli interrogativi sul perfezionamento dei percorsi di preparazione dei nubendi e le sfide per la pastorale familiare, soprattutto nei confronti di coloro che vivono lontani dal modello cristiano o, addirittura, tra coloro che non sono battezzati. In questo impegno globale che la Chiesa e il Popolo di Dio si apprestano ad affrontare con evidente concretezza e realismo nel prossimo Sinodo ordinario uno spazio è riservato anche alla ricerca di modi nuovi per collaborare e per coinvolgere le istituzioni socio politiche a livello locale ed internazionale.

In occasione della festa della Sacra Famiglia, che si celebrerà il 28 dicembre, la Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi invita tutte le comunità ecclesiali a promuovere momenti di preghiera e di celebrazione per la famiglia e per la prossima Assemblea sinodale, utilizzando a tale scopo la preghiera elaborata appositamente da Papa Francesco per il Sinodo sulla famiglia.

L’Avvenire – Lineamenta Famiglia

SINODO DEI VESCOVI

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III ASSEMBLEA GENERALE STRAORDINARIA

LE SFIDE PASTORALI SULLA FAMIGLIA NEL CONTESTO DELL’EVANGELIZZAZIONE

INSTRUMENTUM LABORIS

Città del Vaticano Dicembre 2014

INDICE

AbbreviazioniPresentazionePremessa 

I PARTE COMUNICARE IL VANGELO DELLA FAMIGLIA OGGI

Capitolo IIl disegno di Dio su matrimonio e famiglia

La famiglia alla luce del dato biblico (1-3)La famiglia nei documenti della Chiesa(4-7)

Capitolo IIConoscenza e ricezione della Sacra Scrittura e dei documenti della Chiesa su matrimonio e famiglia(8)

La conoscenza della Bibbia sulla famiglia(9-10)Conoscenza dei documenti del magistero (11)La necessità di sacerdoti e ministri preparati(12)Accoglienza diversificata dell’insegnamento della Chiesa(13-14)Alcuni motivi della difficoltà di ricezione (15-16)Promuovere una migliore conoscenza del Magistero(17-19)

Capitolo IIIVangelo della famiglia e legge naturale

Il nesso tra Vangelo della famiglia e legge naturale (20)Problematicità della legge naturale oggi (21-26)Contestazione pratica della legge naturale sull’unione tra uomo e donna(27-29)Auspicabile rinnovamento del linguaggio (30)

Capitolo IVLa famiglia e la vocazione della persona in Cristo

La famiglia, la persona e la società (31-34)Ad immagine della vita trinitaria (35)La Santa Famiglia di Nazareth e l’educazione all’amore(36-38)Differenza, reciprocità e stile di vita familiare(39-42)Famiglia e sviluppo integrale (43-44) Accompagnare il nuovo desiderio di famiglia e le crisi(45-48)Una costante formazione(49)

II PARTE LA PASTORALE DELLA FAMIGLIA DI FRONTE ALLE NUOVE SFIDE

Capitolo ILa pastorale della famiglia: le varie proposte in atto

Responsabilità dei Pastori e doni carismatici nella pastorale familiare(50) La preparazione al matrimonio (51-56)Pietà popolare e spiritualità familiare (57)Il sostegno alla spiritualità familiare (58)La testimonianza della bellezza della famiglia (59-60)

Capitolo IILe sfide pastorali sulla famiglia(61)

a) La crisi della fede e la vita familiare

L’azione pastorale nella crisi di fede (62-63)

b) Situazioni critiche interne alla famiglia

Difficoltà di relazione / comunicazione (64) Frammentazione e disgregazione(65)Violenza e abuso(66-67)Dipendenze, media e social network (68-69)

c) Pressioni esterne alla famiglia

L’incidenza dell’attività lavorativa sulla famiglia (70-71) Il fenomeno migratorio e la famiglia (72)Povertà e lotta per la sussistenza (73) Consumismo ed individualismo (74) Contro-testimonianze nella Chiesa(75)

d) Alcune situazioni particolari

Il peso delle aspettative sociali sull’individuo (76) L’impatto delle guerre (77) Disparità di culto (78) Altre situazioni critiche (79)

Capitolo III Le situazioni pastorali difficili

A. Situazioni familiari (80)

Le convivenze(81-82) Le unioni di fatto (83-85) Separati, divorziati e divorziati risposati (86) I figli e coloro che restano soli(87) Le ragazze madri(88) Situazioni di irregolarità canonica (89-92) Circa l’accesso ai sacramenti (93-95) Altre richieste (96) Circa i separati e i divorziati (97) Semplificazione delle cause matrimoniali (98-102) La cura delle situazioni difficili (103-104) Non praticanti e non credenti che chiedono il matrimonio (105-109)

B. Circa le unioni tra persone dello stesso sesso

Riconoscimento civile(110-112) La valutazione delle Chiese particolari(113-115) Alcune indicazioni pastorali (116-119) Trasmissione della fede ai bambini in unioni di persone dello stesso sesso (120)

III PARTE L’APERTURA ALLA VITA E LA RESPONSABILITÀ EDUCATIVA

Capitolo I Le sfide pastorali circa l’apertura alla vita(121-122)

Conoscenza e ricezione del Magistero sull’apertura alla vita (123-125) Alcune cause della difficile ricezione (126-127) Suggerimenti pastorali (128) Circa la prassi sacramentale (129) Promuovere una mentalità aperta alla vita (130-131) 

Capitolo II La Chiesa e la famiglia di fronte alla sfida educativa

a) La sfida educativa in genere

La sfida educativa e la famiglia oggi (132) Trasmissione della fede e iniziazione cristiana(133-134) Alcune difficoltà specifiche (135-137)

b) L’educazione cristiana in situazioni familiari difficili (138) 

Una visione generale della situazione (139-140) Le richieste rivolte alla Chiesa (141-145) Le risposte delle Chiese particolari (146-150) Tempi e modi dell’iniziazione cristiana dei bambini (151-152) Alcune difficoltà specifiche (153) Alcune indicazioni pastorali(154-157) 

CONCLUSIONE(158-159)

Abbreviazioni

CCC Catechismo della Chiesa Cattolica

CDF Congregazione per la Dottrina della Fede

CTI Commissione Teologica internazionale

CV Caritas in VeritateLettera Enciclica di Benedetto XVI (29 giugno 2009)

DCE Deus Caritas Est, Lettera Enciclica di Benedetto XVI (25 dicembre 2005)

DV Dei Verbum, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Concilio Ecumenico Vaticano II.

EG Evangelii GaudiumEsortazione Apostolica di Francesco (24 novembre 2013)

FC Familiaris ConsortioEsortazione Apostolica di Giovanni Paolo II (22 novembre 1981)

GS Gaudium et Spes, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Concilio Ecumenico Vaticano II

GEGravissimum Educationis, Dichiarazione sull’educazione cristiana, Concilio Ecumenico Vaticano II

HV Humanae VitaeLettera Enciclica di Paolo VI (25 luglio 1968)

LF Lumen FideiLettera Enciclica di Francesco (29 giugno 2013)

LG Lumen Gentium, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Concilio Ecumenico Vaticano II

SC Sacramentum CaritatisEsortazione Apostolica post-sinodale di Benedetto XVI (22 febbraio 2007) 

PRESENTAZIONE

L’8 ottobre 2013 Papa Francesco ha convocato la III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: Lesfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione. La Segreteria Generale del Sinodo ha iniziato la preparazione con il l’invio del Documento Preparatorio, che ha suscitato un ampio riscontro ecclesiale nel popolo di Dio, raccolto nel presente Instrumentum Laboris. Il Santo Padre, considerata l’ampiezza e la complessità del tema, ha stabilito un itinerario di lavoro in due tappe, che costituisce un’unità organica. Nell’Assemblea Generale Straordinaria del 2014, i Padri sinodali valuteranno e approfondiranno i dati, le testimonianze e i suggerimenti delle Chiese particolari, al fine di rispondere alle nuove sfide sulla famiglia. L’Assemblea Generale Ordinaria del 2015, maggiormente rappresentativa dell’episcopato, innestandosi sul precedente lavoro sinodale, rifletterà ulteriormente sulle tematiche affrontate per individuare adeguate linee operative pastorali.

L’Instrumentum Laboris nasce dalle risposte al questionario del Documento Preparatorio, reso pubblico nel mese di novembre 2013, strutturato in otto gruppi di domande riguardanti il matrimonio e la famiglia, cui è stata data ampia diffusione. Le risposte, numerose e dettagliate, sono pervenute dai Sinodi delle Chiese Orientali Cattoliche sui iuris, dalle Conferenze Episcopali, dai Dicasteri della Curia Romana e dall’Unione dei Superiori Generali. Sono pure giunte direttamente alla Segreteria Generale risposte – dette osservazioni – da un numero significativo di diocesi, parrocchie, movimenti, gruppi, associazioni ecclesiali e realtà familiari, nonché quelle di istituzioni accademiche, specialisti, fedeli ed altri, interessati a far conoscere la propria riflessione.

Il testo è strutturato in tre parti e riprende, secondo un ordine funzionale all’Assemblea sinodale, le otto tematiche proposte nel questionario. La prima parte è dedicata al Vangelo della famiglia, tra disegno di Dio e vocazione della persona in Cristo, orizzonte entro il quale si rileva la conoscenza e la ricezione del dato biblico e dei documenti del

Magistero della Chiesa, incluse le difficoltà, tra le quali la comprensione della legge naturale. La seconda parte tratta le varie proposte di pastorale familiare, le relative sfide e le situazioni difficili. La terza parte è dedicata all’apertura alla vita e alla responsabilità educativa dei genitori, che caratterizza il matrimonio tra l’uomo e la donna, con particolare riferimento alle situazioni pastorali attuali.

Il presente documento, frutto del lavoro collegiale proveniente dalla consultazione delle Chiese particolari, che la Segreteria Generale del Sinodo, insieme al Consiglio di Segreteria, ha raccolto ed elaborato, è messo nelle mani dei Membri dell’Assemblea sinodale come Instrumentum Laboris. Esso offre un ampio quadro, sia pur non esaustivo, della situazione familiare odierna, delle sue sfide e delle riflessioni che suscita.

I temi che non sono compresi nel documento, alcuni dei quali sono stati segnalati dalle risposte al n. 9 (varia) del questionario, saranno trattati nell’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo del 2015.

Lorenzo Card. Baldisseri Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi

Vaticano, 24 giugno 2014 Solennità della Natività di San Giovanni Battista 

PREMESSA

L’annuncio del Vangelo della famiglia è parte integrante della missione della Chiesa, poiché la rivelazione di Dio illumina la realtà del rapporto tra l’uomo e la donna, del loro amore e della fecondità della loro relazione. Nel tempo odierno, la diffusa crisi culturale, sociale e spirituale costituisce una sfida per l’evangelizzazione della famiglia, nucleo vitale della società e della comunità ecclesiale. Tale annuncio si pone in continuità con l’Assemblea sinodale su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana e l’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI.

L’Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo sul tema: Lesfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, tenendo conto che «la Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo» (DV 8), è chiamata a riflettere sul cammino da seguire, per comunicare a tutti gli uomini la verità dell’amore coniugale e della famiglia, rispondendo alle sue molteplici sfide (cf. EG 66). La famiglia è una risorsa inesauribile e una fonte di vita per la pastorale della Chiesa; pertanto, suo compito primario è l’annuncio della bellezza della vocazione all’amore, grande potenziale anche per la società. Dinanzi a questa urgenza, l’episcopato, cum et sub Petro, si pone in docile ascolto dello Spirito Santo, riflettendo sulle sfide pastorali odierne.

La Chiesa, cosciente che le difficoltà non determinano l’orizzonte ultimo della vita familiare e che le persone non si trovano solo di fronte a problematiche inedite, constata volentieri gli slanci, soprattutto tra i giovani, che fanno intravedere una nuova primavera per la famiglia. Testimonianze significative a questo proposito sono riscontrabili nei numerosi incontri ecclesiali dove si manifesta chiaramente, soprattutto nelle nuove generazioni, un rinnovato desiderio di famiglia. Di fronte a tale aspirazione, la Chiesa è sollecitata ad offrire sostegno e accompagnamento, a tutti i suoi livelli, con fedeltà al mandato del Signore di annunciare la bellezza dell’amore familiare. Il Sommo Pontefice, nei suoi incontri con le famiglie, incoraggia sempre a guardare con speranza al proprio futuro, raccomandando quegli stili di vita attraverso i quali si custodisce e si fa crescere l’amore in famiglia: chiedere permesso, ringraziare e chiedere perdono, non lasciando mai tramontare il sole sopra un litigio o un’incomprensione, senza avere l’umiltà di chiedersi scusa.

Sin dall’inizio del Suo pontificato, Papa Francesco ha ribadito: «Dio mai si stanca di perdonarci, mai! […] noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono» (Angelus del 17 marzo 2013). Tale accento sulla misericordia ha suscitato un rilevante impatto anche sulle questioni riguardanti il matrimonio ela famiglia, in quanto, lungi da ogni moralismo, conferma e dischiude orizzonti nella vita cristiana, qualsiasi limite si sia sperimentato e qualsiasi peccato si sia commesso. La misericordia di Dio apre alla continua conversione e alla continua rinascita.

I PARTE COMUNICARE IL VANGELO DELLA FAMIGLIA OGGI

Capitolo I Il disegno di Dio su matrimonio e famiglia

La famiglia alla luce del dato biblico

1. Il libro della Genesi presenta l’uomo e la donna creati ad immagine e somiglianza di Dio; nell’accoglienza reciproca, essi si riconoscono fatti l’uno per l’altro (cf. Gen 1,24-31; 2,4b-25). Attraverso la procreazione, l’uomo e la donna sono resi collaboratori di Dio nell’accogliere e trasmettere la vita: «Trasmettendo ai loro figli la vita umana, l’uomo e la donna, come sposi e genitori, cooperano in modo unico all’opera del Creatore» (CCC 372). La loro responsabilità, inoltre, si estende alla custodia del creato e alla crescita della famiglia umana. Nella tradizione biblica, la prospettiva della bellezza dell’amore umano, specchio di quello divino, si sviluppa soprattutto nel Cantico dei Cantici e nei profeti.

2. L’annuncio della Chiesa sulla famiglia trova il suo fondamento nella predicazione e nella vita di Gesù, il quale è vissuto e cresciuto nella famiglia di Nazareth, ha partecipato alle nozze di Cana, di cui ha arricchito la festa con il primo dei suoi “segni” (cf. Gv 2,1-11), presentandosi come lo Sposo che unisce a sé la Sposa (cf. Gv 3,29). Sulla croce, si è consegnato con amore fino alla fine, e nel suo corpo risorto ha stabilito nuovi rapporti tra gli uomini. Svelando pienamente la divina misericordia, Gesù concede all’uomo e alla donna di ricuperare quel “principio” secondo cui Dio li ha uniti in una sola carne (cf. Mt 19,4-6), per il quale – con la grazia di Cristo – essi sono resi capaci di amarsi per sempre e con fedeltà. Pertanto, la misura divina dell’amore coniugale, cui i coniugi sono chiamati per grazia, ha la sua sorgente nella «bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto» (EG 36), cuore stesso del Vangelo.

3. Gesù, nell’assumere l’amore umano, lo ha anche perfezionato (cf. GS 49), consegnando all’uomo e alla donna un nuovo modo di amarsi, che ha il suo fondamento nella irrevocabile fedeltà di Dio. In questa luce, la Lettera agli Efesini ha individuato nell’amore nuziale tra l’uomo e la donna “il grande mistero” che rende presente nel mondo l’amore tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5,31-32). Essi possiedono il carisma (cf. 1Cor 7,7) di edificare la Chiesa con il loro amore sponsale e con il compito della procreazione ed educazione dei figli. Legati da un vincolo sacramentale indissolubile, gli sposi vivono la bellezza dell’amore, della paternità, della maternità e della dignità di partecipare così all’opera creatrice di Dio.

La famiglia nei documenti della Chiesa

4. Nel corso dei secoli, la Chiesa non ha fatto mancare il suo costante insegnamento sul matrimonio e la famiglia. Una delle espressioni più alte di questo Magistero è stata proposta dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, che dedica un intero capitolo alla promozione della dignità del matrimonio e della famiglia (cf. GS 47-52). Esso ha definito il matrimonio come comunità di vita e di amore (cf. GS 48), mettendo l’amore al centro della famiglia, mostrando, allo stesso tempo, la verità di questo amore davanti alle diverse forme di riduzionismo presenti nella cultura contemporanea. Il «vero amore tra marito e moglie» (GS 49) implica la mutua donazione di sé, include e integra la dimensione sessuale e l’affettività, corrispondendo al disegno divino (cf. GS 48-49). Inoltre, Gaudium et Spes 48 sottolinea il radicamento in Cristo degli sposi: Cristo Signore «viene incontro ai coniugi cristiani nel sacramento del matrimonio», e con loro rimane. Nell’incarnazione, Egli assume l’amore umano, lo purifica, lo porta a pienezza, e dona agli sposi, con il suo Spirito, la capacità di viverlo, pervadendo tutta la loro vita di fede, speranza e carità. In questo modo gli sposi sono come consacrati e, mediante una grazia propria, edificano il Corpo di Cristo e costituiscono una Chiesa domestica (cf. LG 11), così che la Chiesa, per comprendere pienamente il suo mistero, guarda alla famiglia cristiana, che lo manifesta in modo genuino.

5. Sulla scia del Concilio Vaticano II, il Magistero pontificio ha approfondito la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia. In particolare, Paolo VI, con la Enciclica Humanae Vitae, ha messo in luce l’intimo legame tra amore coniugale e generazione della vita. San Giovanni Paolo II ha dedicato alla famiglia una particolare attenzione attraverso le sue catechesi sull’amore umano, la Lettera alle famiglie (Gratissimam Sane) e soprattutto con l’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio. In tali documenti, il Pontefice ha definito la famiglia “via della Chiesa”; ha offerto una visione d’insieme sulla vocazione all’amore dell’uomo e della donna; ha proposto le linee fondamentali per la pastorale della famiglia e per la presenza della famiglia nella società. In particolare, trattando della carità coniugale (cf. FC 13), ha descritto il modo in cui i coniugi, nel loro mutuo amore, ricevono il dono dello Spirito di Cristo e vivono la loro chiamata alla santità.

6. Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus Caritas Est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cf. DCE 2). Egli ribadisce come: «Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (DCE 11). Inoltre, nella Enciclica Caritas in Veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cf. CV 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune.

7. Papa Francesco, nell’Enciclica Lumen Fidei affrontando il legame tra la famiglia e la fede, scrive: «L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità» (LF 53).

Capitolo II

Conoscenza e ricezione della Sacra Scrittura e dei documenti della Chiesa su matrimonio e famiglia

8. La nostra stagione ecclesiale è caratterizzata da un’ampia riscoperta della Parola di Dio nella vita della Chiesa. La ripresa della Sacra Scrittura, in ambito ecclesiale, ha segnato, in modo differenziato, la vita delle diocesi, delle parrocchie e delle comunità ecclesiali. Dalle numerose risposte e osservazioni pervenute, risulta però che la conoscenza, la comunicazione e la ricezione degli insegnamenti della Chiesa riguardanti la famiglia avvengono in modalità assai diversificate, secondo il vissuto familiare, il tessuto ecclesiale e il contesto socio-culturale. Nelle zone in cui è viva una tradizione cristiana ed una pastorale ben organizzata, si trovano persone sensibili alla dottrina cristiana sul matrimonio e la famiglia. Altrove, per motivi diversi, si trovano molti cristiani che ignorano la stessa esistenza di questi insegnamenti.

La conoscenza della Bibbia sulla famiglia

9. In via generale, si può dire che l’insegnamento della Bibbia, soprattutto dei Vangeli e delle Lettere paoline, è oggi più conosciuto. Tuttavia, da parte di tutte le Conferenze Episcopali si afferma che resta ancora molto da fare, perché esso diventi il fondamento della spiritualità e della vita dei cristiani anche in riferimento alla famiglia. Da non poche risposte, si nota anche un grande desiderio tra i fedeli di conoscere meglio la Sacra Scrittura.

10. In questa prospettiva, risalta quanto sia decisiva la formazione del clero ed in particolare la qualità delle omelie, sulla quale il Santo Padre Francesco ha recentemente insistito (cf. EG 135-144). Infatti, l’omelia è uno strumento privilegiato per presentare ai fedeli la Sacra Scrittura nella sua valenza ecclesiale ed esistenziale. Grazie ad una adeguata predicazione, il popolo di Dio è messo in condizione di apprezzare la bellezza della Parola che attrae e conforta la famiglia. Insieme all’omelia, si riconosce come strumento importante la promozione, all’interno delle diocesi e delle parrocchie, di corsi che aiutino i fedeli ad accostarsi alle Scritture in modo adeguato. Si suggerisce non tanto di moltiplicare iniziative pastorali, ma di animare biblicamente tutta la pastorale familiare. Ogni circostanza in cui la Chiesa è chiamata a prendersi cura dei fedeli, nell’ambito della famiglia, è un’occasione perché il Vangelo della famiglia venga annunciato, sperimentato ed apprezzato.

Conoscenza dei documenti del Magistero

11. La conoscenza dei documenti conciliari e post-conciliari del Magistero sulla famiglia da parte del popolo di Dio, sembra essere generalmente scarsa. Certamente, vi è una certa conoscenza di essi da parte degli addetti ai lavori in ambito teologico. Tuttavia, questi testi non sembrano permeare nel profondo la mentalità dei fedeli. Vi sono anche risposte che schiettamente riconoscono il fatto che tali documenti, tra i fedeli, non sono affatto conosciuti. In qualche risposta, si fa notare che a volte i documenti vengono percepiti, soprattutto dai laici, che non hanno preparazione previa, come realtà un po’ “esclusive”. Si avverte una certa fatica nel prendere in mano e studiare questi testi. Spesso, se non c’è qualcuno preparato, in grado d’introdurre alla loro lettura, questi documenti appaiono di difficile accostamento. Soprattutto, si sente il bisogno di mostrare il carattere esistenziale delle verità affermate nei documenti.

La necessità di sacerdoti e di ministri preparati

12. Qualche osservazione pervenuta ha imputato la responsabilità della scarsa diffusione di questa conoscenza agli stessi pastori, che, secondo il giudizio di alcuni fedeli, non conoscono loro stessi in profondità l’argomento matrimonio-famiglia dei documenti, né sembrano avere gli strumenti per sviluppare questa tematica. Da alcune osservazioni pervenute, si può evincere come i pastori, talvolta, si sentano inadeguati ed impreparati a trattare problematiche che riguardano la sessualità, la fecondità e la procreazione, cosicché spesso si preferisce non affrontare questi temi. In alcune risposte, si trova anche una certa insoddisfazione nei confronti di alcuni sacerdoti che appaiono indifferenti rispetto ad alcuni insegnamenti morali. Il loro disaccordo con la dottrina della Chiesa ingenera confusione tra il popolo di Dio. Si chiede, per questo, che gli stessi sacerdoti siano più preparati e responsabili nello spiegare la Parola di Dio e nel presentare i documenti della Chiesa riguardo al matrimonio e alla famiglia.

Accoglienza diversificata dell’insegnamento della Chiesa

13. Un buon numero di Conferenze Episcopali nota che, là dove si trasmette in profondità, l’insegnamento della Chiesa con la sua genuina bellezza, umana e cristiana è accettato con entusiasmo da larga parte dei fedeli. Quando si riesce a mostrare una visione globale del matrimonio e della famiglia secondo la fede cristiana, allora ci si accorge della loro verità, bontà e bellezza. L’insegnamento è maggiormente accettato dove c’è un reale cammino di fede da parte dei fedeli, e non solo una curiosità estemporanea intorno a cosa pensi la Chiesa sulla morale sessuale. D’altra parte, molte risposte confermano che, anche quando l’insegnamento della Chiesa intorno a matrimonio e famiglia è conosciuto, tanti cristiani manifestano difficoltà ad accettarlo integralmente. In genere, si fa menzione di elementi parziali della dottrina cristiana, sebbene rilevanti, ove si nota una resistenza, in gradi diversi, come ad esempio riguardo a controllo delle nascite, divorzio e nuove nozze, omosessualità, convivenza, fedeltà, relazioni prematrimoniali, fecondazione in vitro, ecc. Molte risposte attestano come, invece, l’insegnamento della Chiesa sulla dignità e il rispetto per la vita umana sia più largamente e facilmente accettato, almeno in via di principio.

14. A ragione, viene fatto osservare che sarebbe necessaria una maggiore integrazione tra spiritualità familiare e morale, che permetterebbe di comprendere meglio anche il Magistero della Chiesa in ambito di morale familiare. Qualche intervento constata l’importanza di valorizzare elementi delle culture locali, che possono aiutare a comprendere il valore del Vangelo; è il caso di molta cultura asiatica, centrata frequentemente sulla famiglia. In questi contesti, alcune Conferenze Episcopali affermano che non è difficile integrare gli insegnamenti della Chiesa sulla famiglia con i valori sociali e morali del popolo, presenti in queste culture. Con ciò si vuole anche richiamare l’attenzione sull’importanza della interculturalità nell’annuncio del Vangelo della famiglia. In definitiva, dalle risposte e osservazioni pervenute, emerge la necessità di attivare percorsi formativi concreti e possibili, mediante i quali introdurre alle verità della fede che riguardano la famiglia, soprattutto per poterne apprezzare il profondo valore umano ed esistenziale.

Alcuni motivi della difficoltà di ricezione

15. Alcune Conferenze Episcopali rilevano che il motivo di molta resistenza agli insegnamenti della Chiesa circa la morale familiare è la mancanza di un’autentica esperienza cristiana, di un incontro personale e comunitario con Cristo, che non può essere sostituito da alcuna presentazione, sia pur corretta, di una dottrina. In questo contesto, si lamenta l’insufficienza di una pastorale preoccupata solo di amministrare i sacramenti, senza che a ciò corrisponda una vera esperienza cristiana coinvolgente. Inoltre, la stragrande maggioranza delle risposte mette in risalto il crescente contrasto tra i valori proposti dalla Chiesa su matrimonio e famiglia e la situazione sociale e culturale diversificata in tutto il pianeta. Si riscontra unanimità nelle risposte anche in relazione ai motivi di fondo delle difficoltà nell’accoglienza dell’insegnamento della Chiesa: le nuove tecnologie diffusive ed invasive; l’influenza dei mass media; la cultura edonista; il relativismo; il materialismo; l’individualismo; il crescente secolarismo; il prevalere di concezioni che hanno portato ad una eccessiva liberalizzazione dei costumi in senso egoistico; la fragilità dei rapporti interpersonali; una cultura che rifiuta scelte definitive, condizionata dalla precarietà, dalla provvisorietà, propria di una “società liquida”, dell’“usa e getta”, del “tutto e subito”; valori sostenuti dalla cosiddetta “cultura dello scarto” e del “provvisorio”, come ricorda frequentemente Papa Francesco.

16. Qualcuno ricorda gli ostacoli dovuti al lungo dominio di ideologie atee in tanti Paesi, che hanno creato un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’insegnamento religioso in genere. Altre risposte, poi, riferiscono delle difficoltà che la Chiesa incontra nel confronto con le culture tribali e le tradizioni ancestrali, in cui il matrimonio ha caratteristiche assai diverse rispetto alla visione cristiana, come ad esempio nel sostenere la poligamia o altre visioni che contrastano con l’idea di matrimonio indissolubile e monogamico. I cristiani che vivono in questi contesti certamente hanno bisogno di essere fortemente sostenuti dalla Chiesa e dalle comunità cristiane.

Promuovere una migliore conoscenza del Magistero

17. Molte risposte hanno messo a tema la necessità di trovare nuovi modi per trasmettere gli insegnamenti della Chiesa su matrimonio e famiglia. Molto dipende dalla maturità della Chiesa particolare, dalla sua tradizione in merito e dalle effettive risorse disponibili sul territorio. Soprattutto, si riconosce la necessità di formare operatori pastorali in grado di mediare il messaggio cristiano in modo culturalmente adeguato. Ad ogni modo, quasi la totalità delle risposte afferma che, a livello nazionale, esiste una Commissione per la Pastorale della Famiglia e il Direttorio della Pastorale Familiare. Generalmente, le Conferenze Episcopali propongono l’insegnamento della Chiesa attraverso documenti, simposi ed un’animazione capillare; come pure, a livello diocesano, si opera mediante vari organismi e commissioni. Certamente non mancano anche risposte che rivelano una situazione pesante per l’organizzazione ecclesiale, in cui mancano risorse economiche ed umane, per poter organizzare in modo continuativo una catechesi sulla famiglia.

18. Molti ricordano come sia decisivo stabilire rapporti con centri accademici adeguati e preparati su tematiche familiari, a livello dottrinale, spirituale e pastorale. In alcune risposte, si raccontano proficui collegamenti a livello internazionale tra centri universitari e diocesi, anche in zone periferiche della Chiesa, per promuovere momenti formativi qualificati su matrimonio e famiglia. Un esempio, più volte citato dalle risposte, è la collaborazione con il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia di Roma, con diverse sedi in tutto il mondo. Al riguardo, diverse Conferenze Episcopali richiamano l’importanza di sviluppare le intuizioni di San Giovanni Paolo II sulla teologia del corpo, nelle quali si propone un accostamento fecondo alle tematiche della famiglia, con sensibilità esistenziale e antropologica, aperto alle nuove istanze emergenti nel nostro tempo.

19. Infine, è rilievo comune che la catechesi su matrimonio e famiglia non possa essere oggi solo limitata alla preparazione della coppia al matrimonio; occorre una dinamica di accompagnamento di carattere esperienziale che, attraverso testimoni, mostri la bellezza di quanto il Vangelo e i documenti del Magistero della Chiesa sulla famiglia ci trasmettono. Molto prima che si presentino per il matrimonio, i giovani hanno bisogno di essere aiutati a conoscere ciò che la Chiesa insegna e perché lo insegna. Molte risposte mettono in rilievo il ruolo dei genitori nella catechesi specifica sulla famiglia. Essi hanno un ruolo insostituibile da svolgere nella formazione cristiana dei figli in relazione al Vangelo della famiglia. Questo compito chiede una profonda comprensione della loro vocazione alla luce della dottrina della Chiesa. La loro testimonianza è già una catechesi vivente, non solo nella Chiesa, ma anche nella società.

Capitolo III

Vangelo della famiglia e legge naturale

Il nesso tra Vangelo della famiglia e legge naturale

20. Nel contesto dell’accoglienza dell’insegnamento della Chiesa su matrimonio e famiglia è necessario tenere presente il tema della legge naturale. Qui si considera il fatto che i documenti magisteriali fanno spesso riferimento a questo vocabolario, che oggi presenta delle difficoltà. La perplessità, oggi in atto su vasta scala intorno al concetto di legge naturale, tende a coinvolgere in modo problematico alcuni elementi della dottrina cristiana sul tema. In realtà, ciò che soggiace alla relazione tra Vangelo della famiglia e legge naturale non è tanto la difesa di un concetto filosofico astratto, quanto il necessario rapporto che il Vangelo stabilisce con l’umano in tutte le sue declinazioni storiche e culturali. «La legge naturale risponde così all’esigenza di fondare sulla ragione i diritti dell’uomo e rende possibile un dialogo interculturale e interreligioso» (CTI, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 35).

Problematicità della legge naturale oggi

21. Alla luce di quanto la Chiesa ha sostenuto lungo i secoli, esaminando la relazione tra Vangelo della famiglia e l’esperienza comune ad ogni persona, è possibile considerare le numerose problematicità evidenziate nelle risposte al questionario rispetto al tema della legge naturale. Per la stragrande maggioranza delle risposte e delle osservazioni, il concetto di “legge naturale” risulta essere come tale, oggi nei diversi contesti culturali, assai problematico, se non addirittura incomprensibile. Si tratta di una espressione che viene intesa in modo differenziato o semplicemente non capita. Numerose Conferenze Episcopali, in contesti estremamente diversi, affermano che, sebbene la dimensione sponsale della relazione tra uomo e donna sia generalmente accettata come realtà vissuta, ciò non viene interpretato conformemente ad una legge universalmente data. Solo un numero molto ristretto di risposte e di osservazioni ha evidenziato una adeguata comprensione di tale legge a livello popolare.

22. Risulta pure dalle risposte ed osservazioni che l’aggettivo “naturale” tende ad essere talvolta recepito secondo la sfumatura soggettiva di “spontaneo”. Le persone sono orientate a valorizzare il sentimento e l’emotività; dimensioni che appaiono come “autentiche” e “originali” e, dunque, “naturalmente” da seguire. Le visioni antropologiche soggiacenti richiamano, da una parte, l’autonomia della libertà umana, non necessariamente vincolata ad un ordine oggettivo naturale, e, dall’altra, l’aspirazione alla felicità dell’essere umano, intesa come realizzazione dei propri desideri. Di conseguenza, la legge naturale viene percepita come retaggio sorpassato. Oggi, non solo in Occidente, ma progressivamente in ogni parte della terra, la ricerca scientifica rappresenta una seria sfida al concetto di natura. L’evoluzione, la biologia e le neuroscienze, confrontandosi con l’idea tradizionale di legge naturale, giungono a concludere che essa non è da considerarsi “scientifica”.

23. Anche la nozione di “diritti umani” viene generalmente vista come un richiamo all’autodeterminazione del soggetto, non più ancorata all’idea di legge naturale. Al riguardo, molti notano che i sistemi legislativi di numerosi Paesi si trovano a dover regolamentare situazioni contrarie al dettato tradizionale della legge naturale (per esempio, la fecondazione in vitro, le unioni omosessuali, la manipolazione di embrioni umani, l’aborto, ecc.). In questo contesto, si trova la crescente diffusione della ideologia chiamata gender theory, secondo la quale il gender di ciascun individuo risulta essere solo il prodotto di condizionamenti e di bisogni sociali, cessando, così, di avere piena corrispondenza con la sessualità biologica.

24. Inoltre, si fa ampiamente notare come ciò che viene stabilito dalla legge civile – basato sul positivismo giuridico, sempre più dominante – divenga, nella mentalità comune, anche moralmente accettabile. Ciò che è “naturale” tende ad essere definito tale soltanto dall’individuo e dalla società, divenuti gli unici giudici per le scelte etiche. La relativizzazione del concetto di “natura” si riflette anche sul concetto di “durata” stabile in rapporto all’unione sponsale. Oggi, un amore è considerato “per sempre” solo in relazione a quanto possa effettivamente durare.

25. Se, da una parte, si assiste ad una perdita di significato della “legge naturale”, dall’altra, come affermato da varie Conferenze Episcopali dell’Africa, dell’Oceania e dell’Asia orientale, in alcuni regioni è la poligamia ad essere considerata “naturale”, così come “naturale” è considerato il ripudiare una moglie che non sia in grado di dare figli – e, tra questi, figli maschi – al marito. Emerge, in altri termini, che dal punto di vista della cultura diffusa la legge naturale non sia più da considerarsi universale, dal momento che non esiste più un sistema di riferimento comune.

26. Dalle risposte emerge la convinzione generalizzata del fatto che la distinzione dei sessi possieda un fondamento naturale all’interno dell’umana esistenza. Esiste, dunque, per forza della tradizione, della cultura e dell’intuizione, il desiderio di mantenere l’unione tra l’uomo e la donna. La legge naturale è dunque universalmente accettata “di fatto” dai fedeli, pur senza la necessità di essere teoricamente giustificata. Poiché il venir meno del concetto di legge naturale tende a dissolvere il legame tra amore, sessualità e fertilità, intesi come essenza del matrimonio, molti aspetti della morale sessuale della Chiesa non vengono oggi capiti. Su questo si radica una certa critica alla legge naturale anche da parte di alcuni teologi.

Contestazione pratica della legge naturale sull’unione tra uomo e donna

27. Considerato lo scarso utilizzo odierno del riferimento alla legge naturale da parte di molte realtà accademiche, le contestazioni maggiori provengono dalla pratica massiccia del divorzio, della convivenza, della contraccezione, dalle procedure artificiali di procreazione, dalle unioni omosessuali. Tra le popolazioni più povere e meno influenzate dal pensiero dell’Occidente – in particolar modo si fa qui riferimento ad alcuni Stati africani –, si sono evidenziati altri tipi di contestazione di questa legge, come il fenomeno del machismo, della poligamia, dei matrimoni tra adolescenti e preadolescenti, del divorzio in caso di sterilità o, comunque, di mancanza di discendenza maschile, ma anche dell’incesto ed altre pratiche aberranti.

28. In quasi tutte le risposte, incluse le osservazioni, si registra il numero crescente di casi di famiglie “allargate”, soprattutto per la presenza di figli avuti da diversi partners. Nella società occidentale, sono ormai numerosi anche i casi in cui i figli, oltre che con genitori separati o divorziati, risposati o meno, si trovano pure con nonni nella medesima situazione. Inoltre, specialmente in Europa e in America del Nord (ma anche tra gli Stati dell’Asia orientale), sono riscontrati casi in netta crescita di unioni matrimoniali non aperte alla vita, così come di individui che impostano la loro vita come singles. Anche le famiglie monoparentali sono in netta crescita. In quegli stessi Continenti si assiste parimenti a un vertiginoso innalzamento dell’età matrimoniale. Molte volte, in special modo negli stati dell’Europa del Nord e dell’America settentrionale, i figli sono avvertiti come un ostacolo al benessere della persona e della coppia.

29. Degna di menzione è la volontà di riconoscere a livello civile, in particolare in alcune zone dell’Asia, unioni cosiddette “multipersonali” tra individui di orientamenti e di identità sessuali diversi, basate solo sui propri bisogni e sulle singole e soggettive necessità. In sintesi, si tende ad accentuare il diritto alla libertà individuale senza compromesso: le persone si “costruiscono” solo in base ai propri desideri individuali. Ciò che si giudica sempre più divenire “naturale” è più che altro l’autoreferenzialità della gestione dei propri desideri ed aspirazioni. A ciò contribuisce pesantemente l’influsso martellante dei mass media e dello stile di vita esibito da certi personaggi dello sport e dello spettacolo; aspetti, questi, che esercitano la loro influenza anche in quei Paesi in cui la cultura familiare tradizionale sembra aver più resistito (Africa, Medio Oriente e Asia centro-meridionale).

Auspicabile rinnovamento del linguaggio

30. L’esigenza sottesa all’uso tradizionale dell’espressione “legge naturale” spinge a migliorare il linguaggio e il quadro concettuale di riferimento, così da comunicare i valori del Vangelo in modo comprensibile all’uomo di oggi. In particolare, dalla grande maggioranza delle risposte e, ancor di più, delle osservazioni, emerge la necessità di dare una enfasi decisamente maggiore al ruolo della Parola di Dio quale strumento privilegiato nella concezione della vita coniugale e familiare. Si raccomanda maggiore riferimento al mondo biblico, ai suoi linguaggi e forme narrative. In tal senso, degna di rilievo è la proposta di tematizzare e approfondire il concetto, di ispirazione biblica, di “ordine della creazione”, come possibilità di rileggere in modo esistenzialmente più significativo la “legge naturale” (cf. l’idea di legge scritta nel cuore in Rm 1,19-21 e 2,14-15). Si propone anche l’insistenza sui linguaggi accessibili, come ad esempio quello simbolico utilizzato dalla liturgia. Si raccomanda anche l’attenzione al mondo giovanile da assumere come interlocutore diretto, anche su questi temi.

Capitolo IV

La famiglia e la vocazione della persona in Cristo

La famiglia, la persona e la società

31. La famiglia è riconosciuta nel popolo di Dio come un bene inestimabile, l’ambiente naturale di crescita della vita, una scuola di umanità, di amore e di speranza per la società. Essa continua ad essere uno spazio privilegiato in cui Cristo rivela il mistero e la vocazione dell’uomo. Accanto all’affermazione condivisa di questo dato originario, la grande maggioranza delle risposte afferma che la famiglia può essere questo luogo privilegiato, lasciando intendere, e talvolta esplicitamente constatando, una distanza preoccupante tra la famiglia nelle forme in cui oggi è conosciuta e l’insegnamento della Chiesa al riguardo. La famiglia si trova obiettivamente in un momento molto difficile, con realtà, storie e sofferenze complesse, che necessitano di uno sguardo compassionevole e comprensivo. Questo sguardo è quello che consente alla Chiesa di accompagnare le famiglie come sono nella realtà e a partire da qui annunciare il Vangelo della famiglia secondo le loro specifiche necessità.

32. Si riconosce, nelle risposte, come per molti secoli la famiglia abbia ricoperto un ruolo significativo all’interno della società: essa è infatti il primo luogo dove la persona si forma nella società e per la società. Riconosciuta come il luogo naturale per lo sviluppo della persona, è per questo anche il fondamento di ogni società e Stato. In sintesi, essa è definita la “prima società umana”. La famiglia è il luogo dove si trasmettono e si possono imparare fin dai primi anni di vita valori come fratellanza, lealtà, amore per la verità e per il lavoro, rispetto e solidarietà tra le generazioni, così come l’arte della comunicazione e la gioia. Essa è lo spazio privilegiato per vivere e promuovere la dignità e i diritti dell’uomo e della donna. La famiglia, fondata sul matrimonio, rappresenta l’ambito di formazione integrale dei futuri cittadini di un Paese.

33. Una delle grandi sfide della famiglia contemporanea consiste nel tentativo della sua privatizzazione. Vi è il rischio di dimenticare che la famiglia è la «cellula fondamentale della società, il luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri» (EG 66). Occorre proporre una visione aperta della famiglia, sorgente di capitale sociale, vale a dire, di virtù essenziali per la vita comune. Nella famiglia s’impara cosa sia il bene comune, perché in essa si può fare esperienza della bontà di vivere insieme. Senza famiglia l’uomo non può uscire dal suo individualismo, poiché solo in essa s’impara la forza dell’amore per sostenere la vita, e «senza un amore affidabile nulla potrebbe tenere veramente uniti gli uomini. L’unità tra loro sarebbe concepibile solo come fondata sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura, ma non sulla bontà di vivere insieme, non sulla gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare» (LF 51).

34. Occorrerà riflettere su che cosa voglia dire oggi promuovere una pastorale capace di stimolare la partecipazione della famiglia nella società. Le famiglie non sono solo oggetto di protezione da parte dello Stato, ma devono recuperare il loro ruolo come soggetti sociali. Tante sfide appaiono in questo contesto per le famiglie: il rapporto tra la famiglia e il mondo del lavoro, tra la famiglia e l’educazione, tra la famiglia e la sanità; la capacità di unire tra di loro le generazioni, in modo che non si abbandonino i giovani e gli anziani; lo sviluppo di un diritto di famiglia che tenga conto delle sue specifiche relazioni; la promozione di leggi giuste, come quelle che garantiscono la difesa della vita umana dal suo concepimento e quelle che promuovono la bontà sociale del matrimonio autentico tra l’uomo e la donna.

 Ad immagine della vita trinitaria

35. Un certo numero di risposte mette l’accento sull’immagine della Trinità riflessa nella famiglia. L’esperienza dell’amore reciproco tra gli sposi aiuta a comprendere la vita trinitaria come amore: attraverso la comunione vissuta in famiglia i bambini possono intravvedere un’immagine della Trinità. Recentemente, il Santo Padre Francesco ha ricordato nelle sue catechesi sui sacramenti che «quando un uomo e una donna celebrano il sacramento del Matrimonio, Dio, per così dire, si “rispecchia” in essi, imprime in loro i propri lineamenti e il carattere indelebile del suo amore. Il matrimonio è l’icona dell’amore di Dio per noi. Anche Dio, infatti, è comunione: le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo vivono da sempre e per sempre in unità perfetta. Ed è proprio questo il mistero del Matrimonio: Dio fa dei due sposi una sola esistenza» (Udienza generale del 2 aprile 2014).

La Santa Famiglia di Nazareth e l’educazione all’amore

36. In maniera pressoché costante, viene sottolineata dalle risposte l’importanza della famiglia di Nazareth come modello ed esempio per la famiglia cristiana. Il mistero dell’Incarnazione del Verbo nel seno di una famiglia ci rivela come essa sia un luogo privilegiato per la rivelazione di Dio all’uomo. Di fatto, si riconosce come proprio la famiglia sia il luogo ordinario e quotidiano dell’incontro con Cristo. Il popolo cristiano guarda alla famiglia di Nazareth come esempio di relazione e di amore, come punto di riferimento per ogni realtà familiare e come conforto nella tribolazione. Alla famiglia di Nazareth la Chiesa si rivolge per affidare le famiglie nella loro realtà concreta di gioia, di speranza e di dolore.

37. Viene evidenziata dalle risposte pervenute l’importanza dell’amore vissuto in famiglia, definita come “segno efficace dell’esistenza dell’Amore di Dio”, “santuario dell’amore e della vita”. La prima esperienza di amore e di relazione accade in famiglia: si sottolinea la necessità che ogni bambino viva nel calore e nella cura protettiva dei genitori, in una casa dove abita la pace. I bambini devono poter percepire che Gesù è con loro e non sono mai soli. La solitudine dei bambini a causa dell’allentamento dei legami familiari è presente, in particolare, in alcune aree geografiche. Anche le correzioni devono essere finalizzate a far sì che i bambini possano crescere in un ambiente familiare dove si viva l’amore, e i genitori realizzino la loro vocazione ad essere collaboratori di Dio nello sviluppo della famiglia umana.

38. Si sottolinea con insistenza il valore formativo dell’amore vissuto in famiglia, non solo per i figli, ma per tutti i suoi membri. La famiglia è così definita “scuola di amore”, “scuola di comunione”, una “palestra di relazioni”, il luogo privilegiato dove si impara a costruire relazioni significative, che aiutino lo sviluppo della persona fino alla capacità del dono di sé. Alcune risposte sottolineano come la conoscenza del mistero e della vocazione della persona umana sia legata al riconoscimento e all’accoglienza all’interno della famiglia dei differenti doni e capacità di ciascuno. Emerge qui l’idea della famiglia come “prima scuola di umanità”: in questo essa è considerata come insostituibile.

Differenza, reciprocità e stile di vita familiare

39. Il ruolo dei genitori, primi educatori nella fede, è considerato essenziale e vitale. Non di rado si pone l’accento sulla testimonianza della loro fedeltà e, in particolare, sulla bellezza della loro differenza; talvolta si afferma semplicemente l’importanza dei ruoli distinti di padre e madre. In altri casi, si sottolinea la positività della libertà, dell’uguaglianza tra i coniugi e della loro reciprocità, così come la necessità del coinvolgimento di entrambi i genitori sia nell’educazione dei figli che nei lavori domestici, come si afferma in alcune risposte, soprattutto in quelle dall’Europa.

40. In riferimento ancora alla differenza, viene talvolta sottolineata la ricchezza della differenza intergenerazionale che si può sperimentare in famiglia, al cui interno si vivono eventi decisivi come la nascita e la morte, i successi e le sventure, le mete raggiunte e le delusioni. Attraverso questi ed altri eventi, la famiglia diventa il luogo in cui i figli crescono nel rispetto della vita, nella formazione della loro personalità, attraversando ogni stagione dell’esistenza.

41. Si evidenzia insistentemente nelle risposte l’importanza che la fede sia condivisa e resa esplicita da parte dei genitori, a cominciare dallo stile di vita della coppia nella relazione tra loro e con i figli, ma anche attraverso la condivisione della loro conoscenza e consapevolezza di Cristo, il quale – come costantemente ribadito – deve essere al centro della famiglia. Nel contesto di una società plurale i genitori possono offrire così ai figli un orientamento di base per la loro vita, che possa sostenerli anche dopo l’infanzia. Per questo si affermano la necessità di creare uno spazio e un tempo per stare insieme in famiglia e il bisogno di una comunicazione aperta e sincera, in un dialogo costante.

42. È unanimemente sottolineata l’importanza della preghiera in famiglia, come Chiesa domestica(cf. LG 11), ove alimentare una vera e propria “cultura familiare di preghiera”. L’autentica conoscenza di Gesù Cristo è infatti promossa in famiglia dalla preghiera personale e, in particolare, familiare, secondo le forme specifiche e le ritualità domestiche, ritenute un modo efficace per trasmettere la fede ai bambini. Grande insistenza è posta anche sulla lettura comune della Scrittura, ma anche su altre forme di preghiera, come la benedizione della mensa e la recita del rosario. Si precisa però come la famiglia Chiesa domestica non possa sostituire la comunità parrocchiale; inoltre, si sottolinea l’importanza della partecipazione familiare alla vita sacramentale, all’Eucaristia domenicale e ai sacramenti dell’iniziazione cristiana. In più risposte, viene anche sottolineata l’importanza di vivere il sacramento della riconciliazione e la devozione mariana.

Famiglia e sviluppo integrale

43. Si sottolinea, inoltre, l’importanza della famiglia per uno sviluppo integrale: la famiglia risulta fondamentale per la maturazione di quei processi affettivi e cognitivi che sono decisivi per la strutturazione della persona. In quanto ambiente vitale in cui si forma la persona, la famiglia è anche la sorgente da cui attingere la consapevolezza di essere figli di Dio, chiamati per vocazione all’amore. Altri luoghi contribuiscono alla crescita della persona, come la convivenza sociale, il mondo del lavoro, la politica, la vita ecclesiale; tuttavia, si riconosce come i fondamenti umani acquisiti in famiglia permettano di accedere ad ulteriori livelli di socializzazione e strutturazione.

44. La famiglia si confronta quotidianamente con molte difficoltà e prove, come segnalano molte risposte. Essere una famiglia cristiana non garantisce automaticamente l’immunità da crisi anche profonde, attraverso le quali però la famiglia stessa si consolida, giungendo così a riconoscere la propria vocazione originaria nel disegno di Dio, con il sostegno dell’azione pastorale. La famiglia è una realtà già “data” ed assicurata da Cristo, ed insieme è da “costruire” ogni giorno con pazienza, comprensione e amore.

Accompagnare il nuovo desiderio di famiglia e le crisi

45. Un dato importante che emerge dalle risposte è che anche di fronte a situazioni assai difficili, molte persone, soprattutto giovani, percepiscono il valore del legame stabile e duraturo, un vero e proprio desiderio di matrimonio e famiglia, in cui realizzare un amore fedele e indissolubile, che offra serenità per la crescita umana e spirituale. Il “desiderio di famiglia” si rivela come un vero segno dei tempi, che domanda di essere colto come occasione pastorale.

46. È necessario che la Chiesa si prenda cura di famiglie che vivono in situazioni di crisi e di stress; che la famiglia sia accompagnata durante tutto il ciclo della vita. La qualità delle relazioni al suo interno deve essere una delle preoccupazioni cruciali della Chiesa. Il primo sostegno viene da una parrocchia vissuta come “famiglia di famiglie”, identificata come il centro principale di una pastorale rinnovata, fatta di accoglienza e di accompagnamento, vissuto nella misericordia e nella tenerezza. Si segnala l’importanza di organizzazioni parrocchiali a supporto della famiglia.

47. In alcuni casi, inoltre, urge la necessità di accompagnare situazioni in cui i legami familiari sono minacciati dalla violenza domestica, con interventi di sostegno atti a risanare le ferite subite, e sradicare le cause che le hanno determinate. Dove dominano abuso, violenza e abbandono non può esserci né crescita né percezione alcuna del proprio valore.

48. Si sottolinea, infine, l’importanza di una stretta collaborazione tra le famiglie/case e la parrocchia, nella missione di evangelizzazione, così come la necessità del coinvolgimento attivo della famiglia nella vita parrocchiale, attraverso attività di sussidiarietà e solidarietà a favore di altre famiglie. Al riguardo, si menziona l’aiuto prezioso di comunità composte da famiglie. Anche l’appartenenza a movimenti e associazioni può risultare particolarmente significativa dal punto di vista del sostegno.

Una costante formazione

49. Si sottolinea con grande frequenza la necessità di una pastorale familiare che miri ad una formazione costante e sistematica sul valore del matrimonio come vocazione, sulla riscoperta della genitorialità (paternità e maternità) come dono. L’accompagnamento della coppia non si deve limitare alla preparazione al matrimonio, rispetto alla quale si segnala – peraltro – la necessità di rivedere i percorsi. Si mette in luce piuttosto il bisogno di una formazione più costante e articolata: biblica, teologica, spirituale, ma anche umana ed esistenziale. Si fa presente la necessità che la catechesi assuma una dimensione intergenerazionale, che coinvolga attivamente i genitori nel percorso di iniziazione cristiana dei propri figli. In alcune risposte viene segnalata una particolare attenzione alle feste liturgiche, quali il tempo di Natale e soprattutto la festa della Sacra Famiglia, come momenti preziosi per mostrare l’importanza della famiglia e cogliere il contesto umano in cui Gesù è cresciuto, in cui ha imparato a parlare, amare, pregare, lavorare. Si raccomanda la necessità di salvaguardare, anche dal punto di vista civile, dove possibile, la domenica come giorno del Signore; come giorno in cui favorire l’incontro nella famiglia e con le altre famiglie.

II PARTE

LA PASTORALE DELLA FAMIGLIA DI FRONTE ALLE NUOVE SFIDE

Capitolo I La pastorale della famiglia: le varie proposte in atto

Responsabilità dei Pastori e doni carismatici nella pastorale familiare

50. Nell’impegno pastorale per la famiglia si vede all’opera una interessante reciprocità tra la responsabilità dei pastori e i diversi carismi e ministeri nella comunità ecclesiale. Le esperienze più positive si hanno proprio quando avviene questa sinergia. Contemplando l’impegno di tanti fratelli e sorelle per la pastorale della famiglia, si possono immaginare forme nuove di presenza effettiva della Chiesa, che ha il coraggio di “uscire” da sé perché animata dallo Spirito. Per rappresentare questa ricchezza ci concentriamo su alcuni temi e passiamo in rassegna le diverse iniziative e gli stili di cui troviamo ampia traccia nelle risposte pervenute.

La preparazione al matrimonio

51. Vi sono risposte molto simili tra i diversi Continenti a proposito della preparazione al matrimonio. Troviamo frequentemente in atto corsi nelle parrocchie, seminari e ritiri di preghiera per coppie, che coinvolgono come animatori, oltre ai sacerdoti, anche coppie sposate di consolidata esperienza familiare. In questi corsi, gli obiettivi sono: la promozione della relazione di coppia, con la consapevolezza e libertà della scelta; la conoscenza degli impegni umani, civili, cristiani; la ripresa della catechesi dell’iniziazione, con l’approfondimento del sacramento del matrimonio; l’incoraggiamento alla partecipazione della coppia alla vita comunitaria e sociale.

52. Alcune risposte fanno notare la poca attenzione dei nubendi, in molti casi, ai corsi prematrimoniali. Si tende per questo in molti contesti a promuovere catechesi differenziate: per i giovani anche prima del fidanzamento; per i genitori dei fidanzati; per le coppie già sposate; per le persone separate; per la preparazione al battesimo; per la conoscenza dei documenti pastorali dei Vescovi e del Magistero della Chiesa. In qualche Paese si segnalano vere e proprie scuole di preparazione alla vita matrimoniale, indirizzate soprattutto alla istruzione e promozione della donna. Il discorso si differenzia in particolare nelle zone in cui vi è una forte secolarizzazione, ove si constata una crescente distanza culturale delle coppie nei confronti dell’insegnamento della Chiesa. I corsi particolarmente prolungati non sempre sono ben accolti. In quelli prematrimoniali, normalmente, si propone ai nubendi la conoscenza dei metodi naturali di regolazione della fertilità. Tale proposta viene offerta dalla testimonianza di “coppie guida”.

53. Alcune Conferenze Episcopali lamentano che le coppie si presentano spesso all’ultimo momento, avendo già fissato la data del matrimonio, anche quando la coppia presenta aspetti che necessiterebbero di particolare cura, come nel caso della disparità di culto (tra un battezzato e un non battezzato) o di un scarsa formazione cristiana. Altre Conferenze ricordano come gli itinerari alla preparazione al sacramento del matrimonio siano migliorati negli ultimi decenni, cercando sempre più di trasformare i “corsi” in “percorsi”, coinvolgendo insieme sacerdoti e sposi. Si rileva che in questi ultimi anni i contenuti dei programmi hanno subito un sostanziale cambiamento: da un servizio orientato al solo sacramento, si è passati ad un primo annuncio della fede.

54. In molte parti del mondo ci sono lodevoli iniziative di preparazione al matrimonio: “nuove comunità” che promuovono ritiri, incontri personali, gruppi di preghiera, di riflessione e di condivisione, pellegrinaggi, festival, congressi nazionali e internazionali della famiglia. Si rileva tuttavia che questi percorsi, spesso, sono percepiti più come una proposta obbligata che una possibilità di crescita a cui aderire liberamente. Altro momento importante è certamente il colloquio di preparazione al matrimonio con il parroco o con il suo incaricato; si tratta di un momento necessario per tutte le coppie di fidanzati; spesso le risposte lamentano che non venga sufficientemente utilizzato come un’opportunità per una discussione più approfondita, restando invece in un contesto piuttosto formale.

55. Molte risposte raccontano che nei corsi proposti si cerca di introdurre nuovi temi quali la capacità di ascoltare il coniuge, la vita sessuale coniugale, la soluzione dei conflitti. In alcuni contesti, segnati da tradizioni culturali piuttosto maschiliste, si fa notare la carenza di rispetto nei confronti della donna, da cui deriva un esercizio della coniugalità non conforme alla reciprocità tra soggetti di pari dignità. Da alcune zone segnate in passato da dittature atee, mancando spesso le fondamentali conoscenze sulla fede, vengono indicate nuove forme di preparazione dei fidanzati, come i ritiri nei fine settimana, attività in piccoli gruppi integrate con testimonianze di coppie sposate. Si segnalano anche giornate diocesane per la famiglia, via crucis ed esercizi spirituali per le famiglie.

56. Alcune risposte segnalano come in alcuni territori, a prevalenza multireligiosa e multiconfessionale, occorre tener presente alcuni aspetti particolari, come il numero considerevole di matrimoni misti e di disparità di culto. Ciò rende necessaria un’adeguata preparazione da parte dei sacerdoti per accompagnare queste coppie. Nelle diocesi dell’Europa orientale, si ricerca il dialogo con le Chiese ortodosse, in occasione della preparazione ai matrimoni misti. Vi sono testimonianze interessanti che illustrano le giornate diocesane con la presenza del Vescovo e la testimonianza di coppie mature nella fede. Si tende a creare occasione di relazioni tra famiglie, in dialogo con le coppie anziane, valorizzando iniziative di cultura biblica e momenti di preghiera per i nubendi. Le coppie più mature fungono da “padrini” delle giovani coppie, che si preparano al matrimonio.

Pietà popolare e spiritualità familiare

57. Dalle risposte pervenute si evince la necessità di salvaguardare e promuovere le diverse forme della pietà popolare diffuse nei vari Continenti, a sostegno della famiglia. Nonostante una certa disgregazione familiare, rimangono ancora significative la devozione mariana, le feste popolari, quelle dei santi del luogo, come momenti aggregativi della famiglia. Oltre alla preghiera del rosario, in alcune realtà è in uso l’Angelus; un certo valore mantiene la peregrinatio Mariae, il passaggio di un’icona o di una statua della Madonna da una famiglia ad un’altra, da una casa ad un’altra. Ancora si ricorda il valore del “pellegrinaggio del vangelo”, che consiste nella collocazione di una icona e della Sacra Scrittura nelle famiglie, con l’impegno di leggere regolarmente la Bibbia e pregare insieme per un certo periodo. Si constata che tra le famiglie che coltivano queste forme di pietà, come il “pellegrinaggio delle famiglie”, s’incrementano forti rapporti di amicizia e di comunione. Molti segnalano anche l’importanza di promuovere la comune liturgia delle ore, la lettura dei Salmi e degli altri testi della Sacra Scrittura. A volte si raccomanda anche la preghiera spontanea con parole proprie, di ringraziamento e di richiesta di perdono. In alcune nazioni si mette in rilievo la preghiera per le diverse circostanze della vita: in occasione dell’anniversario del battesimo, del matrimonio e della morte. Qualcuno segnala che spesso la preghiera familiare si pratica durante i viaggi, il lavoro e la scuola; in certi Paesi, utilizzando anche radio e televisione. Si segnala pure l’apporto benefico che le famiglie ricevono dalla vicinanza dei monasteri, mediante i quali si stabilisce una relazione di complementarità vocazionale tra matrimonio e vita consacrata. Discorso analogo viene fatto anche per la feconda relazione fra sposi e presbiteri, nelle loro rispettive funzioni.

Il sostegno alla spiritualità familiare

58. Molte Conferenze Episcopali hanno testimoniato come le Chiese particolari, con la loro azione pastorale, sostengono la spiritualità della famiglia. Dai movimenti di spiritualità viene un contributo specifico alla promozione di un’autentica ed efficace pastorale familiare nel nostro tempo. Si riscontrano situazioni ecclesiali molto diverse e cammini differenziati delle comunità cristiane. Ciò che appare evidente è il fatto che le Chiese locali devono poter trovare in questa realtà vere risorse non solo per promuovere qualche iniziativa sporadica per le coppie, ma per immaginare percorsi di pastorale familiare adeguati al nostro tempo. Alcuni interventi hanno sottolineato come, in molte diocesi, si riesca a promuovere un’animazione specifica, una formazione di coppie in grado di sostenere altre coppie e una serie di iniziative tese a promuovere una vera e propria spiritualità familiare. Alcuni osservano che talvolta le comunità locali, i movimenti, i gruppi e le aggregazioni religiose possono correre il rischio di rimanere chiusi in dinamiche parrocchiali o aggregative troppo autoreferenziali. Per questo, è importante che tali realtà vivano l’intero orizzonte ecclesiale in chiave missionaria, così da evitare il pericolo della autoreferenza. Le famiglie appartenenti a queste comunità svolgono un apostolato vivo e hanno evangelizzato tante altre famiglie; i loro membri hanno offerto una testimonianza credibile della vita matrimoniale fedele, di stima reciproca e di unità, di apertura alla vita.

La testimonianza della bellezza della famiglia

59. Un punto chiave per la promozione di una autentica ed incisiva pastorale familiare sembra essere ultimamente la testimonianza della coppia. Questo elemento è stato richiamato da tutte le risposte. Essenziale appare la testimonianza non solo di coerenza con i principi della famiglia cristiana, ma anche della bellezza e della gioia che dona l’accoglienza dell‘annuncio evangelico nel matrimonio e nella vita familiare. Anche nella pastorale familiare si sente il bisogno di percorrere la via pulchritudinis, ossia la via della testimonianza carica di attrattiva della famiglia vissuta alla luce del Vangelo e in costante unione con Dio. Si tratta di mostrare anche nella vita familiare che «credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove» (EG 167).

60. Alcune Conferenze Episcopali fanno notare che, sebbene in molte aree geografiche la riuscita del matrimonio e della famiglia non sia più data per scontata, si osserva, tuttavia, che nei giovani c’è un’alta stima per coniugi che, anche dopo molti anni di matrimonio, vivono ancora una scelta di vita improntata all’amore e alla fedeltà. Anche per questo, in molte diocesi si celebrano, alla presenza dei vescovi, giubilei e feste di ringraziamento per i coniugi che hanno molti anni di matrimonio alle spalle. In questa stessa direzione, si riconosce la speciale testimonianza data da quei coniugi che restano accanto al proprio consorte nonostante problemi e difficoltà.

Capitolo II

Le sfide pastorali sulla famiglia

61. In questa sezione, si raccolgono le risposte e le osservazioni circa le sfide pastorali sulla famiglia, che si articolano in tre questioni fondamentali: la crisi della fede nel suo rapporto con la famiglia; le sfide interne e le sfide esterne, che riguardano la realtà familiare; alcune situazioni difficili, legate ad una cultura dell’individualismo e alla sfiducia nei rapporti stabili.

a) La crisi della fede e la vita familiare

L’azione pastorale nella crisi di fede

62. Alcune risposte rilevano come, nelle situazioni in cui la fede è debole o assente nelle realtà familiari, la parrocchia e la Chiesa nel suo insieme non siano percepite come un sostegno. Ciò avviene probabilmente per una percezione sbagliata e moralistica della vita ecclesiale, dovuta al contesto socio-culturale in cui viviamo, là dove è in crisi la stessa istituzione familiare in quanto tale. L’ideale della famiglia viene inteso come una meta irraggiungibile e frustrante, invece di essere compreso come indicazione di un cammino possibile, attraverso il quale imparare a vivere la propria vocazione e missione. Quando i fedeli avvertono questo scollamento, la crisi nella coppia, nel matrimonio o nella famiglia si trasforma spesso e gradatamente in una crisi di fede. Ci si pone pertanto la domanda su come agire pastoralmente in questi casi: come fare in modo che la Chiesa, nelle sue diverse articolazioni pastorali, si mostri in grado di prendersi cura delle coppie in difficoltà e della famiglia.

63. Molte risposte rilevano come una crisi di fede possa essere l’occasione per constatare il fallimento o un’opportunità per rinnovarsi, scoprendo ragioni più profonde a conferma dell’unione coniugale. Così che la perdita di valori, e addirittura la disgregazione della famiglia, possono trasformarsi in occasione di fortificazione del legame coniugale. Per superare la crisi può essere di aiuto il sostegno di altre famiglie disposte ad accompagnare il difficile cammino della coppia in crisi. In particolare, si sottolinea la necessità che la parrocchia si faccia prossima come una famiglia di famiglie.

b) Situazioni critiche interne alla famiglia

Difficoltà di relazione / comunicazione

64. C’è grande convergenza da parte delle risposte nel sottolineare la difficoltà di relazione e comunicazione in famiglia come uno dei nodi critici rilevanti. Si mette in luce l’insufficienza e persino l’incapacità di costruire relazioni familiari per il sopravvento di tensioni e conflitti tra i coniugi, dovuti alla mancanza di fiducia reciproca e di intimità, al dominio di un coniuge sull’altro, ma anche ai conflitti generazionali tra genitori e figli. Il dramma rilevato in queste situazioni è la progressiva scomparsa della possibilità di dialogo, di tempi e spazi di relazione: la mancanza di condivisione e comunicazione fa sì che ciascuno affronti le proprie difficoltà nella solitudine, senza alcuna esperienza di essere amato e di amare a sua volta. In alcuni contesti sociali, poi, la mancanza di esperienza dell’amore, in particolare dell’amore paterno, è frequente, e questo rende assai difficoltosa l’esperienza dell’amore di Dio e della sua paternità. La debolezza della figura del padre in tante famiglie genera forti squilibri nel nucleo familiare e incertezza identitaria nei figli. Senza l’esperienza quotidiana di amore testimoniato, vissuto e ricevuto risulta particolarmente difficile la scoperta della persona di Cristo come Figlio di Dio e dell’amore di Dio Padre.

Frammentazione e disgregazione

65. Sebbene in modi diversi, le risposte testimoniano come vi sia in molte circostanze una frammentazione e disgregazione di tante realtà familiari; il dramma che costantemente e per primo viene menzionato è quello del divorzio e della separazione all’interno della coppia, talvolta favorito dalla povertà. Tra le altre situazioni critiche si menzionano realtà familiari allargate, in cui appaiono relazioni molteplici invasive, oppure monoparentali (con madri sole o adolescenti), le unioni di fatto, ma anche le unioni e la genitorialità omosessuale (menzionata, in particolare, in Europa e Nord America). In determinati contesti culturali, si ricorda con insistenza la poligamia come uno dei fattori disgreganti il tessuto familiare. A questo si aggiunge la chiusura della famiglia alla vita. Molti episcopati sottolineano con grande preoccupazione la massiccia diffusione della pratica dell’aborto. La cultura dominante sembra per molti aspetti promuovere una cultura di morte rispetto alla vita nascente. Siamo di fronte ad una cultura dell’indifferenza di fronte alla vita. Da parte degli Stati, talvolta, non si contribuisce a un’adeguata tutela dei legami familiari, mediante legislazioni che favoriscono l’individualismo. Tutto ciò, tra la gente, crea una mentalità superficiale su temi di importanza decisiva. Non pochi interventi sottolineano come anche una mentalità contraccettiva segni di fatto negativamente le relazioni familiari.

Violenza e abuso

66. Unanime e trasversale nelle risposte è anche il riferimento alla violenza psicologica, fisica e sessuale, e agli abusi commessi in famiglia ai danni in particolare delle donne e dei bambini, un fenomeno purtroppo non occasionale, né sporadico, particolarmente in certi contesti. Si ricorda anche il terribile fenomeno del femminicidio, spesso legato a profondi disturbi relazionali e affettivi, e conseguenza di una falsa cultura del possesso. Si tratta di un dato davvero inquietante, che interroga tutta la società e la pastorale familiare della Chiesa. La promiscuità sessuale in famiglia e l’incesto sono ricordati esplicitamente in certe aree geografiche (Africa, Asia e Oceania), così come la pedofilia e l’abuso sui bambini. A questo proposito si fa menzione anche dell’autoritarismo da parte dei genitori, che trova espressione nella mancanza di cura e di attenzione per i figli. La mancanza di considerazione per i bambini si unisce all’abbandono dei figli e alla carenza ripetutamente sottolineata del senso di una genitorialità responsabile, che rifiuta non solo di prendersi cura, ma anche di educare i figli, abbandonati totalmente a se stessi.

67. Più episcopati segnalano il dramma del commercio e dello sfruttamento di bambini. A questo proposito, si afferma la necessità di rivolgere un’attenzione particolare alla piaga del “turismo sessuale” e alla prostituzione che sfrutta i minori specialmente nei Paesi in via di sviluppo, creando squilibri all’interno delle famiglie. Si sottolinea come tanto la violenza domestica, nei suoi diversi aspetti, quanto l’abbandono e la disgregazione familiare, nelle sue varie forme, abbiano un impatto significativo sulla vita psicologica della persona e conseguentemente sulla vita di fede, dal momento che il trauma psicologico intacca in maniera negativa la visione, la percezione e l’esperienza di Dio e del suo amore.

Dipendenze, media e social network

68. Tra le diverse situazioni critiche interne alla famiglia vengono menzionate costantemente le dipendenze da alcool e droghe,  ma anche dalla pornografia, talvolta usata e condivisa in famiglia, così come dal gioco d’azzardo e da videogiochi, internet e social network. Quanto ai media, da una parte, si sottolinea a più riprese l’impatto negativo di essi sulla famiglia, dovuto in particolare all’immagine di famiglia veicolata e all’offerta di anti-modelli, che trasmettono valori errati e fuorvianti. Dall’altra, si insiste sui problemi relazionali che i media, unitamente ai social network e internet, creano all’interno della famiglia. Di fatto, televisione, smartphone e computer possono essere un reale impedimento al dialogo tra i membri della famiglia, alimentando relazioni frammentate e alienazione: anche in famiglia si tende sempre più a comunicare attraverso la tecnologia. Si finisce così per vivere rapporti virtuali tra i membri della famiglia, dove i mezzi di comunicazione e l’accesso a internet si sostituiscono sempre di più alle relazioni. A questo proposito, si fa presente non solo il rischio della disgregazione e della disunione familiare, ma anche la possibilità che il mondo virtuale diventi una vera e propria realtà sostitutiva (in particolare in Europa, America del Nord e Asia). È ricorrente nelle risposte la sottolineatura di come anche il tempo libero per la famiglia sia catturato da questi strumenti.

69. Si sottolinea, inoltre, il fenomeno crescente nell’era di internet dell’overload informativo (information overloading): l’aumento esponenziale dell’informazione ricevuta, cui spesso non corrisponde un aumento della sua qualità, unitamente all’impossibilità di verificare sempre l’attendibilità delle informazioni disponibili on-line. Il progresso tecnologico è una sfida globale per la famiglia, al cui interno causa rapidi cambiamenti di vita riguardo ai valori, alle relazioni e agli equilibri interni. Le criticità emergono, perciò, con più evidenza laddove manca in famiglia un’educazione adeguata all’uso dei media e delle nuove tecnologie.

c) Pressioni esterne alla famiglia

L’incidenza dell’attività lavorativa sulla famiglia

70. Nelle risposte è unanime il riferimento all’impatto dell’attività lavorativa sugli equilibri familiari. In primo luogo, si registra la difficoltà di organizzare la vita familiare comune nel contesto di una incidenza dominante del lavoro, che esige dalla famiglia sempre più flessibilità. I ritmi di lavoro sono intensi e in certi casi estenuanti; gli orari spesso troppo lunghi, talvolta si estendono anche alla domenica: tutto questo ostacola la possibilità di stare insieme. A causa di una vita sempre più convulsa, i momenti di pace ed intimità familiare diventano rari. In alcune aree geografiche, viene evidenziato il prezzo pagato dalla famiglia alla crescita e allo sviluppo economico, cui si aggiunge la ripercussione ben più vasta degli effetti prodotti dalla crisi economica e dall’instabilità del mercato del lavoro. La crescente precarietà lavorativa, unitamente alla crescita della disoccupazione e alla conseguente necessità di spostamenti sempre più lunghi per lavorare, hanno ricadute pesanti sulla vita familiare, producendo tra l’altro un allentamento delle relazioni, un progressivo isolamento delle persone con conseguente crescita di ansia.

71. In dialogo con lo Stato e gli enti pubblici preposti, ci si aspetta da parte della Chiesa un’azione di concreto sostegno per un dignitoso impiego, per giusti salari, per una politica fiscale a favore della famiglia, così come l’attivazione di un aiuto per le famiglie e per i figli. Si segnala, in proposito, la frequente mancanza di leggi che tutelino la famiglia nell’ambito del lavoro e, in particolare, la donna-madre lavoratrice. Si constata inoltre che l’area del sostegno e dell’impegno civile a favore delle famiglie è un ambito in cui l’azione comune, così come la creazione di reti con organizzazioni che perseguono simili obiettivi, è consigliabile e fruttuosa.

Il fenomeno migratorio e la famiglia

72. In relazione all’ambito lavorativo, viene sottolineata anche l’incidenza che la migrazione produce sul tessuto familiare: per far fronte ai problemi di sussistenza, padri e, in misura crescente, madri si vedono costretti ad abbandonare la famiglia per motivi lavorativi. La lontananza di un genitore ha conseguenze gravi sia sugli equilibri familiari che sull’educazione dei figli. Allo stesso tempo, si ricorda come l’invio in famiglia di denaro, da parte del genitore lontano, possa generare una sorta di dipendenza negli altri familiari. In riferimento a questa situazione, si segnala la necessità di facilitare il ricongiungimento familiare attraverso la promozione di politiche adeguate.

Povertà e lotta per la sussistenza

73. Nelle risposte e nelle osservazioni, ricorrente e diffuso è il riferimento alle ristrettezze economiche che attanagliano le famiglie, così come alla mancanza di mezzi materiali, alla povertà e alla lotta per la sussistenza. Si tratta di un fenomeno esteso, che non coinvolge solo i Paesi in via di sviluppo, ma è menzionato con insistenza anche in Europa e in America del Nord. Si constata come nei casi di povertà estrema e crescente, la famiglia si trovi a lottare per la sussistenza, nella quale concentra la maggior parte delle sue energie. Alcune osservazioni chiedono una forte parola profetica della Chiesa in relazione alla povertà, che mette duramente alla prova la vita familiare. Una Chiesa “povera e per i poveri”, si afferma, non dovrebbe mancare di far sentire alta la sua voce in questo ambito.

Consumismo ed individualismo

74. Tra le varie pressioni culturali sulla famiglia si menzionano, in maniera costante, anche il consumismo, che ricade pesantemente sulla qualità delle relazioni familiari, centrate sempre di più sull’avere anziché sull’essere. La mentalità consumistica è menzionata, in particolare in Europa, anche in riferimento al “figlio ad ogni costo” ed ai conseguenti metodi di procreazione artificiale. Inoltre, si richiamano il carrierismo e la competitività come situazioni critiche che influenzano la vita familiare. Si sottolinea, soprattutto in Occidente, una privatizzazione della vita, della fede e dell’etica: alla coscienza e alla libertà individuale si conferisce il ruolo di istanza valoriale assoluta, che determina il bene e il male. Inoltre, si ricorda l’influsso di una cultura “sensoriale” e dell’effimero. A questo proposito, si ricordano le espressioni di Papa Francesco sulla cultura del provvisorio e dello scarto, che incide fortemente sulla fragile perseveranza delle relazioni affettive ed è spesso causa di profondo disagio e di precarietà della vita familiare.

Contro-testimonianze nella Chiesa

75. Con frequenza ed estesa distribuzione a livello geografico, nelle risposte appare rilevante la menzione degli scandali sessuali all’interno della Chiesa (pedofilia, in particolare), ma anche in generale quella di un’esperienza negativa con il clero o con alcune altre persone. Soprattutto in America del Nord e in Europa Settentrionale, si denuncia una rilevante perdita di credibilità morale a causa degli scandali sessuali. A ciò si aggiunge lo stile di vita a volte vistosamente agiato dei presbiteri, così come l’incoerenza tra il loro insegnamento e la condotta di vita. Viene ricordato inoltre il comportamento di quei fedeli che vivono e praticano la loro fede “in maniera teatrale”, venendo meno a quella verità e umiltà, che sono richieste dallo spirito evangelico. In particolare, si sottolinea la percezione del rifiuto nei confronti di persone separate, divorziate o genitori single da parte di alcune comunità parrocchiali, così come il comportamento intransigente e poco sensibile di presbiteri o, più in generale, l’atteggiamento della Chiesa, percepito in molti casi come escludente, e non come quello di una Chiesa che accompagna e sostiene. In tal senso, si sente il bisogno di una pastorale aperta e positiva, che sia in grado di ridonare fiducia nell’istituzione, attraverso una testimonianza credibile di tutti i suoi membri.

d) Alcune situazioni particolari

Il peso delle aspettative sociali sull’individuo

76. Accanto a queste situazioni critiche, interne ed esterne alla famiglia, altre trovano riscontro in particolari aree geografiche, come ad esempio nell’area asiatica, e non solo, dove le forti aspettative familiari e sociali incidono sulla persona fin dall’infanzia. Le prestazioni scolastiche e l’eccessivo valore attribuito ai titoli di studio (credentialism) è considerato dalla famiglia l’obiettivo prioritario da raggiungere. Oltre a caricare i figli di aspettative, in alcune aree, si segnala l’impatto negativo sulla famiglia della frequenza a corsi finalizzati al perseguimento di particolari traguardi formativi, dopo gli orari scolastici, fino a tarda sera, allo scopo di raggiungere migliori risultati (cram schools). In questi casi, ne risente la vita familiare e la vita di fede, come pure la mancanza di tempo libero, da dedicare al gioco dei bambini, oltre che al riposo e al sonno. La pressione delle aspettative è talora così forte, da comportare processi di esclusione sociale, che giungono persino al suicidio. Si ricorda, infine, la difficoltà – derivante dallo specifico contesto culturale e sociale – ad affrontare e a parlare apertamente, tanto nella società quanto nella Chiesa, di questo tipo di problemi.

L’impatto delle guerre

77. In particolare in Africa e in Medio Oriente, si ricorda l’impatto della guerra sulla famiglia, che causa morte violenta, distruzione delle abitazioni, necessità di fuggire abbandonando tutto, per rifugiarsi altrove. Con riferimento ad alcune regioni, viene inoltre segnalato l’effetto di disgregazione sociale provocato dalla guerra, che include talvolta la costrizione all’abbandono della propria comunità cristiana e della fede, soprattutto da parte di intere famiglie in situazione di povertà.

Disparità di culto

78. In alcune aree geografiche – come in Asia e nell’Africa del Nord –, data la scarsa percentuale di cattolici, un gran numero di famiglie è composto da un coniuge cattolico e dall’altro di un’altra religione. Alcune risposte, pur riconoscendo la grande ricchezza per la Chiesa delle coppie miste, evidenziano la difficoltà inerente all’educazione cristiana dei figli, specialmente ove la legge civile condiziona l’appartenenza religiosa dei figli della coppia. Talvolta, la disparità di culto in famiglia si configura come un’opportunità o una sfida per la crescita nella fede cristiana.

Altre situazioni critiche

79. Tra i fattori che incidono sulle difficoltà familiari, oltre alle malattie fisiche, tra le quali l’AIDS, si segnalano: la malattia mentale, la depressione, l’esperienza della morte di un figlio o di un coniuge. A tale proposito, si avverte la necessità di promuovere un approccio pastorale che si prenda cura del contesto familiare, segnato da malattia e lutto, come momento particolarmente opportuno per riscoprire la fede che sostiene e consola. Tra le situazioni critiche – in alcune zone del mondo, determinate dalla denatalità –, si ricordano anche la diffusione di sètte, le pratiche esoteriche, l’occultismo, la magia e la stregoneria. Nelle risposte si constata che nessun ambito e nessuna situazione può essere considerata a priori impermeabile al Vangelo. Risulta decisivo l’accompagnamento e l’accoglienza, da parte della comunità cristiana, delle famiglie particolarmente vulnerabili, per le quali l’annuncio del Vangelo della misericordia è particolarmente forte e urgente.

Capitolo III

Le situazioni pastorali difficili

A. Situazioni familiari

80. Dalle risposte emerge la comune considerazione che, nell’ambito di quelle che possono definirsi situazioni matrimoniali difficili, si celano storie di grande sofferenza, come pure testimonianze di sincero amore. «La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. […] la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (EG 47). La vera urgenza pastorale è quella di permettere a queste persone di curare le ferite, di guarire e di riprendere a camminare insieme a tutta la comunità ecclesiale. La misericordia di Dio non provvede ad una copertura temporanea del nostro male, altresì, apre radicalmente la vita alla riconciliazione, conferendole nuova fiducia e serenità, mediante un vero rinnovamento. La pastorale familiare, lungi dal chiudersi in uno sguardo legalista, ha la missione di ricordare la grande vocazione all’amore a cui la persona è chiamata, e di aiutarla a vivere all’altezza della sua dignità.

Le convivenze

81. Nelle risposte provenienti da tutte le aree geografiche, si rileva il numero crescente di coppie che convivono ad experimentum, senza alcun matrimonio né canonico né civile e senza alcuna registrazione. Soprattutto in Europa e in America, il termine è considerato improprio, in quanto spesso non si tratta di un “esperimento”, ovvero di un periodo di prova, ma di una forma stabile di vita. Talvolta, il matrimonio avviene dopo la nascita del primo bambino, in modo che nozze e battesimo si celebrino insieme. Le statistiche tendono a notare un’incidenza alta di tale realtà: si sottolinea una certa differenza tra zone rurali (convivenze più scarse) e zone urbane (ad esempio in Europa, Asia, America Latina). La convivenza è più comune in Europa e in America del Nord, in crescita in America Latina, quasi inesistente nei Paesi Arabi, minore in Asia. In alcune zone dell’America Latina, la convivenza è piuttosto un’abitudine rurale, integrata nella cultura indigena (servinacuy: matrimonio a prova). In Africa si pratica il matrimonio a tappe, legato alla comprovazione della fecondità della donna, che implica una sorta di legame tra le due famiglie in questione. Nel contesto europeo, le situazioni della convivenza sono molto diversificate; da una parte, si risente talvolta dell’influsso dell’ideologia marxista; altrove, si configura come una opzione morale giustificata.

82. Tra le ragioni sociali che portano alla convivenza si registrano: politiche familiari inadeguate a sostenere la famiglia; problemi finanziari; disoccupazione giovanile; mancanza di un’abitazione. Da questi ed altri fattori consegue la tendenza a dilazionare il matrimonio. In tal senso, gioca un ruolo anche il timore circa l’impegno che comporta l’accoglienza dei figli (in particolare in Europa e in America Latina). Molti pensano che nella convivenza si possa “testare” l’eventuale riuscita del matrimonio, prima di celebrare le nozze. Altri indicano come motivo a favore della convivenza, la scarsa formazione sul matrimonio. Per molti altri ancora la convivenza rappresenta la possibilità di vivere insieme senza alcuna decisione definitiva o impegnativa a livello istituzionale. Tra le linee di azione pastorale proposte troviamo le seguenti: offrire, fin dall’adolescenza, un percorso che apprezzi la bellezza del matrimonio; formare operatori pastorali sui temi del matrimonio e della famiglia. Si segnala anche la testimonianza di gruppi di giovani che si preparano al matrimonio con un fidanzamento vissuto in castità.

Le unioni di fatto

83. Le convivenze ad experimentum, molto spesso, corrispondono ad unioni libere di fatto, senza riconoscimento civile o religioso. Si deve tener conto che il riconoscimento civile di tali forme, in alcuni Paesi, non equivale al matrimonio, in quanto esiste una legislazione specifica sulle unioni libere di fatto. Nonostante ciò cresce il numero delle coppie che non chiedono alcuna forma di registrazione. Nei Paesi occidentali – si segnala –, la società ormai non vede più questa situazione come problematica. In altri (ad esempio, nei Paesi Arabi), rimane invece molto raro un matrimonio senza riconoscimento civile e religioso. Tra i motivi di tale situazione si segnalano, principalmente nei Paesi occidentali, il mancato aiuto da parte dello Stato, per il quale la famiglia non ha più un valore particolare; la percezione dell’amore come fatto privato senza ruolo pubblico; la mancanza di politiche familiari, per cui si percepisce lo sposarsi come una perdita economica. Un problema particolare è costituito dagli immigrati, soprattutto quando illegali, perché temono di essere identificati come tali nel momento in cui cercassero riconoscimento pubblico del loro matrimonio.

84. Legata al modo di vita dell’Occidente, ma diffusa anche in altri Paesi, appare un’idea di libertà che considera il legame matrimoniale una perdita della libertà della persona; incide la scarsa formazione dei giovani, che non pensano sia possibile un amore per tutta la vita; inoltre, i media promuovono ampiamente questo stile di vita tra i giovani. Spesso, la convivenza e le unioni libere sono sintomo del fatto che i giovani tendono a prolungare la loro adolescenza e pensano che il matrimonio sia troppo impegnativo, hanno paura davanti a un’avventura troppo grande per loro (cf. Papa Francesco, Discorso ai fidanzati del 14 febbraio 2014).

85. Tra le possibili linee di azione pastorale, al riguardo, si ritiene essenziale aiutare i giovani ad uscire da una visione romantica dell’amore, percepito solo come un sentimento intenso verso l’altro, e non come risposta personale ad un’altra persona, nell’ambito di un progetto comune di vita, in cui si dischiude un grande mistero e una grande promessa. I percorsi pastorali devono farsi carico dell’educazione all’affettività, con un processo remoto che inizi già nell’infanzia, come anche di un sostegno ai giovani nelle fasi del fidanzamento, mostrandone il rilievo comunitario e liturgico. Occorre insegnare loro ad aprirsi al mistero del Creatore, che si manifesta nel loro amore, perché comprendano la portata del loro consenso; bisogna ricuperare il legame tra famiglia e società, per uscire da una visione isolata dell’amore; infine, si deve trasmettere ai giovani la certezza che non sono soli nel costruire la propria famiglia, perché la Chiesa li affianca come “famiglia di famiglie”. Decisiva, al riguardo, è la dimensione della “compagnia”, mediante la quale la Chiesa si manifesta come presenza amorevole, che si prende particolare cura dei fidanzati, incoraggiandoli a farsi compagni di strada, tra loro e con gli altri.

Separati, divorziati e divorziati risposati

86. Dalle risposte risulta che la realtà dei separati, divorziati e divorziati risposati è rilevante in Europa e in tutta l’America; molto meno in Africa e in Asia. Dato il fenomeno in crescita di queste situazioni, molti genitori sono preoccupati per il futuro dei loro figli. Inoltre, viene notato che il numero crescente di conviventi rende il problema dei divorzi meno rilevante: la gente gradatamente divorzia di meno, perché in realtà tende a sposarsi sempre di meno. In certi contesti, la situazione è diversa: non c’è divorzio perché non c’è matrimonio civile (nei Paesi Arabi e in qualche Paese dell’Asia).

I figli e coloro che restano soli

87. Un’altra questione sollevata è quella riguardante i figli dei separati e dei divorziati. Si nota che da parte della società manca un’attenzione nei loro confronti. Su di essi ricade il peso dei conflitti matrimoniali di cui la Chiesa è chiamata a prendersi cura. Anche i genitori dei divorziati, che soffrono le conseguenze della rottura del matrimonio e spesso devono supplire ai disagi della situazione di questi figli, devono essere sostenuti da parte della Chiesa. Circa i divorziati e i separati che restano fedeli al vincolo matrimoniale si richiede ancora un’ attenzione per la loro situazione che spesso è vissuta in solitudine e povertà. Risulta che questi sono pure i “nuovi poveri”.

Le ragazze madri

88. Un’attenzione particolare va data alle madri che non hanno marito e si prendono cura da sole dei figli. La loro condizione è spesso il risultato di storie molto sofferte, non di rado di abbandono. Vanno ammirati anzitutto l’amore e il coraggio con cui hanno accolto la vita concepita nel loro grembo e con cui provvedono alla crescita e all’educazione dei loro figli. Da parte della società civile esse meritano un sostegno speciale, che tenga conto dei tanti sacrifici che affrontano. Da parte della comunità cristiana, poi, va prestata una sollecitudine che faccia loro percepire la Chiesa come vera famiglia dei figli di Dio.

Situazioni di irregolarità canonica

89. In linea generale, in varie aree geografiche, le risposte si concentrano soprattutto sui divorziati risposati, o comunque in nuova unione. Tra quelli che vivono in situazione canonicamente irregolare, si riscontrano diversi atteggiamenti, che vanno dalla mancanza di consapevolezza della propria situazione alla indifferenza, oppure ad una consapevole sofferenza. Gli atteggiamenti dei divorziati in nuova unione sono per lo più simili nei diversi contesti regionali, con un particolare rilievo in Europa e in America, e minore in Africa. Al riguardo, alcune risposte attribuiscono questa situazione alla formazione carente o alla scarsa pratica religiosa. In America del Nord, la gente pensa spesso che la Chiesa non sia più una guida morale affidabile, soprattutto per le questioni della famiglia, considerata come materia privata su cui decidere autonomamente.

90. Piuttosto consistente è il numero di coloro che considerano con noncuranza la propria situazione irregolare. In questo caso, non vi è alcuna richiesta di ammissione alla comunione eucaristica, né di poter celebrare il sacramento della riconciliazione. La consapevolezza della situazione irregolare si manifesta spesso quando interviene il desiderio dell’iniziazione cristiana per i figli, o se sopraggiunge la richiesta di partecipare ad una celebrazione di battesimo o cresima come padrino o madrina. A volte persone adulte che pervengono ad una fede personale e consapevole nel cammino catechistico o quasi catecumenale scoprono il problema della loro irregolarità. Dal punto di vista pastorale, queste situazioni vengono considerate una buona opportunità per cominciare un itinerario di regolarizzazione, soprattutto nei casi delle convivenze. Una situazione diversa viene segnalata in Africa, non tanto riguardo ai divorziati in nuova unione, ma in relazione alla pratica della poligamia. Ci sono casi di convertiti per i quali è difficile abbandonare la seconda o terza moglie, con cui si hanno ormai dei figli, e che vogliono partecipare alla vita ecclesiale.

91. Prima di entrare in merito alla sofferenza legata al non poter ricevere i sacramenti da parte di coloro che sono in situazione di irregolarità, viene segnalata una sofferenza più originaria, di cui la Chiesa deve farsi carico, ovvero quella legata al fallimento del matrimonio e alla difficoltà di regolarizzare la situazione. Qualcuno rileva, in questa crisi, il desiderio di rivolgersi alla Chiesa per un aiuto. La sofferenza sembra spesso legata ai diversi livelli di formazione – come segnalano diverse Conferenze Episcopali in Europa, Africa e America. Spesso non si coglie il rapporto intrinseco tra matrimonio, Eucaristia e penitenza; pertanto, risulta assai difficile comprendere perché la Chiesa non ammetta alla comunione coloro che si trovano in una condizione irregolare. I percorsi catechetici sul matrimonio non spiegano sufficientemente questo legame. In alcune risposte (America, Europa dell’Est, Asia), si evidenzia come a volte si ritenga, erroneamente, che il divorzio come tale, anche se non si vive in nuova unione, renda automaticamente impossibile accedere alla comunione. In tal modo si rimane, senza alcun motivo, privi dei sacramenti.

92. La sofferenza causata dal non ricevere i sacramenti è presente con chiarezza nei battezzati che sono consapevoli della propria situazione. Tanti sentono frustrazione e si sentono emarginati. C’è chi si domanda perché gli altri peccati si perdonano e questo no; oppure perché i religiosi e sacerdoti che hanno ricevuto la dispensa dai loro voti e dagli oneri sacerdotali possono celebrare il matrimonio, ricevere la comunione e i divorziati risposati no. Tutto questo evidenzia la necessità di opportuna formazione e informazione. In altri casi, non si percepisce come sia la propria situazione irregolare il motivo per non poter ricevere i sacramenti; piuttosto, si ritiene che la colpa sia della Chiesa che non ammette tali circostanze. In ciò, si segnala anche il rischio di una mentalità rivendicativa nei confronti dei sacramenti. Inoltre, assai preoccupante risulta essere l’incomprensione della disciplina della Chiesa quando nega l’accesso ai sacramenti in questi casi, come se si trattasse di una punizione. Un buon numero di Conferenze Episcopali suggerisce di aiutare le persone in situazione canonicamente irregolare a non ritenersi «separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita» (FC 84). Inoltre, ci sono risposte ed osservazioni, da parte di alcune Conferenze Episcopali, che mettono l’accento sulla necessità che la Chiesa si doti di strumenti pastorali mediante i quali aprire la possibilità di esercitare una più ampia misericordia, clemenza e indulgenza nei confronti delle nuove unioni.

Circa l’accesso ai sacramenti

93. Circa l’accesso ai sacramenti, si riscontrano reazioni differenziate da parte dei fedeli divorziati risposati. In Europa (ma anche in qualche Paese di America Latina ed Asia), prevale la tendenza a risolvere la questione attraverso qualche sacerdote che accondiscenda alla richiesta di accesso ai sacramenti. A questo proposito, si segnala (in particolare in Europa e in America Latina) un diverso modo di rispondere da parte dei pastori. Talvolta questi fedeli si allontanano dalla Chiesa o passano ad altre confessioni cristiane. In vari Paesi, non solo europei, questa soluzione individuale a molte persone non basta, in quanto aspirano ad una pubblica riammissione ai sacramenti da parte della Chiesa. Il problema non è tanto quello di non poter ricevere la comunione, ma il fatto che la Chiesa pubblicamente non li ammetta ad essa, cosicché sembra che questi fedeli semplicemente rifiutino di essere considerati in situazione irregolare.

94. Nelle comunità ecclesiali sono presenti persone che, trovandosi in situazione canonicamente irregolare, chiedono di essere accolte ed accompagnate nella loro condizione. Questo avviene specialmente quando si cerca di rendere ragionevole l’insegnamento della Chiesa. In simili circostanze è possibile che tali fedeli vivano la loro condizione sostenuti dalla misericordia di Dio, di cui la Chiesa si fa strumento. Altri ancora, come viene segnalato da alcune Conferenze Episcopali dell’area euroatlantica, accettano l’impegno di vivere in continenza (cf. FC84).

95. Molte delle risposte pervenute segnalano che in tanti casi si riscontra una richiesta chiara di poter ricevere i sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza, specie in Europa, in America e in qualche Paese dell’Africa. La richiesta si fa più insistente soprattutto in occasione della celebrazione dei sacramenti da parte dei figli. A volte si desidera l’ammissione alla comunione come per essere “legittimati” dalla Chiesa, eliminando il senso di esclusione o di marginalizzazione. Al riguardo, alcuni suggeriscono di considerare la prassi di alcune Chiese ortodosse, che, secondo la loro opinione, apre la strada a un secondo o terzo matrimonio con carattere penitenziale; a questo proposito, dai Paesi di maggioranza ortodossa, si segnala come l’esperienza di tali soluzioni non impedisca l’aumento dei divorzi. Altri domandano di chiarire se la questione è di carattere dottrinale o solo disciplinare.

Altre richieste

96. In tanti casi, segnalati in particolare in Europa e in America del Nord, si chiede di snellire la procedura per la nullità matrimoniale; a questo riguardo, si indica la necessità di approfondire la questione del rapporto tra fede e sacramento del matrimonio – come suggerito a più riprese da Benedetto XVI. Nei Paesi a maggioranza ortodossa, si segnala il caso di cattolici che si risposano nella Chiesa ortodossa, secondo la prassi in essa vigente, e poi chiedono di accostarsi alla comunione nella Chiesa cattolica. Infine, altre istanze avanzano la richiesta di precisare la prassi da seguire nei casi di matrimoni misti, in cui il coniuge ortodosso è già stato sposato ed ha ottenuto il permesso per le seconde nozze dalla Chiesa ortodossa.

Circa i separati e i divorziati

97. In varie risposte e osservazioni, si mette in evidenza la necessità di porre più attenzione ai separati e ai divorziati non risposati fedeli al vincolo nuziale. Sembra che costoro spesso debbano aggiungere alla sofferenza del fallimento matrimoniale quella di non essere considerati convenientemente dalla Chiesa e pertanto di venire trascurati. Si nota che anch’essi hanno le loro difficoltà e il bisogno di essere accompagnati pastoralmente. Inoltre, si fa presente l’importanza di verificare l’eventuale nullità matrimoniale con particolare cura da parte dei pastori, al fine di non introdurre cause senza attento discernimento. In tale contesto, si trovano richieste di promuovere maggiormente una pastorale della riconciliazione, che si faccia carico delle possibilità di riunire i coniugi separati. Alcuni fanno notare che l’accettazione coraggiosa della condizione di separati rimasti fedeli al vincolo, segnata da sofferenza e solitudine, costituisce una grande testimonianza cristiana.

Semplificazione delle cause matrimoniali

98. Esiste un’ampia richiesta di semplificazione della prassi canonica delle cause matrimoniali. Le posizioni sono diversificate: alcune affermano che lo snellimento non sarebbe un rimedio valido; altre, a favore dello snellimento, invitano a spiegare bene la natura del processo di dichiarazione di nullità, per una migliore comprensione di esso da parte dei fedeli.

99. Alcuni invitano alla prudenza, segnalando il rischio che tale snellimento e semplificando o riducendo i passi previsti, si producano ingiustizie ed errori; si dia l’impressione di non rispettare l’indissolubilità del sacramento; si favorisca l’abuso e si ostacoli la formazione dei giovani al matrimonio come impegno di tutta la vita; si alimenti l’idea di un “divorzio cattolico”. Propongono, invece, di preparare un numero adeguato di persone qualificate per seguire i casi; e, in America Latina, Africa e Asia, si avanza la richiesta di incrementare il numero dei tribunali – assenti in tante regioni –, e di concedere maggiore autorità alle istanze locali, formando meglio i sacerdoti. Altre risposte relativizzano la rilevanza di tale possibilità di snellimento, in quanto spesso i fedeli accettano la validità del loro matrimonio, riconoscendo che si tratta di un fallimento e non considerano onesto chiedere la dichiarazione di nullità. Molti fedeli considerano però valido il loro primo matrimonio perché non conoscono i motivi di invalidità. Talvolta, da parte di coloro che hanno divorziato, emerge la difficoltà di tornare sul passato, che potrebbe riaprire ferite dolorose personali e per il coniuge.

100. Molti avanzano richieste circa lo snellimento: processo canonico semplificato e più rapido; concessione di maggior autorità al vescovo locale; maggiore accesso dei laici come giudici; riduzione del costo economico del processo. In particolare, alcuni propongono di riconsiderare se sia veramente necessaria la doppia sentenza conforme, almeno quando non c’è richiesta di appello, obbligando però all’appello in certi casi il difensore del vincolo. Si propone anche di decentralizzare la terza istanza. In tutte le aree geografiche, si chiede un’impostazione più pastorale nei tribunali ecclesiastici, con una maggiore attenzione spirituale nei confronti delle persone.

101. Nelle risposte e nelle osservazioni, tenendo conto della vastità del problema pastorale dei fallimenti matrimoniali, ci si chiede se sia possibile far fronte ad esso soltanto per via processuale giudiziale. Si avanza la proposta di intraprendere una via amministrativa. In alcuni casi si propone di procedere a una verifica della coscienza delle persone interessate all’accertamento della nullità del vincolo. L’interrogativo è se vi siano altri strumenti pastorali per verificare la validità del matrimonio, da parte di presbiteri a ciò deputati. In generale, viene sollecitata una maggiore formazione specifica degli agenti pastorali in questo campo, in modo che i fedeli possano essere opportunamente aiutati.

102. Una più adeguata formazione dei fedeli riguardo ai processi di nullità aiuterebbe, in alcuni casi, ad eliminare difficoltà, come ad esempio quella di genitori che temono che un matrimonio nullo renda illegittimi i figli – segnalata da alcune Conferenze Episcopali africane. In molte risposte si insiste sul fatto che snellire il processo canonico sia utile solo se si affronta in modo integrale la pastorale familiare. Da parte di alcune Conferenze Episcopali asiatiche, si segnala il caso di matrimoni con non cristiani, che non vogliono cooperare al processo canonico.

La cura delle situazioni difficili

103. La carità pastorale spinge la Chiesa ad accompagnare le persone che hanno subito un fallimento matrimoniale e ad aiutarle a vivere la loro situazione con la grazia di Cristo. Una ferita più dolorosa si apre per le persone che si risposano entrando in uno stato di vita che non permette loro l’accesso alla comunione. Certamente, in questi casi, la Chiesa non deve assumere l’atteggiamento di giudice che condanna (cf. Papa Francesco, Omelia del 28 febbraio 2014), ma quello di una madre che sempre accoglie i suoi figli e cura le loro ferite in vista della guarigione (cf. EG 139-141). Con grande misericordia, la Chiesa è chiamata a trovare forme di “compagnia” con cui sostenere questi suoi figli in un percorso di riconciliazione. Con comprensione e pazienza, è importante spiegare che il non poter accedere ai sacramenti non significa essere esclusi dalla vita cristiana e dal rapporto con Dio.

104. In riferimento a queste situazioni complesse, tante risposte evidenziano la mancanza di un servizio di assistenza specifica nelle diocesi per queste persone. Molte Conferenze Episcopali ricordano l’importanza di offrire a questi fedeli una partecipazione attiva alla vita della Chiesa, attraverso gruppi di preghiera, momenti liturgici e attività caritative. Si indicano inoltre alcune iniziative pastorali, come per esempio una benedizione personale a chi non può ricevere l’Eucaristia o l’incoraggiamento alla partecipazione dei figli alla vita parrocchiale. Si sottolinea il ruolo dei movimenti di spiritualità coniugale, degli ordini religiosi e delle commissioni parrocchiali per la famiglia. Significativa è la raccomandazione della preghiera per le situazioni difficili, all’interno delle liturgie parrocchiali e diocesane, nella preghiera universale.

Non praticanti e non credenti che chiedono il matrimonio

105. Nel contesto delle situazioni difficili, la Chiesa s’interroga anche sull’azione pastorale da intraprendere nei confronti di quei battezzati che, sebbene non siano praticanti né credenti, chiedono di poter celebrare in chiesa il loro matrimonio. La quasi totalità delle risposte ha evidenziato che è molto più comune il caso di due cattolici non praticanti che decidono di contrarre matrimonio religioso, rispetto a quello di due non credenti dichiarati che richiedono il medesimo sacramento. Quest’ultima eventualità, seppur non ritenuta impossibile, è considerata assai remota. Più comune, invece, la richiesta di celebrazione canonica tra due nubendi, di cui uno solo cattolico, e spesso non praticante. Le motivazioni che inducono i cattolici non praticanti a riprendere i contatti con le proprie parrocchie, in vista della celebrazione del matrimonio, a giudizio di tutte le risposte che affrontano questo punto, nella maggioranza dei casi, risiedono nel fascino legato all’“estetica” della celebrazione (atmosfera, suggestione, servizio fotografico, ecc.) e, parimenti, in un condizionamento proveniente dalla tradizione religiosa delle famiglie di appartenenza dei nubendi. Molte volte la festa e gli aspetti esteriori tradizionali prevalgono sulla liturgia e sull’essenza cristiana di quanto viene celebrato. L’unanimità delle risposte indica questa opportunità come una occasione propizia per l’evangelizzazione della coppia, raccomandando, in tal senso, la massima accoglienza e disponibilità da parte dei parroci e degli operatori della pastorale familiare.

106. Secondo un cospicuo numero di risposte, e ancor più di osservazioni, di varia provenienza geografica, la preparazione al matrimonio religioso non dovrebbe comportare solo momenti catechistici, ma anche occasioni di scambio e di conoscenza tra le persone, che i pastori potrebbero favorire maggiormente. D’altra parte, varie risposte, sia dall’Oriente che dall’Occidente, hanno riscontrato una certa frustrazione da parte di alcuni parroci nel vedere molto spesso un innegabile insuccesso del loro sforzo pastorale, dal momento che un numero molto esiguo di coppie continua a mantenere qualche rapporto con la parrocchia di riferimento, dopo la celebrazione del matrimonio.

107. Molte risposte hanno denunciato una diffusa inadeguatezza degli attuali cammini formativi matrimoniali a condurre i nubendi ad una vera visione di fede. Gli incontri, nella maggioranza dei casi, sono impostati e recepiti come unicamente funzionali alla recezione del sacramento. Proprio perché tra i non praticanti, al termine dell’accompagnamento formativo previo alla ricezione del matrimonio, si è riscontrata un’alta percentuale di ritorno al precedente stato di vita, si è avvertita la necessità – specialmente in America Latina – di migliorare, incentivare e approfondire la pastorale e l’evangelizzazione dei bambini e della gioventù in genere. Quando una coppia di credenti non praticanti riprende contatto con la parrocchia, per la celebrazione del matrimonio, si evidenzia, da più parti, che il tempo per riprendere un autentico cammino di fede non è sufficiente, pur prendendo parte agli incontri pre-matrimoniali.

108. Imprescindibile, infatti, secondo la maggioranza delle risposte, è giudicata la necessità di seguire la coppia anche dopo il matrimonio, attraverso incontri mirati di accompagnamento. Inoltre, specialmente dalle Conferenze Episcopali dell’Europa occidentale e meridionale, è stata ribadita con una certa forza, in particolari casi di immaturità da parte dei nubendi, la necessità di valutare la scelta di sposarsi senza la celebrazione dell’Eucaristia. Secondo alcuni episcopati dell’Europa del Nord e dell’America settentrionale, quando si è posti di fronte all’evidenza che la coppia non capisca o non accetti gli insegnamenti basilari della Chiesa riguardo ai beni del matrimonio ed ai relativi impegni, sarebbe opportuno suggerire di posticipare la celebrazione delle nozze, pur sapendo già in anticipo di indurre con questo genere di proposta a incomprensioni e malumori. Tale soluzione comporterebbe anche il pericolo di un rigorismo poco misericordioso.

109. Alcuni episcopati dell’Asia orientale e meridionale riferiscono di richiedere come prerequisito alla celebrazione del matrimonio una partecipazione attiva alla vita pastorale della parrocchia. Anche in questo caso, tuttavia, si è riscontrata nella stragrande maggioranza dei casi la cessazione di tale partecipazione, una volta ottenuta la celebrazione del sacramento. Generalmente si riscontra una universale disomogeneità, già all’interno delle singole diocesi, per quanto riguarda la cura, la preparazione e l’organizzazione degli incontri formativi precedenti alla celebrazione del matrimonio. Quasi sempre, tutto viene demandato alle iniziative, felici o meno, dei singoli pastori. Una Conferenza Episcopale europea tratteggia lo stile e il modo con cui si dovrebbero tenere gli incontri in preparazione al matrimonio attraverso una sequenza di verbi programmatici: proporre, non imporre; accompagnare, non spingere; invitare, non espellere; inquietare, mai disilludere.

B. Circa le unioni tra persone dello stesso sesso

Riconoscimento civile

110. Nelle risposte delle Conferenze Episcopali, circa le unioni tra persone dello stesso sesso, ci si riferisce all’insegnamento della Chiesa. «Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia. […] nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali “devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione”» (CDF, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 4). Dalle risposte si può evincere che il riconoscimento da parte della legge civile delle unioni fra persone dello stesso sesso dipende in buona parte dal contesto socio-culturale, religioso e politico. Le Conferenze Episcopali segnalano tre contesti: un primo è quello in cui prevale un atteggiamento repressivo e penalizzante nei confronti del fenomeno dell’omosessualità in tutte le sue sfaccettature. Questo vale in particolare là dove la manifestazione pubblica dell’omosessualità è vietata dalla legge civile. Alcune risposte indicano che anche in questo contesto ci sono forme di accompagnamento spirituale di singole persone omosessuali che cercano l’aiuto della Chiesa.

111. Un secondo contesto è quello in cui il fenomeno dell’omosessualità presenta una situazione fluida. Il comportamento omosessuale non viene punito, ma tollerato solo fin quando non diventa visibile o pubblico. In questo contesto, di solito, non esiste una legislazione civile riguardo alle unioni tra persone dello stesso sesso. Specialmente in Occidente, nell’ambito politico, però, vi è un orientamento crescente verso l’approvazione di leggi che prevedono le unioni registrate o il cosiddetto matrimonio tra persone dello stesso sesso. A sostegno di tale visione si adducono motivi di non discriminazione; atteggiamento che viene percepito dai credenti e da gran parte dell’opinione pubblica, in Europa centro-orientale, come un’imposizione da parte di una cultura politica o estranea.

112. Un terzo contesto è quello in cui gli Stati hanno introdotto una legislazione che riconosce le unioni civili o i matrimoni tra persone omosessuali. Ci sono Paesi in cui si deve parlare di una vera e propria ridefinizione del matrimonio, che riduce la prospettiva sulla coppia ad alcuni aspetti giuridici, come l’uguaglianza dei diritti e della “non discriminazione”, senza che ci sia un dialogo costruttivo sulle questioni antropologiche coinvolte, e senza che al centro vi sia il bene integrale della persona umana, in particolare il bene integrale dei bambini all’interno di queste unioni. Dove c’è una equiparazione giuridica tra matrimonio eterosessuale ed omosessuale, lo Stato spesso permette l’adozione di bambini (bambini naturali di uno dei partner o bambini nati tramite fecondazione artificiale). Questo contesto è particolarmente presente nell’area anglofona e nell’Europa centrale.

La valutazione delle Chiese particolari

113. Tutte le Conferenze Episcopali si sono espresse contro una “ridefinizione” del matrimonio tra uomo e donna attraverso l’introduzione di una legislazione che permette l’unione tra due persone dello stesso sesso. Vi sono ampie testimonianze dalle Conferenze Episcopali sulla ricerca di un equilibrio tra l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia e un atteggiamento rispettoso e non giudicante nei confronti delle persone che vivono in queste unioni. Nell’insieme, si ha l’impressione che le reazioni estreme nei confronti di queste unioni, sia di accondiscendenza che di intransigenza, non abbiano facilitato lo sviluppo di una pastorale efficace, fedele al Magistero e misericordiosa nei confronti delle persone interessate.

114. Un fattore che certamente interroga l’azione pastorale della Chiesa e rende complessa la ricerca di un atteggiamento equilibrato nei confronti di questa realtà, è la promozione della ideologia del gender, che in alcune regioni tende ad influenzare anche l’ambito educativo primario, diffondendo una mentalità che, dietro l’idea di rimozione dell’omofobia, in realtà propone un sovvertimento della identità sessuale.

115. Circa le unioni tra persone dello stesso sesso, molte Conferenze Episcopali forniscono diverse informazioni. Nei Paesi in cui esiste una legislazione delle unioni civili, molti fedeli si esprimono in favore di un atteggiamento rispettoso e non giudicante nei confronti di queste persone, e in favore di una pastorale che cerchi di accoglierle. Questo non significa, però, che i fedeli siano a favore di una equiparazione tra matrimonio eterosessuale e unioni civili fra persone dello stesso sesso. Alcune risposte ed osservazioni esprimono la preoccupazione che l’accoglienza nella vita ecclesiale delle persone che vivono in queste unioni potrebbe essere intesa come un riconoscimento della loro unione.

Alcune indicazioni pastorali

116. Riguardo alla possibilità di una pastorale verso queste persone, bisogna distinguere tra quelle che hanno fatto una scelta personale, spesso sofferta, e la vivono con delicatezza per non dare scandalo ad altri, e un comportamento di promozione e pubblicità attiva, spesso aggressiva. Molte Conferenze Episcopali sottolineano che, essendo il fenomeno relativamente recente, non esistono programmi pastorali al riguardo. Altre ammettono un certo disagio di fronte alla sfida di dover coniugare accoglienza misericordiosa delle persone e affermazione dell’insegnamento morale della Chiesa, con una appropriata cura pastorale che includa tutte le dimensioni della persona. Da qualche parte si raccomanda di non far coincidere l’identità di una persona con espressioni quali “gay”, “lesbica” o “omosessuale”.

117. Molte risposte e osservazioni richiedono una valutazione teologica che dialoghi con le scienze umane, per sviluppare una visione più differenziata del fenomeno dell’omosessualità. Non mancano richieste volte ad approfondire, anche attraverso organismi specifici, come ad esempio le Pontificie Accademie delle Scienze e per la Vita, il senso antropologico e teologico della sessualità umana e della differenza sessuale tra uomo e donna, in grado di far fronte alla ideologia del gender.

118. La grande sfida sarà lo sviluppo di una pastorale che riesca a mantenere il giusto equilibrio tra accoglienza misericordiosa delle persone ed accompagnamento graduale verso un’autentica maturità umana e cristiana. Alcune Conferenze Episcopali fanno riferimento, in questo contesto, a certe organizzazioni come modelli riusciti di una tale pastorale.

119. Si presenta, in modo sempre più urgente, la sfida dell’educazione sessuale nelle famiglie e nelle istituzioni scolastiche, particolarmente nei Paesi in cui lo Stato tende a proporre, nelle scuole, una visione unilaterale e ideologica della identità di genere. Nelle scuole o nelle comunità parrocchiali, si dovrebbero attivare programmi formativi per proporre ai giovani una visione adeguata della maturità affettiva e cristiana, in cui affrontare anche il fenomeno dell’omosessualità. Allo stesso tempo, le osservazioni dimostrano che non esiste ancora un consenso nella vita ecclesiale riguardo alle modalità concrete dell’accoglienza delle persone che vivono in tali unioni. Il primo passo di un processo lento sarebbe quello dell’informazione e dell’individuazione di criteri di discernimento, non soltanto a livello dei ministri e degli operatori pastorali, ma anche a livello dei gruppi o movimenti ecclesiali.

Trasmissione della fede ai bambini in unioni di persone dello stesso sesso

120. Si deve rilevare che le risposte pervenute si pronunciano contro una legislazione che permetta l’adozione di bambini da parte di persone in unione dello stesso sesso, perché vedono a rischio il bene integrale del bambino, che ha diritto ad avere una madre e un padre, come ricordato recentemente da Papa Francesco (cf. Discorso alla Delegazione dell’ufficio internazionale cattolico dell’infanzia, 11 aprile 2014). Tuttavia, nel caso in cui le persone che vivono in queste unioni chiedano il battesimo per il bambino, le risposte, quasi all’unanimità, sottolineano che il piccolo deve essere accolto con la stessa cura, tenerezza e sollecitudine che ricevono gli altri bambini. Molte risposte indicano che sarebbe utile ricevere delle direttive pastorali più concrete per queste situazioni. È evidente che la Chiesa ha il dovere di verificare le condizioni reali in vista della trasmissione della fede al bambino. Nel caso in cui si nutrano ragionevoli dubbi sulla capacità effettiva di educare cristianamente il bambino da parte di persone dello stesso sesso, se ne garantisca l’adeguato sostegno – come peraltro è richiesto ad ogni altra coppia che chiede il battesimo per i figli. Un aiuto, in tal senso, potrebbe venire anche da altre persone presenti nel loro ambiente familiare e sociale. In questi casi, la preparazione all’eventuale battesimo del bambino sarà particolarmente curata dal parroco, anche con un’attenzione specifica nella scelta del padrino e della madrina.

III PARTE

L’APERTURA ALLA VITA E LA RESPONSABILITÀ EDUCATIVA

Capitolo I Le sfide pastorali circa l’apertura alla vita

121. In riferimento al tema della apertura alla vita, negli ultimi decenni, sono state sollevate obiezioni radicali. In questo campo si vanno a toccare dimensioni e aspetti dell’esistenza molto intimi, circa i quali si evidenziano le differenze sostanziali tra una visione cristiana della vita e della sessualità, ed una impostazione fortemente secolarizzata. Peraltro, già Paolo VI, pubblicando la lettera Enciclica Humanae Vitae, era ben consapevole delle difficoltà che le sue affermazioni avrebbero potuto suscitare nel tempo. Così, ad esempio, scriveva in quel documento: «Si può prevedere che questo insegnamento non sarà forse da tutti facilmente accolto: troppe sono le voci, amplificate dai moderni mezzi di propaganda, che contrastano con quella della Chiesa. A dir vero, questa non si meraviglia di essere fatta, a somiglianza del suo divin fondatore, “segno di contraddizione”, ma non lascia per questo di proclamare con umile fermezza tutta la legge morale, sia naturale, che evangelica» (HV 18).

122. L’Enciclica Humanae Vitae ha avuto un significato certamente profetico nel ribadire l’unione inscindibile tra l’amore coniugale e la trasmissione della vita. La Chiesa è chiamata ad annunciare la fecondità dell’amore, nella luce di quella fede che «aiuta a cogliere in tutta la sua profondità e ricchezza la generazione dei figli, perché fa riconoscere in essa l’amore creatore che ci dona e ci affida il mistero di una nuova persona» (LF52). Molte delle difficoltà evidenziate da risposte e osservazioni mettono in risalto il travaglio dell’uomo contemporaneo intorno al tema degli affetti, della generazione della vita, della reciprocità tra l’uomo e la donna, della paternità e della maternità.

Conoscenza e ricezione del Magistero sull’apertura alla vita

123. Le risposte relative alla conoscenza della dottrina della Chiesa sull’apertura alla vita degli sposi, con particolare riferimento all’Humanae Vitae, descrivono realisticamente il fatto che essa, nella stragrande maggioranza dei casi, non è conosciuta nella sua dimensione positiva. Coloro che affermano di conoscerla appartengono per lo più ad associazioni e gruppi ecclesiali particolarmente impegnati nella frequentazione delle parrocchie o in cammini di spiritualità familiare. Nella stragrande maggioranza delle risposte pervenute, si evidenzia come la valutazione morale dei differenti metodi di regolazione delle nascite venga oggi percepita dalla mentalità comune come un’ingerenza nella vita intima della coppia e una limitazione all’autonomia della coscienza. Certamente vi sono differenziazioni di posizione e atteggiamenti diversi tra i credenti intorno a questo tema, a seconda dei contesti geografici e sociali, fra chi si trova immerso in culture fortemente secolarizzate e tecnicizzate e chi vive in contesti semplici e rurali. Molte risposte riportano l’impressione che per parecchi cattolici il concetto di “paternità e maternità responsabile” inglobi la responsabilità condivisa di scegliere in coscienza il metodo più adeguato per la regolazione delle nascite, in base a una serie di criteri che vanno dalla efficacia alla tollerabilità fisica, passando per la reale praticabilità.

124. Soprattutto nelle osservazioni, si evidenzia la fatica a cogliere la distinzione tra i metodi naturali di regolamentazione della fertilità e la contraccezione, tanto che generalmente tale differenza viene tradotta mediaticamente nella terminologia di metodi contraccettivi “naturali” e “non naturali”. Da ciò, si comprende perché tale distinzione venga sentita come pretestuosa e i metodi “naturali” vengano ritenuti semplicemente inefficaci e impraticabili. I metodi naturali per la regolazione della fertilità non sono “tecniche” naturali che si applicano ad un problema per risolverlo: essi rispettano l’“ecologia umana”, la dignità della relazione sessuale fra i coniugi, e si inquadrano in una visione della coniugalità aperta alla vita. In questo senso, si differenziano dalla contraccezione e l’esperienza dimostra l’efficacia del loro impiego.

125. Risposte e osservazioni rilevano come sia percepita in modo forte la differenza tra metodi contraccettivi “abortivi” e “non abortivi”. Spesso è questo il criterio di giudizio utilizzato sulla bontà morale dei differenti metodi. Inoltre, nelle risposte pervenute, e soprattutto in diverse osservazioni, si fanno notare le difficoltà relative alla profilassi contro l’AIDS/HIV. Il problema appare grave in alcune zone del mondo dove tale malattia è molto diffusa. Si sente il bisogno che la posizione della Chiesa a questo proposito venga spiegata meglio, soprattutto di fronte a talune riduzioni caricaturali dei media. Proprio in ottemperanza ad uno sguardo personalistico e relazionale, sembra necessario non limitare la questione a problematiche meramente tecniche. Si tratta di accompagnare drammi che segnano profondamente la vita di innumerevoli persone, facendosi promotori di un modo veramente umano di vivere la realtà della coppia, in situazioni spesso ardue, che meritano la dovuta cura e un sincero rispetto.

Alcune cause della difficile ricezione

126. Tutte le risposte tendono a sottolineare come le difficoltà a recepire il messaggio della Chiesa sull’amore fecondo tra l’uomo e la donna si relazionano al grande divario tra la dottrina della Chiesa e l’educazione civile, soprattutto nelle aree geografiche maggiormente segnate dalla secolarizzazione. Le risposte provenienti dalle Conferenze Episcopali pongono prevalentemente l’accento sulla differente antropologia di fondo. Si rileva come vi siano grosse difficoltà nel saper esprimere adeguatamente la relazione tra l’antropologia cristiana e il senso della regolamentazione naturale della fertilità. La riduzione della problematica alla casistica non giova alla promozione di una visione ampia dell’antropologia cristiana. Spesso si fa notare come l’insegnamento della Chiesa venga sbrigativamente rifiutato dalla mentalità dominante come retrogrado, senza confrontarsi con le sue ragioni e con la sua visione dell’uomo e della vita umana.

127. In alcune risposte, si mette in relazione la diffusa mentalità contraccettiva con la presenza massiccia dell’ideologia del gender, che tende a modificare alcuni assetti fondamentali dell’antropologia, tra cui il senso del corpo e della differenza sessuale, sostituita con l’idea dell’orientamento di genere, fino a proporre il sovvertimento della identità sessuale. Emerge a questo proposito, da molte voci, la necessità di andare oltre le generiche condanne nei confronti di tale ideologia sempre più pervasiva, per rispondere in maniera fondata a tale posizione, oggi diffusa capillarmente in molte società occidentali. In tal senso, il discredito dato alla posizione della Chiesa in materia di paternità e maternità non è che un tassello di una mutazione antropologica che talune realtà molto influenti stanno promuovendo. La risposta, pertanto, non potrà essere solo relativa alla questione dei contraccettivi o dei metodi naturali, ma dovrà porsi al livello dell’esperienza umana decisiva dell’amore, scoprendo il valore intrinseco della differenza che segna la vita umana e la sua fecondità.

Suggerimenti pastorali

128. Dal punto di vista pastorale, le risposte, in moltissimi casi, indicano il bisogno di una maggiore diffusione – con linguaggio rinnovato, proponendo una coerente visione antropologica – di quanto affermato nell’Humanae Vitae, non limitandosi ai corsi prematrimoniali, ma anche attraverso percorsi di educazione all’amore. Alcune risposte suggeriscono che la presentazione dei metodi di regolazione naturale della fertilità avvenga in collaborazione con persone veramente preparate, sia dal punto di vista medico che pastorale. A tal scopo, s’insiste sulla collaborazione con centri universitari deputati allo studio e all’approfondimento di tali metodi, nell’ambito della promozione di una visione più ecologica dell’umano. Allo stesso modo, si suggerisce di dare più spazio a questa tematica nell’ambito della formazione dei futuri presbiteri nei seminari, dato che i sacerdoti risultano a volte impreparati ad affrontare tali temi, e talvolta offrono indicazioni inesatte e fuorvianti.

Circa la prassi sacramentale

129. Nell’ambito dei suggerimenti pastorali relativi all’apertura alla vita, s’incontra il tema della prassi sacramentale legata a queste situazioni, sia per quanto riguarda il sacramento della penitenza, che la partecipazione all’Eucaristia. A tal proposito, le risposte sono essenzialmente concordi nell’osservare come, nelle aree di forte secolarizzazione, in genere, le coppie non ritengano peccato l’uso dei metodi anticoncezionali; di conseguenza, si tende a non farne materia di confessione e ad accostarsi senza problemi all’Eucarestia. Diversamente, si sottolinea come permanga integra tra i fedeli la coscienza dell’aborto come peccato estremamente grave, sempre materia di confessione. Alcune risposte affermano che oggi “l’esame di coscienza” delle coppie cristiane si concentra sul rapporto tra i coniugi (infedeltà, mancanza di amore), trascurando piuttosto gli aspetti dell’apertura alla vita, a conferma della debolezza con cui spesso viene avvertito il rapporto fra il dono di sé all’altro nella fedeltà e la generazione della vita. Le risposte evidenziano pure come sia molto diversificato l’atteggiamento pastorale dei sacerdoti in riferimento a questo tema: tra chi assume una posizione di comprensione e di accompagnamento e chi, invece, si mostra molto intransigente o, al contrario, lassista. Si conferma così la necessità di rivedere la formazione dei presbiteri su tali aspetti della pastorale.

Promuovere una mentalità aperta alla vita

130. In alcune zone del mondo, la mentalità contraccettiva e la diffusione di un modello antropologico individualistico determinano un forte calo demografico, le cui conseguenze sociali e umane non vengono tenute adeguatamente in considerazione. Le politiche di denatalità cambiano la qualità del rapporto tra i coniugi e la relazione tra le generazioni. Pertanto, nell’ambito della responsabilità pastorale della Chiesa s’impone una riflessione su come poter sostenere una mentalità maggiormente aperta alla vita.

131. Molte risposte e osservazioni rilevano il legame fra apertura alla natalità e questione sociale e lavorativa: la promozione della natalità appare intrinsecamente connessa alla presenza di condizioni che consentano alle giovani coppie di assumere con libertà, responsabilità e serenità la scelta di generare ed educare dei figli. Asili nido, orari di lavoro flessibili, congedi parentali e facilità di reinserimento nella situazione lavorativa, appaiono condizioni decisive in merito. In tal senso, c’è anche una responsabilità civile dei cristiani nel promuovere leggi e strutture che favoriscano un approccio positivo nei confronti della vita nascente. Da un punto di vista più prettamente pastorale, nelle risposte si evidenzia l’utilità dei consultori familiari legati alle diocesi e delle associazioni di famiglie, che si rendano testimoni della bellezza e del valore dell’apertura alla vita. Si raccomanda che il Sinodo aiuti a riscoprire il senso antropologico profondo della moralità della vita coniugale, che, al di là di ogni moralismo, appare come una tensione sincera a vivere la bellezza esigente dell’amore cristiano tra l’uomo e la donna, valorizzato in vista dell’amore più grande, che giunge a «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Non sono mancate risposte che invitano a riscoprire il senso della castità coniugale, in relazione all’autenticità dell’esperienza amorosa.

Capitolo II

La Chiesa e la famiglia di fronte alla sfida educativa

a) La sfida educativa in genere

La sfida educativa e la famiglia oggi

132. Le sfide che la famiglia deve affrontare in ambito educativo sono molteplici; spesso, i genitori si sentono impreparati davanti a questo compito. Il Magistero recente ha insistito sull’importanza dell’educazione, per la quale i coniugi ricevono anche una grazia singolare nel loro matrimonio. Nelle risposte ed osservazioni, si è sottolineato che l’educazione deve essere integrale, suscitando la grande domanda sulla verità, che può guidare nel cammino della vita (cf. Benedetto XVI, Discorso del 21 gennaio 2008), e che nasce sempre all’interno di un amore, a cominciare dell’esperienza di amore che vive il figlio accolto dai genitori (cf. Benedetto XVI, Discorso del 23 febbraio 2008). L’educazione consiste in una introduzione ampia e profonda nella realtà globale e in particolare nella vita sociale, ed è responsabilità primaria dei genitori, che lo Stato deve rispettare, custodire e promuovere (cf. GE3; FC37). Papa Francesco ha sottolineato l’importanza dell’educazione nella trasmissione della fede: «I genitori sono chiamati, secondo una parola di sant’Agostino, non solo a generare i figli alla vita, ma a portarli a Dio affinché, attraverso il battesimo, siano rigenerati come figli di Dio e ricevano il dono della fede» (LF43).

Trasmissione della fede e iniziazione cristiana

133. L’azione pastorale della Chiesa è chiamata ad aiutare le famiglie nel loro compito educativo, a cominciare dall’iniziazione cristiana. La catechesi e la formazione parrocchiale sono strumenti indispensabili per sostenere la famiglia in questo compito educativo, in particolare in occasione della preparazione a battesimo, cresima ed Eucaristia. A fianco della famiglia e della parrocchia, si evidenzia la fecondità della testimonianza dei movimenti di spiritualità familiare e delle aggregazioni laicali, all’interno delle quali tende sempre più a svilupparsi un “ministero di coppia”, dove i formatori delle famiglie portano avanti la crescita della Chiesa domestica attraverso incontri personali e tra famiglie, soprattutto curando la preghiera.

134. L’educazione cristiana in famiglia si realizza, anzitutto, attraverso la testimonianza di vita dei genitori nei confronti dei figli. Alcune risposte ricordano che il metodo di trasmissione della fede non muta nel tempo, pur adattandosi alle circostanze: cammino di santificazione della coppia; preghiera personale e familiare; ascolto della Parola e testimonianza della carità. Là dove si vive questo stile di vita, la trasmissione della fede è assicurata, anche se i figli sono sottoposti a pressioni di segno opposto.

Alcune difficoltà specifiche

135. La sfida dell’educazione cristiana e della trasmissione della fede è spesso segnata, in molti Paesi, dal profondo cambiamento del rapporto tra le generazioni, che condiziona la comunicazione dei valori nella realtà familiare. In passato, questo rapporto stava alla base di una vita di fede condivisa e comunicata come patrimonio tra una generazione e l’altra. Tutti gli episcopati, e tante osservazioni, rilevano i profondi mutamenti a tale proposito, e il loro influsso sulla responsabilità educativa della famiglia; anche se è inevitabile notare delle differenziazioni a seconda degli elementi tradizionali ancora presenti nella propria società o degli sviluppi dei processi di secolarizzazione. Gli episcopati dell’Europa occidentale ricordano come, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, vi sia stato un forte conflitto generazionale. Oggi, anche forse sotto il condizionamento di quelle esperienze, i genitori appaiono molto cauti nello spingere i figli alla pratica religiosa. Proprio in questo campo si cerca di evitare conflitti, piuttosto che di affrontarli. Inoltre, sui temi religiosi, gli stessi genitori si sentono spesso insicuri, cosicché proprio nel trasmettere la fede essi restano spesso senza parole e delegano questo compito, anche se lo ritengono importante, ad istituzioni religiose. Questo sembra attestare una fragilità degli adulti e soprattutto dei giovani genitori a trasmettere con gioia e convinzione il dono della fede.

136. Si rileva dalle risposte come le scuole cattoliche, nei loro diversi livelli, svolgano un ruolo importante nella trasmissione della fede ai giovani e siano di grande aiuto al compito educativo dei genitori. Si raccomanda che esse vengano incrementate e sostenute da tutta la comunità ecclesiale. Ciò risulta particolarmente rilevante in quelle situazioni in cui lo Stato è particolarmente invasivo nei processi educativi, cercando di esautorare la famiglia dalla propria responsabilità educativa. In tal senso, la scuola cattolica esprime la libertà di educazione, rivendicando il primato della famiglia come vero soggetto del processo educativo, a cui le altre figure in gioco nell’educazione devono concorrere. Si chiede una maggiore collaborazione tra famiglie, scuole e comunità cristiane.

137. Il compito della famiglia nella trasmissione ed educazione alla fede è sentito ancora più importante nelle regioni in cui i cristiani sono minoritari, come viene ricordato dagli episcopati del Medio Oriente. Un’esperienza dolorosa viene segnalata nelle risposte provenienti dai Paesi dell’Europa dell’Est: le generazioni più anziane hanno vissuto la vita nel socialismo, avendo ricevuto i fondamenti cristiani prima dell’avvento di quel regime. La giovane generazione, invece, è cresciuta in un clima postcomunista, segnato da forti processi di secolarizzazione. Tutto ciò ha negativamente condizionato la trasmissione della fede. Le giovani generazioni, comunque, sono sensibili soprattutto all’esempio e alla testimonianza dei genitori. In genere, le famiglie che partecipano ai movimenti ecclesiali sono quelle più attive nel cercare di trasmettere la fede alle nuove generazioni. In alcune risposte, si trova un certo paradosso educativo riguardo alla fede: in diverse realtà ecclesiali non sono i genitori a trasmettere la fede ai figli, ma viceversa, sono i figli che, abbracciandola, la comunicano a genitori che da tempo hanno lasciato la pratica cristiana.

b) L’educazione cristiana in situazioni familiari difficili

138. Se la trasmissione della fede e l’educazione cristiana risultano inseparabili dall’autentica testimonianza di vita, si comprende come le situazioni difficili in seno al nucleo familiare acuiscano la complessità del processo educativo. In tal senso, una maggiore attenzione pastorale circa l’educazione cristiana va rivolta a quelle realtà familiari i cui figli possono particolarmente risentire della situazione dei genitori, definita come irregolare. A questo proposito si auspica l’utilizzo di espressioni che non diano la percezione di una distanza, ma di un’inclusione; che possano maggiormente trasmettere accoglienza, carità e accompagnamento ecclesiale, in modo da non generare, soprattutto nei bambini e nei ragazzi coinvolti, l’idea di un rifiuto o di una discriminazione dei loro genitori, nella consapevolezza che “irregolari” sono le situazioni, non le persone.

Una visione generale della situazione

139. Il panorama attuale dell’educazione è alquanto complesso e mutevole. Ci sono regioni in cui la fede cattolica continua a ricevere un alto consenso, ma dove il numero di bambini e ragazzi nati e cresciuti in famiglie regolari è in netta decrescita. In altre regioni le Chiese particolari devono affrontare altre sfide educative in un contesto in cui le convivenze extra-matrimoniali, l’omosessualità o i matrimoni civili non sono permessi. Sebbene con gradi diversi, tuttavia, la Chiesa incontra queste situazioni difficili o irregolari ormai ovunque. Questo fenomeno, anche là dove è ancora consistente la presenza di nuclei biparentali regolarmente uniti col matrimonio religioso, è in aumento.

140. Dalle risposte, emergono tre elementi a proposito delle situazioni irregolari e della loro incidenza sull’educazione. Circa le unioni fra persone dello stesso sesso, dalle risposte si evince che questa realtà, ancora circoscritta a Paesi “liberal-progressisti”, al momento, non suscita interrogativi pastorali specifici. Su alcune indicazioni pastorali si è già fatto cenno al termine della II parte. Un secondo elemento da considerare è l’attuale esistenza e l’accrescersi di nuclei monoparentali: spesso si tratta di madri con figli minorenni a carico, in contesti di povertà. Il fenomeno interpella soprattutto le sensibilità delle Chiese dell’America Latina e dell’Asia dove, non di rado, queste mamme sono costrette a delegare l’educazione dei figli al clan familiare. In terzo luogo, ha una grande rilevanza, nel Sud del mondo, il fenomeno dei “bambini di strada”, lasciati a se stessi da genitori in difficoltà, orfani per la morte violenta dei genitori, talvolta affidati ai nonni.

Le richieste rivolte alla Chiesa

141. In linea generale, dall’analisi delle risposte, si ricava l’idea che i genitori in situazioni irregolari si rivolgono alla Chiesa con atteggiamenti molto differenti, a seconda dei sentimenti e delle motivazioni che li animano. Vi è chi nutre molto rispetto e fiducia verso la Chiesa e, al contrario, chi mostra un atteggiamento negativo a causa della vergogna provata per le scelte fatte, o chi esita ad avvicinarsi per paura di essere respinto o marginalizzato. Mentre taluni ritengono che la comunità ecclesiale li possa comprendere ed accogliere benevolmente, malgrado i loro fallimenti e le difficoltà, altri giudicano la Chiesa un’istituzione che s’intromette troppo nello stile di vita delle persone, oppure sono convinti che essa sia una sorta di tutore che deve garantire educazione e accompagnamento, ma senza avanzare troppe pretese.

142. La principale e più diffusa richiesta, che i genitori in queste situazioni di vita rivolgono alle Chiese particolari, è quella dell’amministrazione dei sacramenti ai figli, specialmente il battesimo e la prima comunione, con una difficoltà netta, però, a riservare la debita importanza e il giusto valore alla formazione religiosa e alla partecipazione alla vita parrocchiale. Molti sanno che la catechesi è un prerequisito per ricevere i sacramenti, ma più che un’opportunità la ritengono un obbligo, una formalità o un compromesso da accettare perché il figlio possa ricevere ciò che è stato chiesto. Le risposte fanno notare che di frequente si riscontrano reticenza e disinteresse da parte dei genitori nei confronti del percorso di preparazione cristiana proposto dalle comunità. L’esito è che sovente i genitori, se possono, evitano di partecipare ai cammini previsti per i figli e per loro, giustificandosi con ragioni di tempo e di lavoro, mentre spesso si tratta di noncuranza e di ricerca di soluzioni più comode o rapide. Talvolta essi manifestano anche atteggiamenti negativi di fronte alle richieste dei catechisti. In altri casi, è palese la loro indifferenza, perché permangono sempre passivi nei confronti di qualsiasi iniziativa, e non si coinvolgono nell’educazione religiosa del figlio.

143. Ciò che emerge dall’analisi dei dati è che moltissimi di questi genitori, come del resto una buona porzione di genitori cattolici regolarmente sposati, chiedono per i figli l’iniziazione ai sacramenti per non venire meno ad un’abitudine, a un costume tipico della società. Il sacramento rappresenta ancora per molti una festa tradizionale, che essi chiedono più per conformazione ad una consuetudine familiare e sociale, che per convinzione. Tuttavia vi sono genitori che desiderano sinceramente trasmettere la fede ai figli, e per questo si affidano agli itinerari di formazione che la parrocchia propone in vista dell’amministrazione dei sacramenti. Talvolta essi stessi chiedono di essere aiutati ad uscire dalle situazioni che li rendono fragili, sono disposti a iniziare un autentico cammino di spiritualità e desiderano partecipare attivamente alla vita della Chiesa, lasciandosi coinvolgere nel percorso catechetico-sacramentale dei figli. Non sono rari i casi in cui i genitori riscoprono la fede in modo più genuino, qualche volta arrivando fino a chiedere il matrimonio dopo anni di convivenza.

144. Dalle risposte sono stati censiti anche altri generi di richieste, che i genitori in situazioni irregolari presentano alla Chiesa. In particolari realtà culturali, capita che essi domandino i sacramenti per i figli per motivi di superstizione o per evitare il permanere nel paganesimo. In altre circostanze essi si rivolgono ai sacerdoti locali semplicemente per poter ricevere un sostegno economico ed educativo. Diminuisce generalmente la richiesta della Confermazione per i propri figli, soprattutto nei Paesi più secolarizzati. Si diffonde l’idea che sia bene accordare ai ragazzi la libertà e la responsabilità di cominciare il percorso di iniziazione alla vita cristiana. Una difficoltà si presenta quando i genitori divorziati sono in disaccordo riguardo al percorso di iniziazione cristiana del figlio; in questi casi, la Chiesa è chiamata ad assumere un ruolo di mediazione importante, attraverso la comprensione e il dialogo.

145. Per quanto riguarda la richiesta dell’insegnamento della religione cattolica ai propri figli, dalle risposte e dalle osservazioni pervenute, s’individuano due tipologie. Da un lato vi sono casi in cui è possibile richiedere di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica a scuola, al di là della catechesi parrocchiale. Optano per tale richiesta, in genere, anche i genitori che vivono in situazioni irregolari e, specie in Europa, molti tra i non cattolici o i non battezzati. Nel corso degli ultimi anni, in alcune aree di Paesi europei, si è accresciuto il numero degli iscritti all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Dall’altra parte, vi sono alcuni sistemi scolastici di base (come quello australiano), che offrono la possibilità di una buona educazione alla fede ed istruzione religiosa. In questi casi, molti genitori in situazioni irregolari, quando il figlio è battezzato, si avvalgono facilmente della possibilità di seguire i programmi di formazione cristiana offerti dalla stessa scuola, che preparano a ricevere i sacramenti senza dover prendere parte ai percorsi di catechesi parrocchiale. Altra ancora è la realtà delle scuole cattoliche e collegi cattolici presenti e attivi in tutti i continenti. Ad essi, i figli di genitori in situazioni irregolari possono iscriversi senza pregiudiziali. In effetti, risulta che si rivolgono volentieri ad essi, principalmente perché sanno che riceveranno sostegno e collaborazione nell’opera educativa dei figli. In Africa, le scuole cattoliche costituiscono dei luoghi importanti per l’educazione cristiana dei bambini. È stata scarsamente affrontata, nelle risposte, la questione dell’incidenza dell’insegnamento della religione cattolica nel percorso di educazione alla fede. Si segnalano tentativi di lavoro congiunto tra catechesi parrocchiale, attività scolastiche e istruzione religiosa, lavorando maggiormente in questo campo. Questa sembra essere la via da favorire specialmente là dove l’insegnamento della religione cattolica si limita all’aspetto intellettuale.

Le risposte delle Chiese particolari

146. Le Chiese particolari si sono impegnate per accompagnare le famiglie e, con loro, anche le situazioni irregolari. Quando i  genitori, di solito dopo un allontanamento dalla Chiesa, vi si avvicinano e chiedono alla comunità ecclesiale la preparazione sacramentale per i loro figli, l’approccio più proficuo registrato nelle risposte è quello dell’accoglienza senza pregiudizi. Ciò significa che il rispetto, l’apertura benevola e l’ascolto dei bisogni umani e spirituali si dimostrano attitudini fondamentali per creare un ambiente favorevole e adatto alla comunicazione del messaggio evangelico. Tra le esperienze ecclesiali efficaci e significative, finalizzate a sostenere il percorso di questi genitori, sono state evidenziate: le catechesi comunitarie e familiari; i movimenti di sostegno alla pastorale coniugale; le messe domenicali; le visite alle famiglie; i gruppi di preghiera; le missioni popolari; la vita delle comunità ecclesiali di base; i gruppi di studio biblico; le attività e la pastorale dei movimenti ecclesiali; la formazione cristiana offerta ai genitori dei bambini e dei ragazzi, che frequentano i numerosi collegi e i centri di educazione cattolica, soprattutto in America Latina. Molte volte sono i figli ad evangelizzare i genitori.

147. Nonostante quanto si è detto, non poche risposte notano che la pastorale attuale della Chiesa non sempre è in grado di accompagnare in modo adeguato queste specifiche realtà familiari. L’azione pastorale necessiterebbe di rinnovamento, di creatività e di gioia per essere più incisiva e propositiva nel creare un rapporto di osmosi tra formazione dei ragazzi, formazione alla fede dei genitori e vita comunitaria. Esistono nuove iniziative che si muovono in questa direzione: i momenti formativi, di preghiera e di ritiro, destinati ai genitori, spesso in contemporanea alla catechesi sacramentale dei figli; le “scuole per genitori”; i programmi catechetici sulla morale familiare e sessuale; l’opportunità di riunire più coppie di sposi in una medesima celebrazione del matrimonio (mass-marriage), per andare incontro anche al problema finanziario, che talvolta rallenta e scoraggia la richiesta del matrimonio, come ad esempio in Nigeria e Sud Africa. Alcuni rilevano che si tratta, comunque, di offerte ancora non pienamente strutturate.

148. Dalle risposte ai questionari emerge che, se da un lato l’accompagnamento dei genitori dipende dalla disponibilità a lasciarsi coinvolgere e guidare, la loro cura nasce principalmente dal senso di responsabilità, dalla sollecitudine dei sacerdoti locali e dalla loro capacità di coinvolgere il più possibile l’intera comunità parrocchiale. Nelle parrocchie tedesche, per esempio, sia i bambini che i genitori sono seguiti da un gruppo di catechisti che li accompagnano lungo tutto il percorso catechistico. Nelle grandi città sembra più complesso riuscire ad attuare un approccio pastorale personalizzato. In ogni caso, rappresenta una sfida la possibilità di avvicinare con profonda attenzione queste sorelle e fratelli, di seguirli, di ascoltarli, di aiutarli ad esprimere le domande che stanno loro a cuore, di proporre un itinerario che possa far rinascere il desiderio di un approfondimento della relazione con il Signore Gesù, anche mediante autentici legami comunitari. Andrebbero incentivate le iniziative già esistenti, come quella promossa da alcune Conferenze Episcopali sudamericane, che producono e offrono sussidi formativi per aiutare questi genitori nell’educazione dei figli.

149. Le Chiese particolari sanno bene che non sono i bambini o i ragazzi ad aver colpa delle scelte o del vissuto dei propri genitori. Ovunque, perciò, i figli sono accolti senza distinzioni rispetto agli altri, con lo stesso amore e la stessa attenzione. L’offerta formativa cristiana che viene loro proposta non si differenzia dalle iniziative di catechesi e di attività pastorale rivolte ai ragazzi dell’intera comunità: la catechesi; le scuole di preghiera; l’iniziazione alla liturgia; i gruppi, specialmente l’infanzia missionaria in America Latina; le scuole di teatro biblico e i cori parrocchiali; le scuole e i campi parrocchiali; i gruppi giovanili. Si fa notare che non ci sono attività speciali che possano essere di sostegno a questi bambini per rimarginare o elaborare le loro ferite. Si auspica la promozione di itinerari a loro favore, l’organizzazione di percorsi di sostegno, specialmente nel periodo difficile della separazione e del divorzio dei genitori, momento in cui devono poter continuare a sperare nei legami familiari nonostante il fatto che i genitori si separino. In una diocesi nord-europea, in cui il tasso di bambini figli di divorziati è molto alto, per andare incontro ai problemi di queste realtà familiari e alla fatica dei ragazzi, che nei fine settimana non possono sempre partecipare alla catechesi, alcuni parroci organizzano la catechesi a fine settimana alterni, così che i bambini possano sempre partecipare, senza sentirsi diversi.

150. Oltre che dalle parrocchie, dalle associazioni e dai movimenti, un apporto valido è offerto a questi genitori e ai loro figli dall’apostolato degli istituti religiosi femminili, soprattutto là dove vi sono forme di estrema povertà, di intolleranza religiosa o di sfruttamento della donna; dall’Opera della Propagazione della Fede che contribuisce all’educazione e formazione cristiana di bambini, anche di quelli con genitori in situazioni irregolari, tramite sussidi ordinari e straordinari.

Tempi e modi dell’iniziazione cristiana dei bambini

151. Per l’iter di preparazione ai sacramenti e per la pratica sacramentale ci si attiene a quanto indicato dalle norme canoniche, dalle Conferenze Episcopali e dalle linee direttive diocesane. Non è previsto un cammino di preparazione alternativo a quello dei figli di famiglie regolari. Pertanto, in linea di massima, si segue il percorso classico che prevede la preparazione al sacramento del battesimo mediante incontri con i genitori; ad esso segue la catechesi ordinata e progressiva secondo l’età per la preparazione, in circa tre o quattro anni, agli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana, sempre se i genitori chiedono che i figli li possano ricevere. Dopo la confermazione, in alcune diocesi, il percorso formativo prosegue con esperienze pastorali come la solenne professione di fede e specifiche iniziative per i gruppi giovanili. In generale, dopo la confermazione, si assiste sia a un brusco calo nella frequenza, imputato talora ad una catechesi poco adatta ai giovani, sia all’abbandono della pratica sacramentale, da attribuire alle scarse motivazioni personali. Ciò conferma il mancato ancoraggio alla fede e la mancanza di accompagnamenti personalizzati. Le variazioni che intercorrono tra le Chiese particolari e le diverse Chiese Orientali Cattoliche, in merito a questi temi, possono essere legate all’ordine in cui i sacramenti vengono amministrati, all’età in cui possono essere ricevuti, oppure all’organizzazione dei programmi catechistici, oltre che a scelte pastorali che dovrebbero incoraggiare ed aprire vie nuove di accompagnamento.

152. Vi è chi sostiene l’impegno a celebrare i sacramenti non ad un’età fissata in anticipo, ma tenendo conto della maturità spirituale dei ragazzi, sebbene tale pratica non di rado susciti difficoltà tra i genitori. In altri casi, i bambini di famiglie costituite irregolarmente ricevono il battesimo dopo tre-quattro anni di catechesi, all’età in cui i loro compagni sono ammessi alla prima comunione, come ad esempio stabilito da alcune Conferenze Episcopali africane. Quando i genitori chiedono il battesimo per i figli, ma si trovano in situazione di convivenza, vi sono Chiese in cui si opta per un accompagnamento personale dei genitori prima di amministrare il sacramento ai piccoli, con istruzioni che li guidano a riaccostarsi ai sacramenti, fino alla celebrazione del matrimonio. Solo dopo alcuni anni anche i figli riceveranno il battesimo. Questa prassi è attestata in alcuni Paesi africani e arabi. In altri Paesi il rigorismo pastorale circa il livello morale della vita dei genitori comporterebbe il rischio di negare ingiustamente i sacramenti ai bambini e fare discriminazione ingiusta tra diverse situazioni moralmente inaccettabili (punire per esempio i bambini per l’invalidità del matrimonio dei genitori, ma non prendere in considerazione la situazione di quelli che vivono di delinquenza e di sfruttamento). Sono pochi i casi in cui si fa riferimento al catecumenato per i bambini.

Alcune difficoltà specifiche

153. Le difficoltà che si rilevano a proposito della pratica sacramentale sollevano l’attenzione su aspetti delicati e nodi problematici per la prassi delle Chiese particolari. In relazione al sacramento del battesimo si denuncia, per esempio, l’atteggiamento di tolleranza con cui, a volte, viene amministrato ai figli di genitori in situazioni irregolari, senza percorsi formativi. Sullo stesso tema, si registrano casi in cui è stato rifiutato il percorso di iniziazione cristiana, perché uno dei due genitori era in situazione irregolare. Compare più volte, nelle risposte, il riferimento al forte disagio di genitori per non poter accedere al sacramento della penitenza e dell’Eucaristia, mentre i bambini sono invitati a partecipare ai sacramenti. Tale disagio è vissuto in proporzione alla comprensione o meno del senso della non ammissione, percepito solo in termini negativi, oppure all’interno di un possibile percorso di guarigione.

Alcune indicazioni pastorali

154. Appare sempre più necessaria una pastorale sensibile, guidata dal rispetto di queste situazioni irregolari, capace di offrire un fattivo sostegno all’educazione dei figli. Si avverte la necessità di un accompagnamento migliore, permanente e più incisivo verso i genitori che vivono queste situazioni. Poiché è alto il numero di quanti si riaffacciano alla fede in occasione della preparazione ai sacramenti dei figli, bisognerebbe pensare a livello locale ad opportuni cammini di riscoperta e di approfondimento della fede, che richiederebbero un’adeguata preparazione e una conveniente azione pastorale. Una segnalazione significativa è quella circa la ricomprensione del valore e del ruolo che assumono il padrino o la madrina nel cammino di fede dei bambini e dei ragazzi. I suggerimenti che provengono su questo tema spaziano dalla necessità di ripensare ai criteri per la loro scelta, resa sempre più complessa dal crescente numero di persone in situazioni irregolari, alla necessità di incentivare o rendere attiva la catechesi ai genitori e ai padrini e alle madrine, considerando l’alta percentuale di quanti non hanno neppure consapevolezza del significato del sacramento. Un accompagnamento pastorale specifico dovrà essere dedicato ai matrimoni misti e di disparità di culto, che spesso incontrano difficoltà rilevanti nell’educazione religiosa dei figli.

155. Ci si chiede, da parte delle Conferenze Episcopali, se non sia possibile avviare in ogni comunità cristiana coppie di sposi che possano seguire e sostenere il percorso di crescita delle persone interessate in maniera autentica, come madrine e padrini idonei. Nelle zone in cui i catechisti svolgono un ruolo importante e delicato, si suggerisce che vengano formati con più impegno e che siano scelti con maggior discernimento, giacché destano divisioni e perplessità i casi di catechisti che vivono in situazioni di irregolarità matrimoniale. Si rileva che la Chiesa dovrebbe prendere in considerazione maggiormente la qualità dell’offerta catechistica, e si chiede una formazione migliore ai catechisti, perché siano testimoni dalla vita credibile. Si fa notare la necessità di una più profonda necessità della preparazione ai sacramenti mediante l’evangelizzazione delle persone: occorrerebbe lavorare di più per una iniziazione alla fede e alla vita. Si chiede che sia garantita una pastorale appropriata ai genitori compresi nella fascia che va dal battesimo alla prima comunione del figlio. Si propone di organizzare, a livello di decanati-vicariati, degli incontri per chi vive o si trova ad affrontare problematiche familiari, ed insieme è chiamato ad educare alla fede i figli.

156. Le scuole cattoliche hanno una grande responsabilità verso questi bambini, ragazzi, giovani, figli di coppie in situazioni irregolari, che sono ormai presenti in numero elevato in esse. Al riguardo, la comunità educativa scolastica dovrebbe sempre più supplire al ruolo familiare creando un’atmosfera accogliente, capace di mostrare il volto di Dio. Si auspica, comunque, che la preparazione ai sacramenti si realizzi mediante una effettiva collaborazione tra la parrocchia e la scuola cattolica, per rafforzare il senso di appartenenza alla comunità. Si chiede che possano essere incentivati a tutti i livelli ecclesiali i cammini di educazione e formazione all’amore, all’affettività e alla sessualità per i bambini, i ragazzi e i giovani. La proposta di nuovi modelli di santità coniugale potrebbe favorire la crescita delle persone all’interno di un tessuto familiare valido, nelle sue trame di protezione, di educazione e d’amore.

157. Nei casi di alcune delle situazioni difficili, ad esempio di coppie di rifugiati o di migranti, la Chiesa dovrebbe offrire anzitutto un supporto materiale e psicologico, aiutando l’istruzione e la prevenzione degli abusi o sfruttamenti dei minori. Nel caso dei “nomadi”, che in genere chiedono il sacramento del battesimo per i loro figli, le Chiese particolari dovrebbero impegnarsi più intensamente per un accompagnamento spirituale della famiglia, perché possa completarsi l’intero arco di iniziazione cristiana.

CONCLUSIONE

158. L’ampio materiale pervenuto alla Segreteria del Sinodo dei Vescovi è stato organizzato in questo Instrumentum Laboris in modo da favorire il confronto e l’approfondimento previsto durante i lavori della III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi. Certamente, la ricchezza di quanto è contenuto nelle risposte e nelle osservazioni è molto più ampia di quanto è stato qui riportato al fine di offrire un primo punto di riferimento per il dialogo sinodale. I tre grandi ambiti su cui la Chiesa intende sviluppare il dibattito per arrivare ad indicazioni che rispondano alle nuove domande presenti nel popolo di Dio sono, comunque, quelli qui richiamati: il Vangelo della famiglia da proporre nelle circostanze attuali; la pastorale familiare da approfondire di fronte alle nuove sfide; la relazione generativa ed educativa dei genitori nei confronti dei figli.

159. Concludiamo questo itinerario, in cui abbiamo colto gioie e speranze, ma anche incertezze e sofferenze nelle risposte e nelle osservazioni pervenute, tornando alle fonti della fede, della speranza e della carità: ci affidiamo alla Santissima Trinità, mistero di amore assoluto, che si è rivelato in Cristo e che ci è stato partecipato per mezzo dello Spirito Santo. L’amore di Dio risplende in modo peculiare nella famiglia di Nazareth, punto di riferimento sicuro e di conforto di ogni famiglia. In essa rifulge il vero amore a cui tutte le nostre realtà familiari devono guardare, per attingere luce, forza e consolazione. Alla Santa Famiglia di Nazareth vogliamo affidare la III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, con le parole di Papa Francesco:

Preghiera alla Santa Famiglia

Gesù, Maria e Giuseppe, in voi contempliamo lo splendore dell’amore vero, a voi con fiducia ci rivolgiamo.

Santa Famiglia di Nazareth, rendi anche le nostre famiglie luoghi di comunione e cenacoli di preghiera, autentiche scuole del Vangelo e piccole Chiese domestiche.

Santa Famiglia di Nazareth, mai più nelle famiglie si faccia esperienza di violenza, chiusura e divisione: chiunque è stato ferito o scandalizzato conosca presto consolazione e guarigione.

Santa Famiglia di Nazareth, il prossimo Sinodo dei Vescovi possa ridestare in tutti la consapevolezza del carattere sacro e inviolabile della famiglia, la sua bellezza nel progetto di Dio.

Gesù, Maria e Giuseppe, ascoltate, esaudite la nostra supplica.

Amen.

© Copyright 2014 – Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi e Libreria Editrice Vaticana

Domande per la recezione e l’approfondimento della  Relatio Synodi

Domanda previa riferita a tutte le sezioni della Relatio Synodi

La descrizione della realtà della famiglia presente nella Relatio Synodi corrisponde a quanto si rileva nella Chiesa e nella società di oggi? Quali aspetti mancanti si possono integrare?

Prima parte L’ascolto: il contesto e le sfide sulla famiglia

Come indicato nell’introduzione (nn. 1-4), il Sinodo straordinario ha inteso rivolgersi a tutte le famiglie del mondo, volendo partecipare delle loro gioie, fatiche e speranze; alle molte famiglie cristiane fedeli alla loro vocazione, il Sinodo ha poi rivolto uno speciale sguardo riconoscente, incoraggiandole a coinvolgersi più decisamente in questa ora della “Chiesa in uscita”, riscoprendosi come soggetto imprescindibile dell’evangelizzazione, soprattutto nell’alimentare per loro stesse e per le famiglie in difficoltà quel “desiderio di famiglia” che resta sempre vivo e che è a fondamento della convinzione di quanto sia necessario “ripartire dalla famiglia” per annunciare con efficacia il nucleo del Vangelo.

Il rinnovato cammino tracciato dal Sinodo straordinario è inserito nel più ampio contesto ecclesiale indicato dall’esortazione Evangelii Gaudium di Papa Francesco, partendo cioè dalle “periferie esistenziali”, con una pastorale contraddistinta dalla “cultura dell’incontro”, capace di riconoscere l’opera libera del Signore anche fuori dai nostri schemi consueti e di assumere, senza impaccio, quella condizione di “ospedale da campo” che tanto giova all’annuncio della misericordia di Dio. A tali sfide rispondono i numeri della prima parte della Relatio Synodi dove sono esposti gli aspetti che formano il quadro di riferimento più concreto sulla situazione reale delle famiglie dentro il quale proseguire la riflessione.

Le domande che si propongono di seguito, con riferimento espresso agli aspetti della prima parte della Relatio Synodi, intendono facilitare il dovuto realismo nella riflessione dei singoli episcopati, evitando che le loro risposte possano essere fornite secondo schemi e prospettive proprie di una pastorale meramente applicativa della dottrina, che non rispetterebbe le conclusioni dell’Assemblea sinodale straordinaria, e allontanerebbe la loro riflessione dal cammino ormai tracciato.

Il contesto socio-culturale (nn. 5-8)

1. Quali sono le iniziative in corso e quelle in programma rispetto alle sfide che pongono alla famiglia le contraddizioni culturali (cf. nn. 6-7): quelle orientate al risveglio della presenza di Dio nella vita delle famiglie; quelle volte a educare e stabilire solide relazioni interpersonali; quelle tese a favorire politiche sociali ed economiche utili alla famiglia; quelle per alleviare le difficoltà annesse all’attenzione dei bambini, anziani e familiari ammalati; quelle per affrontare il contesto culturale più specifico in cui è coinvolta la Chiesa locale?

2. Quali strumenti di analisi si stanno impiegando, e quali i risultati più rilevanti circa gli aspetti (positivi e non) del cambiamento antropologico culturale?(cf. n.5) Tra i risultati si percepisce la possibilità di trovare elementi comuni nel pluralismo culturale?

3. Oltre all’annuncio e alla denuncia, quali sono le modalità scelte per essere presenti come Chiesa accanto alle famiglie nelle situazioni estreme? (cf. n. 8). Quali le strategie educative per prevenirle? Che cosa si può fare per sostenere e rafforzare le famiglie credenti, fedeli al vincolo?

4. Come l’azione pastorale della Chiesa reagisce alla diffusione del relativismo culturale nella società secolarizzata e al conseguente rigetto da parte di molti del modello di famiglia formato dall’uomo e dalla donna uniti nel vincolo matrimoniale e aperto alla procreazione?

La rilevanza della vita affettiva (nn. 9-10)

5. In che modo, con quali attività sono coinvolte le famiglie cristiane nel testimoniare alle nuove generazioni il progresso nella maturazione affettiva? (cf. nn. 9-10). Come si potrebbe aiutare la formazione dei ministri ordinati rispetto a questi temi? Quali figure di agenti di pastorale specificamente qualificati si sentono come più urgenti?

La sfida per la pastorale (n. 11)

6. In quale proporzione, e attraverso quali mezzi, la pastorale familiare ordinaria è rivolta ai lontani? (cf. n. 11). Quali le linee operative predisposte per suscitare e valorizzare il “desiderio di famiglia” seminato dal Creatore nel cuore di ogni persona, e presente specialmente nei giovani, anche di chi è coinvolto in situazioni di famiglie non corrispondenti alla visione cristiana? Quale l’effettivo riscontro tra di essi della missione loro rivolta? Tra i non battezzati quanto è forte la presenza di matrimoni naturali, anche in relazione al desiderio di famiglia dei giovani?

II Parte Lo sguardo su Cristo: il Vangelo della famiglia

Il Vangelo della famiglia, custodito fedelmente dalla Chiesa nel solco della Rivelazione cristiana scritta e trasmessa, esige di essere annunciato nel mondo odierno con rinnovata gioia e speranza, volgendo costantemente lo sguardo a Gesù Cristo. La vocazione e la missione della famiglia si configurano pienamente nell’ordine della creazione che evolve in quello della redenzione, così sintetizzato dall’auspicio del Concilio: «i coniugi stessi, creati ad immagine del Dio vivente e muniti di un’autentica dignità personale, siano uniti da un uguale mutuo affetto, dallo stesso modo di sentire, da comune santità, così che, seguendo Cristo principio di vita nelle gioie e nei sacrifici della loro vocazione, attraverso il loro amore fedele possano diventare testimoni di quel mistero di amore che il Signore ha rivelato al mondo con la sua morte e la sua risurrezione» (Gaudium et Spes, 52; cf. Catechismo della Chiesa Cattolica 1533-1535).

In questa luce, le domande che scaturiscono dalla Relatio Synodi hanno lo scopo di suscitare risposte fedeli e coraggiose nei Pastori e nel popolo di Dio per un rinnovato annuncio del Vangelo della famiglia.

Lo sguardo su Gesù e la pedagogia divina nella storia della salvezza (nn. 12-14)

Accogliendo l’invito di Papa Francesco, la Chiesa guarda a Cristo nella sua permanente verità ed inesauribile novità, che illumina anche ogni famiglia. «Cristo è il “Vangelo eterno” (Ap 14,6), ed è “lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8), ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità» (Evangelii Gaudium, 11).

7. Lo sguardo rivolto a Cristo apre nuove possibilità. «Infatti, ogni volta che torniamo alla fonte dell’esperienza cristiana si aprono strade nuove e possibilità impensate» (n. 12). Come è utilizzato l’insegnamento della Sacra Scrittura nell’azione pastorale verso le famiglie? In quale misura tale sguardo alimenta una pastorale familiare coraggiosa e fedele?

8. Quali valori del matrimonio e della famiglia vedono realizzati nella loro vita i giovani e i coniugi? E in quale forma? Ci sono valori che possono essere messi in luce? (cf. n. 13) Quali le dimensioni di peccato da evitare e superare?

9. Quale pedagogia umana occorre considerare – in sintonia con la pedagogia divina – per comprendere meglio ciò che è richiesto alla pastorale della Chiesa di fronte alla maturazione della vita di coppia, verso il futuro matrimonio? (cf. n. 13).

10. Che cosa fare per mostrare la grandezza e bellezza del dono dell’indissolubilità, in modo da suscitare il desiderio di viverla e di costruirla sempre di più? (cf. n. 14)

11. In che modo si potrebbe aiutare a capire che la relazione con Dio permette di vincere le fragilità che sono inscritte anche nelle relazioni coniugali? (cf. n. 14). Come testimoniare che la benedizione di Dio accompagna ogni vero matrimonio? Come manifestare che la grazia del sacramento sostiene gli sposi in tutto il cammino della loro vita?

La famiglia nel disegno salvifico di Dio (nn. 15-16)

La vocazione creaturale all’amore tra uomo e donna riceve la sua forma compiuta dall’evento pasquale di Cristo Signore, che si dona senza riserve, rendendo la Chiesa suo mistico Corpo. Il matrimonio cristiano, attingendo alla grazia di Cristo, diviene così la via sulla quale, coloro che vi sono chiamati, camminano verso la perfezione dell’amore, che è la santità.

12. Come si potrebbe far comprendere che il matrimonio cristiano corrisponde alla disposizione originaria di Dio e quindi è un’esperienza di pienezza, tutt’altro che di limite? (cf. n. 13)

13. Come concepire la famiglia quale “Chiesa domestica” (cf. LG 11), soggetto e oggetto dell’azione evangelizzatrice al servizio del Regno di Dio?

14. Come promuovere la coscienza dell’impegno missionario della famiglia?

La famiglia nei documenti della Chiesa (nn. 17-20)

Il magistero ecclesiale deve essere meglio conosciuto dal Popolo di Dio in tutta la sua ricchezza. La spiritualità coniugale si nutre dell’insegnamento costante dei Pastori, che si prendono cura del gregge, e matura grazie all’ascolto incessante della Parola di Dio, dei sacramenti della fede e della carità.

15. La famiglia cristiana vive dinanzi allo sguardo amante del Signore e nel rapporto con Lui cresce come vera comunità di vita e di amore. Come sviluppare la spiritualità della famiglia, e come aiutare le famiglie ad essere luogo di vita nuova in Cristo? (cf. n. 21)

16. Come sviluppare e promuovere iniziative di catechesi che facciano conoscere e aiutino a vivere l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia, favorendo il superamento della distanza possibile fra ciò che è vissuto e ciò che è professato e promuovendo cammini di conversione?

L’indissolubilità del matrimonio e la gioia del vivere insieme (nn. 21-22)

«L’autentico amore coniugale è assunto nell’amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla forza redentiva del Cristo e dalla azione salvifica della Chiesa, perché i coniugi in maniera efficace siano condotti a Dio e siano aiutati e rafforzati nello svolgimento della sublime missione di padre e madre. Per questo motivo i coniugi cristiani sono fortificati e quasi consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato. Ed essi, compiendo con la forza di tale sacramento il loro dovere coniugale e familiare, penetrati dello spirito di Cristo, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione, ed assieme rendono gloria a Dio» (Gaudium et Spes, 48).

17. Quali sono le iniziative per far comprendere il valore del matrimonio indissolubile e fecondo come cammino di piena realizzazione personale? (cf. n. 21)

18. Come proporre la famiglia come luogo per molti aspetti unico per realizzare la gioia degli esseri umani?

19. Il Concilio Vaticano II ha espresso l’apprezzamento per il matrimonio naturale, rinnovando una antica tradizione ecclesiale. In quale misura le pastorali diocesane sanno valorizzare anche questa sapienza dei popoli, come fondamentale per la cultura e la società comune? (cf. n. 22)

Verità e bellezza della famiglia e misericordia verso le famiglie ferite e fragili (nn. 23-28)

Dopo aver considerato la bellezza dei matrimoni riusciti e delle famiglie solide, e aver apprezzato la testimonianza generosa di coloro che sono rimasti fedeli al vincolo pur essendo stati abbandonati dal coniuge, i pastori riuniti in Sinodo si sono chiesti – in modo aperto e coraggioso, non senza preoccupazione e cautela – quale sguardo deve rivolgere la Chiesa ai cattolici che sono uniti solo con vincolo civile, a coloro che ancora convivono e a coloro che dopo un valido matrimonio si sono divorziati e risposati civilmente.

Consapevoli degli evidenti limiti e delle imperfezioni presenti in così diverse situazioni, i Padri hanno assunto positivamente la prospettiva indicata da Papa Francesco, secondo la quale «senza sminuire il valore dell’idea­le evangelico, bisogna accompagnare con mise­ricordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno» (Evangelii Gaudium, 44).

20. Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili? (cf. n. 28)

21. Come possono i fedeli mostrare nei confronti delle persone non ancora giunte alla piena comprensione del dono di amore di Cristo, una attitudine di accoglienza e accompagnamento fiducioso, senza mai rinunciare all’annuncio delle esigenze del Vangelo? (cf. n. 24)

22. Che cosa è possibile fare perché nelle varie forme  di unione – in cui si possono riscontrare valori umani – l’uomo e la donna avvertano il rispetto, la fiducia e l’incoraggiamento a crescere nel bene da parte della Chiesa e siano aiutate a giungere alla pienezza del matrimonio cristiano? (cf. n. 25)

III Parte Il confronto: prospettive pastorali

Nell’approfondire la terza parte della Relatio Synodi, è importante lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il Sinodo Straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di Papa Francesco. Alle Conferenze Episcopali compete di continuare ad approfondirla, coinvolgendo, nella maniera più opportuna, tutte le componenti ecclesiali, concretizzandola nel loro specifico contesto. È necessario far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel Sinodo Straordinario come punto di partenza.

Annunciare il Vangelo della famiglia oggi, nei vari contesti (nn. 29-38)

Alla luce del bisogno di famiglia e allo stesso tempo delle molteplici e complesse sfide, presenti nel nostro mondo, il Sinodo ha sottolineato l’importanza di un rinnovato impegno per un annunzio, franco e significativo, del Vangelo della famiglia.

23. Nella formazione dei presbiteri e degli altri operatori pastorali come viene coltivata la dimensione familiare? vengono coinvolte le stesse famiglie?

24. Si è consapevoli che il rapido evolversi della nostra società esige una costante attenzione al linguaggio nella comunicazione pastorale? Come testimoniare efficacemente la priorità della grazia, in maniera che la vita familiare venga progettata e vissuta quale accoglienza dello Spirito Santo?

25. Nell’annunciare il vangelo della famiglia come si possono creare le condizioni perché ogni famiglia sia come Dio la vuole e venga socialmente riconosciuta nella sua dignità e missione? Quale “conversione pastorale” e quali ulteriori approfondimenti vanno attuati in tale direzione?

26. La collaborazione al servizio della famiglia con le istituzioni sociali e politiche è vista in tutta la sua importanza? Come viene di fatto attuata? Quali i criteri a cui ispirarsi? Quale ruolo possono svolgere in tal senso le associazioni familiari? Come tale collaborazione può essere sostenuta anche dalla denunzia franca dei processi culturali, economici e politici che minano la realtà familiare?

27. Come favorire una relazione fra famiglia – società e politica a vantaggio della famiglia? Come promuovere il sostegno della comunità internazionale e degli Stati alla famiglia?

Guidare i nubendi nel cammino di preparazione al matrimonio (nn. 39-40)

Il Sinodo ha riconosciuto i passi compiuti in questi ultimi anni per favorire un’adeguata preparazione dei giovani al matrimonio. Ha sottolineato però anche la necessità di un maggiore impegno di tutta la comunità cristiana non solo nella preparazione ma anche nei primi anni di vita familiare.

28. Come i percorsi di preparazione al matrimonio vanno proposti in maniera da evidenziare la vocazione e missione della famiglia secondo la fede in Cristo? Sono attuati come offerta di un’autentica esperienza ecclesiale? Come rinnovarli e migliorarli?

29. Come la catechesi di iniziazione cristiana presenta l’apertura alla vocazione e missione della famiglia? Quali passi vengono visti come più urgenti? Come proporre il rapporto tra battesimo – eucaristia e matrimonio? In che modo evidenziare il carattere di catecumenato e di mistagogia che i percorsi di preparazione al matrimonio vengono spesso ad assumere? Come coinvolgere la comunità in questa preparazione?

Accompagnare i primi anni della vita matrimoniale (n. 40)

30. Sia nella preparazione che nell’accompagnamento dei primi anni di vita matrimoniale viene adeguatamente valorizzato l’importante contributo di testimonianza e di sostegno che possono dare famiglie, associazioni e movimenti familiari? Quali esperienze positive possono essere riportate in questo campo?

31. La pastorale di accompagnamento delle coppie nei primi anni di vita familiare – è stato osservato nel dibattito sinodale – ha bisogno di ulteriore sviluppo. Quali le iniziative più significative già realizzate? Quali gli aspetti da incrementare a livello parrocchiale, a livello diocesano o nell’ambito di associazioni e movimenti?

Cura pastorale di coloro che vivono nel matrimonio civile o in convivenze (nn. 41-43)

Nel dibattito sinodale è stata richiamata la diversità di situazioni, dovuta a molteplici fattori culturali ed economici, prassi radicate nella tradizione, difficoltà dei giovani per scelte che impegnano per tutta la vita.

32. Quali criteri per un corretto discernimento pastorale delle singole situazioni vanno considerati alla luce dell’insegnamento della Chiesa, per cui gli elementi costitutivi del matrimonio sono unità, indissolubilità e apertura alla procreazione?

33. La comunità cristiana è in grado di essere pastoralmente coinvolta in queste situazioni? Come aiuta a discernere questi elementi positivi e quelli negativi della vita di persone unite in matrimoni civili in maniera da orientarle e sostenerle nel cammino di crescita e di conversione verso il sacramento del matrimonio? Come aiutare chi vive in nelle  convivenze a decidersi per il matrimonio?

34. In maniera particolare, quali risposte dare alle problematiche poste dal permanere delle forme tradizionali di matrimonio a tappe o combinato tra famiglie?

Curare le famiglie ferite (separati, divorziati non risposati, divorziati risposati, famiglie monoparentali) (nn. 44-54)

Nel dibattito sinodale è stata evidenziata la necessità di una pastorale retta dall’arte dell’accompagnamento, dando «al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che al medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (Evangelii gaudium, 169).

35. La comunità cristiana è pronta a prendersi cura delle famiglie ferite per far sperimentare loro la misericordia del Padre? Come impegnarsi per rimuovere i fattori sociali ed economici che spesso le determinano? Quali passi compiuti e quali da fare per la crescita di questa azione e della consapevolezza missionaria che la sostiene?

36. Come promuovere l’individuazione di linee pastorali condivise a livello di Chiesa particolari? Come sviluppare al riguardo il dialogo tra le diverse Chiese particolari “cum Petro e sub Petro”?

37. Come rendere più accessibili e agili, possibilmente gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità? (n. 48).

38. La pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati necessita di un ulteriore approfondimento, valutando anche la prassi ortodossa e tenendo presente «la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti» (n. 52). Quali le prospettive in cui muoversi? Quali i passi possibili? Quali suggerimenti per ovviare a forme di impedimenti non dovute o non necessarie?

39. La normativa attuale permette di dare risposte valide alle sfide poste dai matrimoni misti e da quelli interconfessionali? Occorre tenere conto di altri elementi?

L’attenzione pastorale verso le persone con tendenza omosessuale (nn. 55-56)

La cura pastorale delle persone con tendenza omosessuale pone oggi nuove sfide, dovute anche alla maniera in cui vengono socialmente proposti i loro diritti.

40. Come la comunità cristiana rivolge la sua attenzione pastorale alle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale? Evitando ogni ingiusta discriminazione, in che modo prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo? Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?

La trasmissione della vita e la sfida della denatalità (nn. 57-59)

La trasmissione della vita è elemento fondamentale della vocazione-missione della famiglia: «I coniugi sappiano di essere cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla; ciò deve essere considerato come missione loro propria» (Gaudium et spes, 50).

41. Quali i passi più significativi che sono stati fatti per annunziare e promuovere efficacemente la apertura alla vita e la bellezza e la dignità umana del diventare madre o padre, alla luce ad esempio della Humanae Vitae del Beato Paolo VI? Come promuovere il dialogo con le scienze e le tecnologie biomediche in maniera che venga rispettata l’ecologia umana del generare?

42. Una maternità/paternità generosa necessita di strutture e strumenti. La comunità cristiana vive un’effettiva solidarietà e sussidiarietà? Come? È coraggiosa nella proposta di soluzioni valide a livello anche socio-politico? Come incoraggiare alla adozione e all’affido quale segno altissimo di generosità feconda? Come promuovere la cura e il rispetto dei fanciulli?

43. Il cristiano vive la maternità/paternità come risposta a una vocazione. Nella catechesi è sufficientemente sottolineata questa vocazione? Quali percorsi formativi vengono proposti perché essa guidi effettivamente le coscienze degli sposi? Si è consapevoli delle gravi conseguenze dei mutamenti demografici?

44. Come la Chiesa combatte la piaga dell’aborto promuovendo un’efficace cultura della vita?

La sfida dell’educazione e il ruolo della famiglia nell’evangelizzazione (nn. 60-61)

45. Svolgere la loro missione educatrice non è sempre agevole per i genitori: trovano solidarietà e sostegno nella comunità cristiana? Quali percorsi formativi vanno suggeriti? Quali passi compiere perché il compito educativo dei genitori venga riconosciuto anche a livello socio-politico?

46. Come promuovere nei genitori e nella famiglia cristiana la coscienza del dovere della trasmissione della fede quale dimensione intrinseca alla stessa identità cristiana.

SINODO DEI VESCOVI Lineamenta DIC. 2014

Aggiornamento del 5 dicembre 2014 Evangelizzazione oggi Testimoniare attraverso la vita Disertare non si può Vivere la varietà La giustizia del pane Aggiornamento del 18 novembre 2014

Fermare questa pazza corsa di distruzione

Omelia del Papa per Ognissanti

Omelia di Papa Francesco per la solennità di Tutti i Santi pronunciata al cimitero del Verano sabato 1 novembre 2014:

Quando nella prima Lettura abbiamo sentito questa voce dell’Angelo che gridò a gran voce ai quattro Angeli ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare e di distruggere tutto: «Non devastate la terra né il mare né le piante» (Ap 7,3) a me è venuta in mente una frase che non è qui, ma è nel cuore di tutti noi: “Gli uomini sono capaci di farlo meglio di voi”. Noi siamo capaci di devastare la terra meglio degli Angeli. E questo lo stiamo facendo, questo lo facciamo: devastare il Creato, devastare la vita, devastare le culture, devastare i valori, devastare la speranza.

E quanto bisogno abbiamo della forza del Signore perché ci sigilli con il suo amore e con la sua forza, per fermare questa pazza corsa di distruzione! Distruzione di quello che Lui ci ha dato, delle cose più belle che Lui ha fatto per noi, perché noi le portassimo avanti, le facessimo crescere, per dare frutti. Quando in sacrestia guardavo le fotografie di 71 anni fa [bombardamento del Verano 19 luglio 1943], ho pensato: “Questo è stato tanto grave, tanto doloroso. Questo è niente in comparazione di quello che accade oggi”.

L’uomo si impadronisce di tutto, si crede Dio, si crede il re. E le guerre: le guerre che continuano, non precisamente a seminare grano di vita, ma a distruggere. È l’industria della distruzione. È un sistema, anche di vita, che quando le cose non si possono sistemare, si scartano: si scartano i bambini, si scartano gli anziani, si scartano i giovani senza lavoro. Questa devastazione ha fatto questa cultura dello scarto: si scartano popoli… Questa è la prima immagine che è venuta a me, quando ho sentito questa Lettura.

La seconda immagine, nella stessa Lettura: questa «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (7,9). I popoli, la gente … Adesso incomincia il freddo: questi poveri che per salvare la vita devono fuggire dalle loro case, dai loro popoli, dai loro villaggi, nel deserto … e vivono in tende, sentono il freddo, senza medicine, affamati, perché il “dio-uomo” si è impadronito del Creato, di tutto quel bello che Dio ha fatto per noi. Ma chi paga la festa? Loro! I piccoli, i poveri, quelli che da persona sono finiti in scarto.

E questo non è storia antica: succede oggi. “Ma, Padre, è lontano …” – Anche qui, in tutte le parti. Succede oggi. Dirò di più: sembra che questa gente, questi bambini affamati, ammalati, sembra che non contino, che siano di un’altra specie, che non siano umani. E questa moltitudine è davanti a Dio e chiede: “Per favore, salvezza! Per favore, pace! Per favore, pane! Per favore, lavoro! Per favore, figli e nonni! Per favore, giovani con la dignità di poter lavorare!”. Fra questi perseguitati, ci sono anche  quelli che sono perseguitati per la fede.

«Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: “Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?” … “Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”» (7 13-14). E oggi, senza esagerare, oggi, nel giorno di Tutti i Santi, vorrei che noi pensassimo a tutti questi, i santi sconosciuti. Peccatori come noi, peggio di noi, ma distrutti. A questa tanta gente che viene dalla grande tribolazione. La maggior parte del mondo è in tribolazione. E il Signore santifica questo popolo, peccatore come noi, ma lo santifica con la tribolazione.

E alla fine, la terza immagine: Dio. La prima, la devastazione; la seconda, le vittime; la terza, Dio. Nella seconda Lettura abbiamo sentito: «Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2): cioè la speranza. E questa è la benedizione del Signore che ancora abbiamo: la speranza. La speranza che Egli abbia pietà del suo popolo, che abbia pietà di questi che sono nella grande tribolazione, che abbia pietà anche dei distruttori, affinché si convertano.

Così, la santità della Chiesa va avanti: con questa gente, con noi che vedremo Dio come Lui è. Quale dev’essere il nostro atteggiamento se vogliamo entrare in questo popolo e camminare verso il Padre, in questo mondo di devastazione, in questo mondo di guerre, in questo mondo di tribolazione? Il nostro atteggiamento, lo abbiamo sentito nel Vangelo, è l’atteggiamento delle Beatitudini. Soltanto quel cammino ci porterà all’incontro con Dio.

Soltanto quel cammino ci salverà dalla distruzione, dalla devastazione della terra, del Creato, della morale, della storia, della famiglia, di tutto. Soltanto quel cammino: ma ci farà passare cose brutte! Ci porterà problemi, persecuzione. Ma soltanto quel cammino ci porterà avanti. E così, questo popolo che tanto soffre oggi per l’egoismo dei devastatori, dei nostri fratelli devastatori, questo popolo va avanti con le Beatitudini, con la speranza di trovare Dio, di trovare a quattr’occhi il Signore, con la speranza di diventare santi, in quel momento dell’incontro definitivo con Lui.

Il Signore ci aiuti e ci dia la grazia di questa speranza, ma anche la grazia del coraggio di uscire da tutto quello che è distruzione, devastazione, relativismo di vita, esclusione degli altri, esclusione dei valori, esclusione di tutto quello che il Signore ci ha dato: esclusione di pace. Ci liberi da questo e ci dia la grazia di camminare con la speranza di trovarci un giorno a quattr’occhi con Lui. E questa speranza, fratelli e sorelle, non delude!

Fermate pazza corsa

L’evangelizzazione, compito di tutto il popolo di Dio

Intervento da ‘I mercoledì della spiritualità’

Continuiamo la nostra lettura di Evangelii Gaudium (= EG), soffermando l’attenzione sui capitoli terzo (nn. 110-175) e quinto (nn. 259-288), i quali offrono indicazioni interessanti sullo “stile” conforme all’evangelo che sono chiamati ad assumere gli evangelizzatori nella Chiesa Popolo di Dio, pastori e fedeli laici, ognuno secondo la vocazione che ha ricevuto. Evidenziamo solo alcune prospettive di fondo.

La Chiesa, Popolo di Dio dai molti volti…

Quando diciamo “Chiesa” e “Popolo di Dio”, si vogliono sottolineare due aspetti della stessa realtà strettamente connessi. Tenerne conto è importante per evitare due visioni riduttive, abbastanza comuni: quella che identifica la Chiesa solamente con la gerarchia e quella che fa della Chiesa una “entità” astratta, o al massimo la riduce alle quattro mura, magari belle, dell’edificio…

Invece quando diciamo “Chiesa” si intendono quelle persone, uomini e donne, pastori e fedeli, che Dio chiama, convoca e raduna (da qui “Ekklesia”=“Chiesa”) in assemblea come comunità, per ascoltare la sua Parola e “spezzare” il pane del Corpo del Signore, perché Dio vuole salvarci non come individui isolati ma come comunità e come popolo (EG 113; LG 9).

Perciò questa stessa comunità non è un “club elitario” o una “grande organizzazione”, ma è il Popolo di Dio (laós), formato da “pietre vive” (1Pt 2,4-10), da persone diverse per sesso, età, temperamento, cultura, mentalità, condizione sociale, condizione della salute fisica e mentale, lavoro, professione; è formato da persone diverse per vocazione, carismi e ministeri; è un popolo geograficamente, culturalmente e storicamente situato in un territorio, in un luogo, in una regione, in un nazione, al nord come al sud, all’est come all’ovest; è un popolo pellegrino in cammino nella storia.

Nella realtà concreta è così che di fatto si presenta a noi in mistero della Chiesa Popolo di Dio. Per questo in EG 111 è detto che la Chiesa è «un popolo in cammino verso Dio», un popolo che «affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale».

E in EG 115 è detto che il Popolo di Dio è un popolo dai molti volti, tanti quanti sono i popoli della Terra dove viene seminato e inculturato il Vangelo (1Pt 1,1-2: «ai fedeli che vivono come stranieri, dispersi/disseminati nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia»); così che il cristianesimo non si mostra con un unico volto e con un unico modello culturale (= stile di vita di un popolo), ma, pur restando fedele al Vangelo e alla autentica tradizione ecclesiale, si mostra con più volti, tanti quanti sono i popoli e le culture (EG 116).

È questa la cattolicità della Chiesa Popolo di Dio che mostra la bellezza del suo «volto pluriforme» (EG 116) e dice che è possibile, nel Signore e nella energia creatrice e creativa dello Spirito, vivere l’unità nella sana diversità e pluralità, perché nella Chiesa Popolo di Dio unità non è “uniformità” ma si coniuga con la “multiforme armonia” (EG 117). Di tutto questo ogni evangelizzatore ne deve tenere conto.

… Soggetto attivo dell’evangelizzazione

La Chiesa, Popolo di Dio dal volto multiforme, è il soggetto dell’evangelizzazione; e all’interno di essa soggetto lo è ogni fedele, non per benevola concessione dei suoi pastori, ma a motivo dei sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia), che fa di ogni cristiano un missionario (EG 111; 120; EG 273: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo»). Per essere missionari credibili si richiede:

– di rimanere discepoli-missionari del Signore (EG 120): ovvero di fare l’esperienza dell’incontro con il Signore e del suo amore che salva: come i primi discepoli in Gv 1,35-41, come la Samaritana (Gv 4,1-42), come l’apostolo Paolo nell’incontro con il Risorto a Damasco (At 9,1-21). Questo comporta di diventare più coscienti che l’evangelizzazione è opera gratuita della misericordia di Dio, il quale ci attrae per unirci a Sé (EG 112) e farci suoi collaboratori (1Cor 3,9);

– di curare la qualità della formazione cristiana, per un permanente cammino di crescita nella fede (Fil 3.12-13), che però sia maturo e non infantile e mediocre, che cioè accresca la consapevolezza che Gesù e la sua Parola danno senso autentico alla vita (EG 121). Sullo sfondo di questi paragrafi sentiamo anche l’eco della pagina biblica di 1Gv 1,1-4, dove è dall’annuncio dell’esperienza dell’incontro con il Signore che nasce la comunità cristiana, fondata nella comunione con la Trinità;

– di considerare la pietà popolare, come “luogo teologico”, cioè come manifestazione dell’azione dello Spirito Santo e della sua multiforme ricchezza nella vita del Popolo di Dio. Compresa così, e discernendo in essa ciò che è veramente espressione della vita teologale dei fedeli e vera spiritualità popolare, ovvero frutto del Vangelo inculturato e riespresso attraverso la particolare forza comunicativa e attrattiva del simbolo, la pietà popolare si mostra essere una via di autentica evangelizzazione, un’autentica azione missionaria del Popolo di Dio, cui prestare attenzione con lo sguardo del Buon Pastore (EG 122-126);

– di valorizzare la forma interpersonale dell’annuncio (vedi 1Gv 1,1-4), quella forma testimoniale quotidiana da persona a persona, accessibile a tutti attraverso il dialogo personale. Purché questo avvenga, da parte dell’evangelizzatore, senza arroganza, ma con rispetto, con gentilezza, con quell’umiltà di chi ha sempre da imparare dalla Parola di Dio e dagli altri (EG 127-128); 

– di promuovere, con sana audacia e creatività, una nuova inculturazione del Vangelo, affinché la predicazione del Vangelo, «espressa con categorie proprie della cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura» (EG 129). Anche da questo punto di vista appare evidente che il soggetto dell’evangelizzazione è un soggetto collettivo: il Popolo di Dio storicamente e culturalmente situato;

– di mettere al servizio della comunità ecclesiale e della sua azione evangelizzatrice i carismi e i ministeri che ognuno (persone, comunità, istituzioni) ha ricevuto dallo Spirito del Signore: i teologi, purché la loro teologia si ponga in dialogo con la cultura, cioè con la vita (EG 132-133); le università, purché il lavoro sia interdisciplinare, integrato e creativo (EG 134); i ministri ordinati (vescovi, presbiteri, diaconi) e tutti coloro che in vario modo sono chiamati al servizio della Parola, purché abbiamo familiarità con la Parola di Dio, la ascoltino, la meditano, la preghino, la contemplino, la studino (EG 135-152), e nello stesso tempo diventino anche ascoltatori contemplativi del Popolo di Dio (EG 154-155; 174-175) e sappiano accompagnare spiritualmente le fasi di crescita delle persone (EG 169-173).

Per una spiritualità dell’evangelizzatore

L’ultimo capitolo di Evangelii Gaudium traccia una spiritualità, uno stile di vita animato dallo Spirito, per ogni evangelizzatore che ama incarnarsi nella vita della gente con le sue incertezze, attese e speranze, gioie e dolori. Una spiritualità che coniughi preghiera e lavoro, cura dell’interiorità e impegno sociale. Per questo l’evangelizzatore (pastore, operatore pastorale, semplice fedele) viene esortato:

– a coltivare quello spazio interiore che ci apre alla contemplazione dell’incontro esperienziale con Gesù e all’ascolto orante del suo Vangelo (EG 264-267): perché è da questo incontro con il Signore che nasce il desiderio di comunicarlo agli altri (vedi 1Gv 1,1-4). Bisogna perciò «recuperare uno spirito contemplativo che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è di meglio da trasmettere agli altri» (EG 264);

– a sentire il piacere spirituale di essere popolo di Dio (1Pt2,10), di rimanere vicini alla vita della gente, perché la missione è «una passione per Gesù» e nel contempo è «una passione per il suo popolo». Bisogna stare in mezzo al popolo, come Gesù: con lo stile del dono, della condivisione, della dedizione, dell’ascolto, del contatto, della relazione, della tenerezza, del rispetto. Gesù non ci vuole come dei “principini”, ma uomini e donne del popolo, che si sentono parte viva del popolo di Dio e lo amano. L’amore per la gente è una forza spirituale, è una esperienza mistica che favorisce l’incontro in pienezza con Dio; anzi, molto di più, che ci aiuta a scoprire aspetti nuovi di Dio, perché in ogni persona, creata ad immagine di Dio, si riflette un raggio della Sua Gloria (EG 268-274);

– a sperimentare la presenza viva ed efficace (non onoraria) del Risorto e del suo Spirito, che ci libera dall’autoreferenzialità e dalle nostre “passioni tristi” (la missione come fosse un progetto aziendale, una organizzazione umanitaria, uno spettacolo per contare il numero dei presenti e riscuotere consensi…), e ci apre al suo modo di operare, di essere fecondi, creativi e generosi. La missione è opera di Dio, del suo Figlio Risorto e del suo Spirito che viene sempre in aiuto alla nostra debolezza (Rm 8,26), perché a Dio non piace “lavorare” da solo ma assieme ai suoi figli (EG 275-280);

– ad intercedere presso il Signore per il cammino umano e di fede degli altri e a ringraziarlo per quanto egli compie nella loro vita, spesso anticipando il nostro operare e il nostro servizio (EG 281-283);

– ad assumere lo stile mariano nell’evangelizzazione (EG 284-288). Come Maria, imparare a “generare Cristo” nella propria esistenza per donarlo agli altri, a relazionarsi con sororità/fraternità, amicizia e tenerezza (= amare l’altro senza possederlo) per umanizzare l’uomo preservandolo dalla sua “animalità feroce” («Maria è colei che sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù»: EG 286), a meditare e contemplare la Parola di Dio e la sua presenza nella storia, nel mondo e nel quotidiano.  

Una Chiesa ‘in uscita’

Intervento da ‘I mercoledì della spiritualità’

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium (= EG) di papa Francesco è il documento programmatico del suo pontificato. Esso esorta tutto il popolo di Dio, pastori e fedeli, ad assumere un determinato “stile” (EG 18; 33; 35) «per una nuova tappa evangelizzatrice» (EG 17), vale a dire un modo di essere, un atteggiamento che renda credibile oggi l’evangelizzatore. Papa Francesco ci traccia così una spiritualità – cioè una vita animata dallo Spirito – valida per la Chiesa tutta e per ogni cristiano che, in quanto tale, è chiamato ad essere evangelizzatore, con la vita e con la parola, nel luogo in cui abita e lavora. L’invito ad “uscire”Il significato dell’“uscita” (EG 20; 21)La gioia di aver riscoperto il Vangelo, cioè Gesù, colui che dona la vita e il senso vero dell’esistenza, spinge la comunità dei credenti e ogni cristiano “ad “uscire”. Per papa Francesco il significato di questa “uscita” è geografico ed esistenziale insieme. È un andare verso l’altro, verso altri soggetti, culture, popoli, verso le periferie geografiche ed esistenziali: ovvero gli impoveriti, gli scartati, i disperati, i falliti.

Ed è anche un uscire da se stessi, un esodo esistenziale, che chiede di abbandonare la propria autoreferenzialità, le proprie comodità, le proprie certezze effimere, le visioni troppo rigide, le strutture pesanti e ingombranti che “ingabbiano” Gesù e il suo Vangelo e non permettono un annuncio autentico, ma soltanto una esposizione dottrinale che non interpella la vita reale.   Si “esce”, ci si mette in “esodo”, quasi nomadi itineranti con Gesù in cammino sulle strade del mondo, per donare a tutti, non una semplice dottrina o un insieme di norme etiche (pure necessarie), ma, molto di più, la “gioia liberante del Vangelo” che ci ha cambiati dentro e ci cambia continuamente.   Si “esce” perché sospinti da Dio e dal suo Spirito, ed inviati da Cristo L’iniziativa di “uscire” non è nostra ma di Dio, perché siamo chiamati ad uscire e a camminare secondo la sua Parola, i suoi criteri, i suoi dinamismi, e non i nostri. E al riguardo il papa ci invita a confrontarci con la S. Scrittura (EG 20-21): con Abramo che accetta di partire verso una nuova terra; con Mosè che è inviato a far uscire il popolo dalla schiavitù per farlo entrare come popolo libero nella terra promessa; con il giovane profeta Geremia che Dio invia a tutto il popolo, il quale gli procurerà molte sofferenze; con i settantadue discepoli inviati da Gesù in sobrietà e senza potere; con Gesù stesso, condotto dallo Spirito ad andare sempre altrove, verso altri villaggi; con la Chiesa nata a Pentecoste, la quale è sospinta dallo Spirito ad inculturarsi in ogni popolo e cultura per annunciare le grandi opere di Dio.   Confrontandosi con le S. Scritture, ogni cristiano e ogni comunità – consapevoli di essere chiamati a questa “uscita” missionaria e consapevoli che la Parola che seminano e annunciano ha una sua efficacia imprevedibile che sovente supera gli schemi umani e i luoghi comuni (EG 22) – devono discernere quale sia il cammino che il Signore chiede loro.   Lo “stile” di una chiesa “in uscita” Per “stile” qui si intende un modo di essere, di agire, di procedere conforme al vangelo che si annuncia; altrimenti non si è evangelizzatori credibili e si dà ad intendere che si annuncia (propaganda?) un’Idea, una Teoria, un Principio Morale, un Prodotto, e non una Persona Vivente, Cristo Gesù, che ci ha cambiato la vita. Per questo Gesù spende molto più tempo con i suoi discepoli per educarli ad uno stile di vita semplice, sobrio, disarmato, senza potere, mite, pacifico, accogliente, paziente, compassionevole, profetico… (cf. ad esempio Lc 9,1-5; 10,1-12), che non ad insegnare loro tutti i contenuti dell’annunzio.   Nell’orizzonte della misericordia È l’orizzonte di senso che qualifica lo “stile” della Chiesa in missione. Da qui in avanti, ora in modo esplicito ora implicito e allusivo, Evangelii Gaudium sovente farà riferimento alla misericordia di Dio. D’altronde, per la fede biblica la misericordia è la qualifica somma della presenza e dell’agire di Dio nella storia degli uomini («Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e compassionevole, lento all’ira e grande nell’amore e nella fedeltà», Es 34,6). La misericordia mostra il volto paterno e materno di Dio che si china sulla storia degli uomini e, per amore, spalanca (“compassione”) il suo “grembo” per accogliere le sue creature con tutti i loro fallimenti e rigenerarle di nuovo, ridando loro una nuova possibilità di riscatto, una ulteriore possibilità di uscita dal fallimento, e così ritornare a vivere e a sperare.   Dio “fa spazio dentro di sé” e, abbassandosi umilmente, apre la sua intimità per accogliere senza preclusioni, pregiudizi e condizioni ogni persona umana, anche quella più infedele, perché vuole rigenerarla al senso vero della vita («Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»: Is 49,15). Il nostro Dio è visceralmente misericordioso! Qui, in fondo, sta tutta la sua felicità, la sua gioia.   Gesù ci ha narrato di Dio misericordioso, del suo volto paterno e materno, attraverso i suoi gesti di misericordia e di compassione, e attraverso le sue parole: si leggano la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37) e le tre parabole della misericordia (Lc 15,1-24). E narrandoci di Dio misericordioso, Gesù ci esorta a diventare misericordiosi come Dio Padre e Madre (Lc 6,36; Mt 5,48): per questo proclama sul Monte delle Beatitudini: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7).   Per uno “stile” misericordioso Se la Chiesa, in obbedienza a Gesù, è chiamata a diventare gioiosamente misericordiosa, come Dio. Chiediamoci, allora: attraverso quali scelte la misericordia diventa stile di vita e non un semplice slogan? Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (nn. 24) esorta la Chiesa tutta, pastori (anche se stesso) e fedeli, in quanto comunità evangelizzatrice, a fare con parresia queste opzioni:   – prendere l’iniziativa, andare incontro, cercare i lontani, per offrire misericordia; – coinvolgersi, entrare in simpatia e in empatia, abbassarsi, inginocchiarsi, accorciare le distanze; – accompagnare con pazienza tutte le fasi e le situazioni della vita dell’umanità; – dare frutti di vita nuova e prendersi cura, affinché la Chiesa, offrendo se stessa, “mettendosi in gioco”, manifesti, attraverso la sua vita, tutta l’energia liberatrice e rinnovatrice della Parola; – festeggiare e celebrare («Rallegratevi con me… »: Lc 15,5) ogni passo avanti nella evangelizzazione e nell’offerta della misericordia di Dio per «rendere il mondo più umano» (GS 40).   Un cammino di conversione pastorale Il discernimento comunitario (EG 25-33) Le suddette opzioni chiedono alla Chiesa un cammino di conversione pastorale. Non la semplice “ordinaria amministrazione”, ma una riforma di se stessa e delle sue strutture: la parrocchia come comunità evangelizzatrice vicina alla gente, così pure le altre istituzioni ecclesiali (comunità religiose, aggregazioni e movimenti ecclesiali), le Chiese locali con i loro vescovi, lo stesso papa con le conferenze episcopali (rivedere la forma di esercizio del primato petrino [esigenza già espressa da Giovanni Paolo II], ridimensionare l’eccessiva centralizzazione, realizzare una vera collegialità e sinodalità). Si tratta di assumere i criteri del discernimento comunitario e della ricerca comunitaria, per ripensare creativamente obiettivi, strutture, stile e metodi attinenti l’evangelizzazione.   L’annuncio del vangelo si deve concentrare sull’essenziale (EG 34-45) Ovvero, tenendo conto della “gerarchia delle verità” (Unitatis Redintegratio, 11), su ciò che è più necessario, bello e attraente, e che ci fa gustare la multiforme e inesauribile ricchezza della Parola, e sperimentare la grandezza della misericordia di Dio. “Appesantire” l’evangelizzazione con eccessivi “precetti aggiuntivi” derivanti dal passato ma che oggi si rivelano non essere più “canali” di trasmissione della vita divina, significa irrigidirsi in una posizione autodifensiva e «trasformare la nostra religione in una schiavitù», quando, invece, «la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera» (EG 43).   La Chiesa, discepola della Parola, che ha sempre bisogno di crescere nella comprensione e interpretazione di essa, non dimentica che la trasmissione della Parola e della sua interpretazione dottrinale «deve situarsi nell’atteggiamento evangelizzatore che risvegli l’adesione del cuore con la vicinanza, l’amore e la testimonianza» (EG 42).   La Chiesa “grembo aperto” di Dio (EG 46-49) Come Dio Padre e Madre ha un “grembo aperto” all’accoglienza di tutti per rigenerare alla vita, così la Chiesa che è Madre: essa è il “grembo aperto di Dio” su questa terra (si ricordi il fonte battesimale a forma di “grembo”), è il segno vivente della misericordia di Dio che accoglie tutti e a tutti propone un cammino di fede e di rinascita in Cristo.   Per questo la Chiesa viene esortata a non essere una “dogana”, ma ad avere le porte aperte – come il Padre nei riguardi del figlio prodigo (EG 46) e come il Buon Samaritano e l’albergatore (EG 49) – per accogliere, consolare, “curare le ferite”, e dare una motivazione solida di riscatto e di speranza a chi ha sperimentato il fallimento e le disgrazie della vita. È questo il segno tangibile della misericordia di Dio capace di umanizzare il mondo e la qualità delle nostre relazioni.

Egidio Palumbo 

Chiamati alla gioia

Intervento da ‘I mercoledì della spiritualità’

Molte pagine di letteratura spirituale sono state scritte per creare una certa diffidenza nei confronti della gioia. Queste pagine a volte hanno tratto ispirazione da una errata interpretazione delle “beatitudini evangeliche” che voleva la beatitudine, la gioia rimandata nell’aldilà, quasi a premio di una vita tribolata in questo mondo. Questa prospettiva si è come cristallizzata in un testo, per altri aspetti molto pregevole, che ha avuto un grande influsso nella formazione spirituale. Mi riferisco alla Imitazione di Cristo che ammonisce: «Tutte le delizie terrene o sono vane o sono turpi» (II,10), e ricorda: «Non si può godere due volte: gioire prima in questo mondo e poi regnare con Cristo» (I,24).

Questo “aut aut” che ripeto, ha pesato nella formazione spirituale di molte generazioni, ha portato al convincimento che la gioia con tutte le sue manifestazioni umane sia esperienza che non si addice a chi intraprende un serio cammino spirituale. Mentre la “gravitas” del portamento e la tristezza sono state considerate atteggiamenti più compatibili con l’ideale cristiano, per cui i modelli proposti abitualmente erano quelli di santi che usavano il cilicio, fuggivano il mondo e si privavano anche dei piaceri leciti.

A volte i cristiani hanno dato l’impressione che il cristianesimo fosse una religione triste, tetra, fatta di pesanti doveri che mortificano la vita: da un parte sembra esserci una èlite trainante “incallita nel bene” e dall’altra un gregge che segue con passo stanco e col respiro asmatico. Evidenzia Papa Francesco: «Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua» (EG, 6).

La vostra gioia sia piena”

Se si pone, però attenzione alla rivelazione biblica ci si rende conto facilmente che questa tradizione si era allontanata dall’orizzonte presente nel dato rivelato. Il Dio della Bibbia, infatti, è un Dio che gioisce delle sue opere (Sal 104,31). Secondo un detto rabbinico famoso, Dio viene sulla terra a cercare una sposa per sé. Dio si sposa con noi e l’immagine della festa sponsale rimane una immagine centrale anche nella predicazione di Gesù (Mt 22,1ss. “È simile il regno dei cieli a un re il quale fece un banchetto di nozze per suo figlio”).

In Gv 3,29 sono riferite le parole del Battista, che gioisce nel sentire la voce dello sposo: Giovanni Battista ha già sentito in sé l’esultanza di Dio che ha trovato la sposa; la gioia di Dio il quale, pur essendo nella pienezza infinita della vita e della gloria, ha voluto unire la sua vita a quella dell’umanità perché «la sua delizia è stare con i figli dell’uomo» (Pr 8,31). È per questo evento che la liturgia della prima chiesa cantava: «Sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta» (Ap 19,7). È il grido di esultanza della sposa ed è l’annuncio del Vangelo: il Regno di Dio è vicino, l’Agnello è venuto a sposarsi.

Nel vangelo di Luca l’annuncio della gioia è annotato di continuo. È la gioia promessa dall’angelo nell’annuncio a Zaccaria (Lc 1,14-15); la gioia di Maria, il cui spirito «esulta in Dio» (1,47); è la gioia annunciata ai pastori (2,10); è la gioia della gente comune là dove si manifesta la potenza della parola di Gesù (13,17); è la gioia dei discepoli che tornano dalla missione (10,17) o che fanno festa all’entrata di Gesù in Gerusalemme (19,37). Ma per Luca c’è un motivo di gioia tutto particolare nella rivelazione dell’amore perdonante di Dio.

Le nozze dell’Agnello sono una grande riconciliazione, un abbraccio amoroso di Dio all’uomo. Questo motivo viene illustrato dallo stupendo trittico delle parabole della misericordia (Lc 15): la pecorella smarrita che il pastore mette sulle sue spalle; la dracma perduta che la donna ritrova e fa festa «con le amiche e vicine»; il figliol prodigo a cui il padre getta le braccia al collo, commosso per il suo ritorno. In tutto il capitolo per nove volte ricorrono espressioni di gioia e di festa. Jeremias dice: «La misericordia di Dio è talmente inconcepibile che la sua gioia nel dare il perdono è la più grande delle sue gioie».

Alla gioia del Padre celeste si unisce quella di Gesù, il quale «esulta nello Spirito Santo» (10,21), perché il Padre ha nascosto i misteri del Regno ai dotti e li ha rivelati ai piccoli (gr. “nepìoi = i senza parola”): è la gioia di Gesù per lo stile e per il modo di agire del padre, che è quello di considerare destinatari della infinita ricchezza del suo segreto coloro che sono “senza parola”, senza diritti; quelli che sono i più poveri di tutti.

Alla gioia del Padre che dona misericordia e a quella del Figlio che ne esulta, fa riscontro quella dell’uomo che si sente gratuitamente rigenerato e restituito alla sua dignità di figlio. Ed è ancora solo Luca a riportare l’incontro pittoresco e vivo di Zaccheo con Gesù. Quest’uomo che «voleva vedere chi fosse Gesù», si vede sopravanzato dall’amore di Gesù, il quale si autoinvita a casa sua, e vi annuncia l’avvenuta salvezza (Lc 19.1-10).

Il tema della gioia è presente anche negli scritti giovannei  e si rivela essenzialmente nel rapporto tra Cristo e i discepoli . «Gesù gioisce per loro (Gv 11,15), parla della sua gioia  da comunicare ai suoi (Gv 15, 11; 17, 13) e della gioia dei suoi  in relazione a se stesso (Gv 14,28; 16,20. 22. 24; 20,20). Per Giovanni, la gioia è un dono talmente prezioso che va chiesta e invocata nella preghiera : «Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora  non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16, 23-24).

L’appello del vangelo

Se questo è l’annuncio evangelico, in questo annuncio è anche contenuto l’atteggiamento che il cristiano deve tenere di fronte ad esso. Per seguire e servire il Signore con gioia occorre prima sentire tutta la preziosità unica di ciò che Gesù ci propone per la vita. L’immagine di Gesù usata in Matteo 13,44-46, conferma questo orizzonte biblico:

«Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 14,44). La stessa logica è ripetuta da Matteo nella parabola seguente della “perla preziosa”. Dice Bruno Maggioni: «Chi agisce così non si sottopone ad un sacrificio, ma fa un affare: un vero e proprio colpo di fortuna che nessuno, che abbia appena un poco di buon senso, si lascerebbe sfuggire».

Il Regno, quindi, è paragonato ad un «tesoro nascosto» e ad una «perla di inestimabile valore»; di fronte ad esso l’agire del discepolo è elementare ed immediato: tutto ciò che possiede lo investe, «pieno di gioia», nell’acquisto di ciò che ha trovato. Per cui il vero discepolo del Regno non dice “ho lasciato, ho venduto, ho rinunciato”, ma dice “ho trovato un tesoro, ho fatto un affare, mi è capitata una fortuna”. Il cuore del discorso di Gesù sta qui: la radicalità del distacco, la totalità del coinvolgimento nel Regno, non sono che la conseguenza di una consapevolezza, quella di poter appartenere ad una realtà unica per la propria vita.

Se egli lascia tutto, è perché è concentrato completamente su un EVENTO, (si tratta di un VOLTO di cui ci si è innamorati) stimato come una fortuna unica; e questa concentrazione ha una sua molla significativa, la gioia; infatti la traduzione letterale dice «per la gioia». La gioia esplode per il ritrovamento del tesoro, ed essa è tale che trasforma completamente anche il sapore della vendita: questa non è più simbolo di un prezzo da pagare, di una fatica da sostenere, di una privazione da imporsi; essa diventa la posta in gioco perché il tesoro diventi nostro.

La gioia, frutto dello Spirito

La riflessione teologica contemporanea sta riscoprendo la piena umanità di Gesù come parte integrante del suo ruolo salvifico, ed evidenzia con interesse le sue capacità di humour, evidenti in certi passi dei Vangeli, e soprattutto mostra interesse per la sua possibile immagine di uomo felice. Gesù esulta e sorride, gioisce delle amicizie, sa stare con gioia a mensa con i giusti e con i peccatori ed è fonte di gioia e di consolazione per tutti quelli che incontra.

Desiderio di Gesù è che il nostro cuore si rallegri e che nessuno possa rapirci la sua gioia (Gv 16,22-23). Il vivere il suo progetto è finalizzato a suscitare e ad alimentare la gioia: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 10s). Paolo evidenzia che la gioia, di cui Gesù ci rende partecipi, è frutto dello Spirito (Gal 5,22), che affiora nella vita dell’uomo come conseguenza del suo dimorare nell’amore trinitario.

Questa gioia, quindi, non è qualcosa di superfluo, ma nasce dalla consapevolezza di questo essere coinvolti nella comunione trinitaria e dal sentirsi continuamente sorretti da questo abbraccio di Dio che mette in piedi, salva e apre sempre nuovi orizzonti. Per cui il profeta può cantare: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda» (Is 9,2).

Suggerisce papa Francesco in Evangelii gaudium (= EG)

«In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1)» (EG, 7).

L’antropologia cristiana, allora, alla luce della Rivelazione, è segnata costitutivamente dalla gioia. Anzi, la gioia, come scrive A. Louf, «è il terreno in cui ogni vita mette radice per essere in grado di esistere. Senza la gioia non potremmo vivere, o meglio non potremmo sopravvivere». L’esortazione apostolica Evangelii gaudium ci incoraggia a percorrere la strada della gioia. Si apre con una constatazione:

«1. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (EG 1). E subito dopo leggiamo l’invito a non sottrarsi a questo incontro vitale:

«Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore». Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. (…) Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti!» (EG 3).

Tenendo conto di questo orizzonte, la vita del cristiano si configura come una condizione gioiosa per cui una esperienza cristiana incapace di affermare il primato della gioia, si troverebbe in contraddizione con se stessa e destinata a lacerare la sua stessa coscienza tra attenzioni dolorose e santificate, e fughe piacevoli ma diffidate. A partire da tale prospettiva, il credente deve proporsi seriamente un progetto educativo alla gioia e alle sue manifestazioni.

Il paradosso della gioia

Frutto del dono libero dell’amore trinitario, che ci raggiunge in Cristo Gesù, la gioia evangelica non è evasione scanzonata o alienante, ma si coniuga con tutto il mistero di Cristo e quindi anche con il mistero della passione e della morte. La gioia cristiana si può vivere, allora, anche nella sofferenza, se si è uniti a colui che ne è la sorgente e la causa: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5, 11s).

Consapevole di questo, Paolo poteva scrivere ai cristiani di Filippi: «Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me»(Fil 2,17s). In sostanza l’esperienza della sofferenza diventa circostanza che consente a Paolo di essere messo in sintonia con il Signore Gesù; e gioire “nel Signore” per lui non è una qualsiasi formula entusiastica, ma è il riconoscimento della presenza del Risorto su ogni vicenda umana.

Dopo Paolo altri credenti, seppure incatenati, sono stati epifania del sorriso di Dio per questo mondo. Di Policarpo viene detto che nel confessare la sua fede davanti al proconsole, prima del martirio, «era pieno di coraggio e di allegrezza e il suo volto splendeva di gioia» (Il martirio di Policarpo, XII, 1)-

Don Tonino Bello, alcuni giorni prima di morire, al termine della Messa Crismale (8 aprile 1993) fattosi portare al centro del presbiterio volle dire al suo popolo: «…Andiamo avanti con grande gioia. Io ho voluto prendere la parola per dirvi che non bisogna avere le lacrime, perché la Pasqua è la Pasqua della speranza, della luce, della gioia e dobbiamo sentirle. Io le sento veramente, perché è così, perché il Signore è risorto, perché Egli è al di sopra di tutte le nostre malattie, le nostre sofferenze, le nostre povertà. E’ al di sopra della morte. Quindi ditelo!» (A. Bello, Ti voglio bene, Luce e vita, Molfetta 1993, p. 56). Ricorda Papa Francesco:

«Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice. In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo» (EG 7).

Chi nella fede fa esperienza che gioia e croce sono compatibili, è uno che si è educato alla logica evangelica del “perdersi per ritrovarsi” e che ha capito che la gioia è come l’amore e quindi è impossibile immaginarla individualmente come un patrimonio di cui essere gelosi. Senza la gioia degli altri, non è possibile avere la gioia. La testimonianza di Gesù, riportata negli Atti: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35), sta determinando la sua vita.

Vivere le gioie del mondo

Se la gioia è l’esperienza che si produce in noi quando otteniamo che si realizzi un desiderio e il desiderio del credente è l’essere con Gesù e vivere nella propria carne il suo mistero che è di gioia certamente, ma anche di sofferenza, questo vuol dire che il discepolo di Gesù deve rinunciare alle gioie umane? Certo, è vero, la gioia autentica si trova a una grande profondità e dobbiamo scavare molto profondo in noi per permetterle di sgorgare; ecco perché ogni grande gioia è anche silenziosa: non può essere espressa, è indicibile, raramente affiora in superficie. Ma è anche vero che la gioia di questo mondo la gioia con connotazione umana non può essere ignorata e che ha la sua importanza, contiene già la gioia futura.

Come si esprimeva Paolo VI nell’enciclica Gaudete in Domino: «La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali» (Enchiridion Vaticanum, V, 1253). E aggiungeva che Gesù stesso, nella sua umanità «ha fatto l’esperienza della nostra gioia. Egli ha manifestamente conosciuto, apprezzato, esaltato tutta una gamma di gioie umane, di quelle gioie semplici e quotidiane, alla portata di tutti. La profondità della sua vita interiore non ha attenuato il realismo del suo sguardo, né la sua sensibilità» (EV,V,1262). Aggiungeva, ancora, Gesù «ha accolto e provato le gioie affettive e spirituali, come un dono di Dio» (Loc. cit.)

Se gioia, godimento dell’amicizia, della natura, sorriso, sono valori umani che Gesù non ha rinnegato, ma che ha vissuto intensamente ponendo accanto ad essi come unico criterio di fruizione, per togliere ogni pericolo di autoinganno, il primato dell’amore e della condivisione; allora bisogna sottolineare che non è umano né cristiano rinunciare alle gioie create e volute da Dio, diffidare e astenersi dai valori della vita e della terra. Dio ha voluto che il suo servizio avvenisse nell’umano, sulla terra e che avesse come contenuto un autentico rapporto con gli uomini e con le cose, allora bisogna educarsi a saper convivere con le nostre gioie semplici e quotidiane e vigilare sempre perché esse non diventino idolo ma si ricevano dalle mani di Gesù e siano vissute nel regime dell’amore.

La gioia della relazione

Una di queste gioie semplici e quotidiane è certamente quella che deriva da una relazione realizzata. La gioia, infatti, perché frutto di un dono ricevuto, ma anche offerto, dice relazione, anzi è esperienza che si produce nell’uomo quando ottiene che si realizzi una relazione desiderata. Una relazione non solo con Dio, ma anche con le creature e con il creato. «L’uomo prova la gioia, ci ricorda, ancora, Paolo VI quando si trova in armonia con la natura, e soprattutto nell’incontro, nella partecipazione nella comunione con gli altri» (Enchiridium Vaticanum, V, 1248.).

E Gesù prega perché questa comunione si realizzi tra i suoi discepoli:«Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi»(Gv 17,11). E subito dopo aggiunge:«Perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia»(Gv 17,13). La relazione ha certamente diversa densità e si esprime quindi con manifestazioni eterogenee, ma se è vera essa va assunta sia quando si esprime nella semplice convenire per un banchetto di umana comunione, o per giocare o per far   festa assieme, sia quando il rapporto si fa più denso nella realtà familiare e nell’amicizia profonda.

Tra gli amici

Una relazione fonte di gioia è quella tra amici. «Chi trova un amico, trova un tesoro» (Sir 6,14), ci ricorda la sapienza biblica. L’amicizia è qualcosa di più del semplice stare insieme. Essa è per sua natura gratuita: nasce dove non si è piantato, cresce senza bisogno di giuramento o di legge. Improvvisa, inattesa spunta nell’intimità spirituale tra due persone e quando questo avviene si coglie l’essere dell’altra persona e nel mistero dell’altro è come se si percepisse in un riflesso debole ma reale, l’invisibile. «Cogliere l’infinito nel finito: ecco l’essenza dell’amicizia»1.

Quando questo avviene, quando si verifica un’amicizia trasparente, limpida, non accaparratrice, tutti i sensi vibrano ed esplode la gioia: «Un amico fedele è un balsamo di vita»(Sir 6,16), ci consola sempre la sapienza biblica; ed è dono di Dio: «lo troveranno quanti temono il Signore» (Sir 6,16). Nell’amicizia la provvidenza di Dio si presenta come dono che si concentra sul volto dell’amico.

Gesù ha vissuto amicizie profonde: con Lazzaro, con Marta e Maria e con loro ha pianto e ha gioito (Gv 11,5.11). Sulla scia di Gesù, nella tradizione cristiana sono presenti testimoni che hanno tratto consolazione e gioia da un autentico rapporto amicale. Tra questi, mi piace ricordare Benedetta Bianchi Porro, creatura, vicina a noi nel tempo e nel sentire. Essa, sebbene aggredita da una grave malattia: sorda, totalmente paralizzata, priva di ogni facoltà sensitiva e alla fine anche cieca ha saputo farsi amica sollecita verso chi a lei si avvicinava.

E, a sua volta, nell’affetto degli amici ha saputo cogliere una presenza che le ha consentito di vivere intensamente. All’amica Franci, scrive:«Vorrei tanto ringraziarti della tua lettera, che mi è giunta proprio quando mi sembrava di boccheggiare e sentivo la speranza sbiadire per dar posto in me ad un infinito senso di dolore e di angoscia. Poi ho avuto la gioia di farmi trasmettere le tue parole e mi è sembrato per un attimo di essere composta di vetro, e che tu scrivendomi vedessi dentro di me, nell’anima. Ho sentito che l’aiuto di Dio, tramite tuo, mi veniva incontro e mi dava una gioia più grande di quanto tu possa immaginare»2.

Benedetta ha sperimentato che Dio dona il pane che rende forti attraverso il gesto degli amici, e dalla sua estrema povertà non si è vergognata di chiedere questo pane. Certamente l’amicizia infrange i limiti del proprio io, e perciò è anche causa di dolore. Ma solo chi entra nel rischio dell’amicizia, chi non si ripiega su se stesso, ma in modo umile e con perseveranza quotidiana, passando anche attraverso tappe dolorose, va incontro all’altro in modo gratuito e contemplativo, sperimenta quanto sia gioioso «camminare in festa», assieme all’altro «verso la casa di Dio». (Sal 55, 15).

Per concludere

L’esemplificazione, ovviamente, non esaurisce le numerose gioie legate alle varie relazioni umane. Ma intenzione di questa riflessione non era questo, ma quello di evidenziare che la gioia non è un lusso nella vita umana, ma una vocazione nella quale Dio stesso ci coinvolge. La sorgente della gioia cristiana, infatti, è certamente la comunione con Dio, ma è motivo di gioia anche tutto ciò che è uscito dal cuore di Dio. Le persone, la bellezza della natura, le cose sono tutte motivo di gioia perché esse sono come orme del passaggio di Dio. È importante, allora, per il credente sapere che il gioire nel relazionarsi con le creature e con il creato non è un male, anzi è esperienza che fa crescere in umanità se la relazione è ispirata da amore gratuito.

Mi piace concludere con l’esortazione di Papa Francesco: «…un evangelizzatore non dovrebbe avere costantemente una faccia da funerale. Recuperiamo e accresciamo il fervore, “la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime […] Possa il mondo del nostro tempo – che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza – ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo” (EN 80)»(EG 10).

 

Alberto Neglia

Evangelizzazione oggi     Aggiornamento dell’1 novembre 2014

Ognissanti vs Halloween?

Per una risoluzione del conflitto Noi cristiani, a volte, ci lasciamo scivolare addosso questioni fondamentali per la nostra fede, o restiamo indifferenti davanti a provvedimenti profondamente offensivi­ […], per poi lasciarci letteralmente risucchia­re da questioni, al con­fronto, assolutamente secondarie.

Mi riferisco a quel pullulare su web e social network, in questi ultimi giorni, di link ed iniziative “Halloween sì-Halloween no”: una semplice querelle che – in pochi giorni – ha assunto proporzioni tali da sembrare una vera bat­taglia ideologica che, come tutte le altre, non è mai foriera di verità.

La questione “Halloween sì-Halloween no”, a mio parere, è una di quelle questioni che andrebbe affrontata risco­prendo una preziosa qualità – purtroppo – diffusamente atrofizzata: il buon senso, direi, per non scomodare una fa­coltà più articolata quale il senso comune. Mi spiego.

Credo che il buon senso, se debitamente esercitato, basterebbe per capire che – se la festa di Halloween è una sem­plice festa commerciale – non dovrebbe impegnare le nostre facoltà intellettive, più di San Valentino o del Carne­vale, per decidere quanta considerazione meriti; allo stesso tempo, se la festa di Halloween è – secondo alcuni – l’anticamera per feste sataniche o veri esercizi di stregoneria, le stesse zucche vuote dedite a tali pratiche ­– ­molto probabilmente­ – le compirebbero anche se, in queste ore, nelle vetrine non ci fossero esposte zucche finte.

Il buon senso, soprattutto, dovrebbe suggerirci che se i cristiani non celebrano la festa di Ognissanti come dovreb­bero, e non rendono memoria ai loro morti come meriterebbero, la colpa non è certo di Halloween. Sempre il buon senso, poi, indurrebbe a chiedere ai genitori – che quest’anno sentono di più la minaccia di Halloween, per la forza con la quale evocherebbe simboli di morte e paura – quanto ugualmente vigilino sulle letture o i film che guardano i propri figli.

Vogliamo credere, forse, che tutti i figli dei buon cristiani non leggano Harry Potter o non siano andati al cinema a vedere tutti i film della serie, accompagnati dai genitori? E la befana, a questo punto, non è una strega? E i bambini cristiani, la notte di Natale, non aspettano anche i “doni portati da Gesù Bambino”?

Il buon senso, sostanzialmente, porterebbe a pensare che un bambino e un adulto, se conoscono il valore ed il signi­ficato della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei morti, possono benissimo partecipare ad una festa gio­cosa che non ha altro valore se non quello della aggregazione e del rito della festa, necessario di per sé all’uomo.

Ugualmente, un bambino o un adulto che partecipino ad Halloween – senza conoscere il significato della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei morti – sono un bambino ed un adulto che sfortunatamente non vivono la dimensione del sacro e della fede cristiana, ma non è detto che, per questo, inevitabilmente cadranno in sette satani­che o compiranno riti pagani.

In sintesi, il buon senso ci dice che la festa di Halloween non può e non deve assolutamente acquisire un valore al­ternativo, tantomeno sostitutivo, alla festa di Ognissanti e alla Commemorazione dei morti perchè è, e deve restare, una festa commerciale, pericolosa tanto quanto le altre feste commerciali.

Ma è vero anche il contrario e, cioè, che la festa di Ognissanti e la Commemorazione dei morti non devono diventa­re un valore e un patrimonio della fede e della tradizione cristiana, rivalutandole come alternativa o “contrappunto” alla festa di Halloween; così facendo, infatti, resterà invariato il senso di Halloween, e si finirà per svilire quello della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei morti che hanno un valore in sé e per sé.

Se una delle grandi sfide del Magistero della Chiesa, e soprattutto del pontificato di Benedetto XVI, è proprio il dialogo con il mondo dei non credenti e dei neopagani del terzo millennio, non facciamo perfino di Halloween un’occasione per lanciare invettive e suscitare polemiche con gli stessi: impariamo ad affermare la nostra identità cristiana in maniera forte e senza compromessi, non per “contrappunto”– demonizzando quanti credono in altro – ma facendo risuonare la “musica” propria della nostra fede.

 Andiamo a Messa il giorno di Ognissanti e commemoriamo i nostri morti come se partecipassimo ad una festa, la festa con cui celebriamo chi ha saputo vivere il Vangelo e chi già vive nella luce del Padre e del Figlio che ha vinto la morte. E le zucche rimarranno zucche.

Claudia Mancini

(articolo tratto da www.laporzione.it)

Commenti al Vangelo

Commemorazione dei morti

Anno A

Beatitudini: Dio regala vita a chi produce amore

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli ope­ratori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Le Beatitudini, che Gandhi chiamava «le parole più alte che l’umanità abbia ascoltato», fanno da collante tra le due feste dei santi e dei defunti. La liturgia propone il Vangelo delle Beatitudini come luce che non raggiunge solo i mi­gliori tra noi, i santi, ma si posa su tutti i fratelli che sono andati avanti. Una luce in cui siamo dentro tutti: poveri, sognatori, ingenui, i piangenti e i feriti, i ricomincianti. Quando le ascoltiamo in chiesa ci sembrano possibili e per­fino belle, poi usciamo, e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, stravolgente e contromano che si possa pensare.

Ma se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore. E possono cambiare il mondo. Ti cambiano sulla mi­sura di Dio. Dio non è imparziale, ha un debole per i deboli, incomincia dagli ultimi, dalle periferie della Storia, per cambiare il mondo, perché non avanzi per le vittorie dei più forti, ma per semine di giustizia e per raccolti di pace.

Chi è custode di speranza per il cammino della terra? Gli uomini più ricchi, i personaggi di successo o non invece gli affamati di giustizia per sé e per gli altri? I lottatori che hanno passione, ma senza violenza? Chi regala sogni al cuore? Chi è più armato, più forte e scaltro? o non invece il tessitore segreto della pace, il non violento, chi ha gli occhi limpidi e il cuore bambino e senza inganno?

Le Beatitudini sono il cuore del Vangelo e al cuore del vangelo c’è un Dio che si prende cura della gioia dell’uomo. Non un elenco di ordini o precetti ma la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa cari­co della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità. Non solo, ma sono beati anche quelli che non hanno compiuto azioni speciali, i poveri, i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza.

Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altro mondo! Beati, perché c’è più Dio in voi. E quindi più speranza, ed è solo la speranza che crea storia. Beati quelli che piangono… e non vuol dire: felici quando state male! Ma: In piedi voi che piangete, coraggio, in cammino, Dio sta dalla vostra parte e cammina con voi, for­za della vostra forza!

Beati i misericordiosi… Loro ci mostrano che i giorni sconfinano nell’eterno, loro che troveranno per sé ciò che hanno regalato alla vita d’altri: troveranno misericordia, bagaglio di terra per il viaggio di cielo, equipaggiamento per il lungo esodo verso il cuore di Dio. A ricordarci che «la nostra morte è la parte della vita che dà sull’altrove. Quell’altrove che sconfina in Dio»(Rilke).

 (Letture: Sapienza 3,1-9; Salmo 41; Apocalisse 21,1-5.6-7; Matteo 5,1-12)

  Ermes Ronchi 

(tratto dawww.avvenire.it)

Di seguito il commento di Enzo Bianchi.

Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paio­no prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti del­le nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.

Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristia­nizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte.

Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli.

Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per vi­sitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolger­lo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre.

Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno tra­smesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano. Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazio­ne della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti.

La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui re­spinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tri­stezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.).

Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è co­lui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo re­spinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.

La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

È in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.

La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come commu­nio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

(tratto da www.monasterodibose.it)

Approfondiamo e riflettiamo 02 novembre 2014     Aggiornamento del 30 ottobre 2014

Le parole di Papa Francesco

L’evoluzione nella natura non contrasta con la nozione di Creazione

Discorso del Papa alla Pontificia Accademia delle Scienze

Discorso di Papa Francesco in occasione dell’inaugurazione di un busto in onore di Papa Benedetto XVI (Casina Pio IV, 28 ottobre 2014):

  

 Signori Cardinali, Cari Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, Illustri Signore e Signori!

Mentre cadeva il velo dal busto, che gli Accademici hanno voluto nella sede della Pontificia Accademia delle Scienze in segno di riconoscimento e gratitudine, un’emozione gioiosa si è fatta viva nella mia anima. Questo busto di Benedetto XVI rievoca agli occhi di tutti la persona e il volto del caro Papa Ratzinger. Rievoca anche il suo spirito: quello dei suoi insegnamenti, dei suoi esempi, delle sue opere, della sua devozione alla Chiesa, della sua attuale vita “monastica”.

Questo spirito, lungi dallo sgretolarsi con l’andare del tempo, apparirà di generazione in generazione sempre più grande e potente. Benedetto XVI: un grande Papa. Grande per la forza e penetrazione della sua intelligenza, grande per il suo rilevante contributo alla teologia, grande per il suo amore nei confronti della Chiesa e degli esseri umani, grande per la sua virtù e la sua religiosità. Come voi ben sapete, il suo amore per la verità non si limita alla teologia e alla filosofia, ma si apre alle scienze.

Il suo amore per la scienza si riversa nella sollecitudine per gli scienziati, senza distinzione di razza, nazionalità, civiltà, religione; sollecitudine per l’Accademia, da quando san Giovanni Paolo II lo nominò membro. Egli ha saputo onorare l’Accademia con la sua presenza e con la sua parola, e ha nominato molti dei suoi membri, compreso l’attuale Presidente Werner Arber. Benedetto XVI invitò, per la prima volta, un Presidente di questa Accademia a partecipare al Sinodo sulla nuova evangelizzazione, consapevole dell’importanza della scienza nella cultura moderna.

Certo di lui non si potrà mai dire che lo studio e la scienza abbiano inaridito la sua persona e il suo amore nei confronti di Dio e del prossimo, ma al contrario, che la scienza, la saggezza e la preghiera hanno dilatato il suo cuore e il suo spirito. Ringraziamo Dio per il dono che ha fatto alla Chiesa e al mondo con l’esistenza e il pontificato di Papa Benedetto.

Ringrazio tutti coloro che, generosamente, hanno reso possibile quest’opera e questo atto, in modo particolare l’autore del busto, lo scultore Fernando Delia, la famiglia Tua, e tutti gli Accademici. Desidero ringraziare tutti voi che siete qui presenti ad onorare questo grande Papa. Alla conclusione della vostra Sessione plenaria, cari Accademici, sono felice di esprimere la mia profonda stima e il mio caloroso incoraggiamento a portare avanti il progresso scientifico e il miglioramento delle condizioni di vita della gente, specialmente dei più poveri.

State affrontando il tema altamente complesso dell’evoluzione del concetto di natura. Non entrerò affatto, lo capite bene, nella complessità scientifica di questa importante e decisiva questione. Voglio solo sottolineare che Dio e Cristo camminano con noi e sono presenti anche nella natura, come ha affermato l’apostolo Paolo nel discorso all’Areopago: «In Dio infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). Quando leggiamo nella Genesi il racconto della Creazione rischiamo di immaginare che Dio sia stato un mago, con tanto di bacchetta magica in grado di fare tutte le cose. Ma non è così.

Egli ha creato gli esseri e li ha lasciati sviluppare secondo le leggi interne che Lui ha dato ad ognuno, perché si sviluppassero, perché arrivassero alla propria pienezza. Egli ha dato l’autonomia agli esseri dell’universo al tempo stesso in cui ha assicurato loro la sua presenza continua, dando l’essere ad ogni realtà. E così la creazione è andata avanti per secoli e secoli, millenni e millenni finché è diventata quella che conosciamo oggi, proprio perché Dio non è un demiurgo o un mago, ma il Creatore che dà l’essere a tutti gli enti.

L’inizio del mondo non è opera del caos che deve a un altro la sua origine, ma deriva direttamente da un Principio supremo che crea per amore. Il Big-Bang, che oggi si pone all’origine del mondo, non contraddice l’intervento creatore divino ma lo esige. L’evoluzione nella natura non contrasta con la nozione di Creazione, perché l’evoluzione presuppone la creazione degli esseri che si evolvono.

Per quanto riguarda l’uomo, invece, vi è un cambiamento e una novità. Quando, al sesto giorno del racconto della Genesi, arriva la creazione dell’uomo, Dio dà all’essere umano un’altra autonomia, un’autonomia diversa da quella della natura, che è la libertà. E dice all’uomo di dare il nome a tutte le cose e di andare avanti nel corso della storia. Lo rende responsabile della creazione, anche perché domini il Creato, perché lo sviluppi e così fino alla fine dei tempi.

Quindi allo scienziato, e soprattutto allo scienziato cristiano, corrisponde l’atteggiamento di interrogarsi sull’avvenire dell’umanità e della terra, e, da essere libero e responsabile, di concorrere a prepararlo, a preservarlo, a eliminarne i rischi dell’ambiente sia naturale che umano. Ma, allo stesso tempo, lo scienziato dev’essere mosso dalla fiducia che la natura nasconda, nei suoi meccanismi evolutivi, delle potenzialità che spetta all’intelligenza e alla libertà scoprire e attuare per arrivare allo sviluppo che è nel disegno del Creatore.

Allora, per quanto limitata, l’azione dell’uomo partecipa della potenza di Dio ed è in grado di costruire un mondo adatto alla sua duplice vita corporea e spirituale; costruire un mondo umano per tutti gli esseri umani e non per un gruppo o una classe di privilegiati. Questa speranza e fiducia in Dio, Autore della natura, e nella capacità dello spirito umano sono in grado di dare al ricercatore un’energia nuova e una serenità profonda. Ma è anche vero che l’azione dell’uomo, quando la sua libertà diventa autonomia – che non è libertà, ma autonomia – distrugge il creato e l’uomo prende il posto del Creatore. E questo è il grave peccato contro Dio Creatore.

Vi incoraggio a continuare i vostri lavori e a realizzare le felici iniziative teoriche e pratiche a favore degli esseri umani che vi fanno onore. Consegno ora con gioia il collare, che mons. Sánchez Sorondo darà ai nuovi membri. Grazie.

Papa Francesco 141030 L’evoluzione nella natura non contrasta con la nozione di Creazione

Aggiornamento del 30 ottobre 2014

Le parole di Papa Francesco

Terra, casa e lavoro sono diritti sacri

Discorso del Papa ai Movimenti Popolari

Discorso di Papa Francesco ai partecipanti all’incontro mondiale dei Movimenti popolari di martedì 28 ottobre 2014:

  

Buongiorno di nuovo,

sono contento di stare tra voi, inoltre vi faccio una confidenza: è la prima volta che scendo qui [Aula Vecchia del Sinodo], non c’ero mai venuto. Come vi dicevo, provo grande gioia e vi do un caloroso benvenuto.

Grazie per aver accettato questo invito per dibattere i tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo di oggi, voi che vivete sulla vostra pelle la disuguaglianza e l’esclusione. Grazie al Cardinale Turkson per la sua accoglienza, grazie, Eminenza, per il suo lavoro e le sue parole. Questo incontro dei Movimenti Popolari è un segno, un grande segno: siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio. I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa!

Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare.

Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi.

È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari.

Questo nostro incontro non risponde a un’ideologia. Voi non lavorate con idee, lavorate con realtà come quelle che ho menzionato e molte altre che mi avete raccontato. Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che, in generale, si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi esigete, ma senza la vostra presenza, senza andare realmente nelle periferie, le buone proposte e i progetti che spesso ascoltiamo nelle conferenze internazionali restano nel regno dell’idea, è un mio progetto.

Non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività, lo si nega o, peggio ancora, si nascondono affari e ambizioni personali: Gesù le definirebbe ipocrite. Che bello invece quando vediamo in movimento popoli e soprattutto i loro membri più poveri e i giovani. Allora sì, si sente il vento di promessa che ravviva la speranza di un mondo migliore. Che questo vento si trasformi in uragano di speranza. Questo è il mio desiderio.

Questo nostro incontro risponde a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa. Mi soffermo un po’ su ognuno di essi perché li avete scelti come parola d’ordine per questo incontro.

Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali.

L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione.

L’altra dimensione del processo già globale è la fame. Quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile. So che alcuni di voi chiedono una riforma agraria per risolvere alcuni di questi problemi e, lasciatemi dire che in certi paesi, e qui cito il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, “la riforma agraria diventa pertanto, oltre che una necessità politica, un obbligo morale” (CDSC, 300).

Non lo dico solo io, ma sta scritto nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Per favore, continuate a lottare per la dignità della famiglia rurale, per l’acqua, per la vita e affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra.

Secondo, Casa. L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo!

Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”.

È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto.

Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.

Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro!

Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione.

Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà.

Terzo, Lavoro. Non esiste peggiore povertà materiale — mi preme sottolinearlo — di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti lavorativi non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i benefici al di sopra dell’uomo, se il beneficio è economico, al di sopra dell’umanità o al di sopra dell’uomo, sono effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano di per sé come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare.

Oggi al fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione si somma una nuova dimensione, una sfumatura grafica e dura dell’ingiustizia sociale; quelli che non si possono integrare, gli esclusi sono scarti, “eccedenze”. Questa è la cultura dello scarto, e su questo punto vorrei aggiungere qualcosa che non ho qui scritto, ma che mi è venuta in mente ora. Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il denominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori.

E per illustrarlo ricordo qui un insegnamento dell’anno 1200 circa. Un rabbino ebreo spiegava ai suoi fedeli la storia della torre di Babele e allora raccontava come, per costruire quella torre di Babele, bisognava fare un grande sforzo, bisognava fabbricare i mattoni, e per fabbricare i mattoni bisognava fare il fango e portare la paglia, e mescolare il fango con la paglia, poi tagliarlo in quadrati, poi farlo seccare, poi cuocerlo, e quando i mattoni erano cotti e freddi, portarli su per costruire la torre.

Se cadeva un mattone — era costato tanto con tutto quel lavoro —, era quasi una tragedia nazionale. Colui che l’aveva lasciato cadere veniva punito o cacciato, o non so che cosa gli facevano, ma se cadeva un operaio non succedeva nulla. Questo accade quando la persona è al servizio del dio denaro; e lo raccontava un rabbino ebreo nell’anno 1200, spiegando queste cose orribili.

Per quanto riguarda lo scarto dobbiamo anche essere un po’ attenti a quanto accade nella nostra società. Sto ripetendo cose che ho detto e che stanno nella Evangelii gaudium. Oggi si scartano i bambini perché il tasso di natalità in molti paesi della terra è diminuito o si scartano i bambini per mancanza di cibo o perché vengono uccisi prima di nascere; scarto di bambini.

Si scartano gli anziani perché non servono, non producono; né bambini né anziani producono, allora con sistemi più o meno sofisticati li si abbandona lentamente, e ora, poiché in questa crisi occorre recuperare un certo equilibrio, stiamo assistendo a un terzo scarto molto doloroso: lo scarto dei giovani. Milioni di giovani — non dico la cifra perché non la conosco esattamente e quella che ho letto mi sembra un po’ esagerata — milioni di giovani sono scartati dal lavoro, disoccupati.

Nei paesi europei, e queste sì sono statistiche molto chiare, qui in Italia, i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; sapete cosa significa quaranta per cento di giovani, un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio. In un altro paese europeo sta superando il cinquanta per cento, e in quello stesso paese del cinquanta per cento, nel sud è il sessanta per cento. Sono cifre chiare, ossia dello scarto. Scarto di bambini, scarto di anziani, che non producono, e dobbiamo sacrificare una generazione di giovani, scarto di giovani, per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro e non la persona umana.

Nonostante questa cultura dello scarto, questa cultura delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato ma voi con la vostra abilità artigianale, che vi ha dato Dio, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti e ci state riuscendo… E, lasciatemelo dire, questo, oltre che lavoro, è poesia! Grazie.

Già ora, ogni lavoratore, faccia parte o meno del sistema formale del lavoro stipendiato, ha diritto a una remunerazione degna, alla sicurezza sociale e a una copertura pensionistica. Qui ci sono cartoneros, riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai di imprese recuperate, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni, che sono esclusi dai diritti dei lavoratori, ai quali viene negata la possibilità di avere un sindacato, che non hanno un’entrata adeguata e stabile. Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta.

In questo incontro avete parlato anche di Pace ed Ecologia. È logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta. Sono temi così importanti che i popoli e le loro organizzazioni di base non possono non affrontare. Non possono restare solo nelle mani dei dirigenti politici. Tutti i popoli della terra, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi.

Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!

Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, saccheggiare la natura per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire di più siete voi, gli umili, voi che vivete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte a un disastro naturale.

Fratelli e sorelle: il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con rispetto e gratitudine. Forse sapete che sto preparando un’enciclica sull’Ecologia: siate certi che le vostre preoccupazioni saranno presenti in essa. Ringrazio, approfitto per ringraziare per la lettera che mi hanno fatto pervenire i membri della Vía Campesina, la Federazione dei Cartoneros e tanti altri fratelli a riguardo.

Parliamo di terra, di lavoro, di casa. Parliamo di lavorare per la pace e di prendersi cura della natura. Ma perché allora ci abituiamo a vedere come si distrugge il lavoro dignitoso, si sfrattano tante famiglie, si cacciano i contadini, si fa la guerra e si abusa della natura? Perché in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza! Si è globalizzata l’indifferenza: cosa importa a me di quello che succede agli altri finché difendo ciò che è mio? Perché il mondo si è dimenticato di Dio, che è Padre; è diventato orfano perché ha accantonato Dio.

Alcuni di voi hanno detto: questo sistema non si sopporta più. Dobbiamo cambiarlo, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per raggiungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia.

Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20), e di leggere il passo di Matteo 25. L’ho detto ai giovani a Rio de Janeiro, in queste due cose hanno il programma di azione.

So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità, l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro, una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità.

Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra, tutto si integra. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!

Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Attenzione, non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide, perciò ho detto incontrarsi, e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, ma sì, dobbiamo cercare di camminare insieme. Siamo in questa sala, che è l’aula del Sinodo vecchio, ora ce n’è una nuova, e sinodo vuol dire proprio “camminare insieme”: che questo sia un simbolo del processo che avete iniziato e che state portando avanti!

I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale.

La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore.

i accompagno di cuore in questo cammino. Diciamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro. Cari fratelli e sorelle: continuate con la vostra lotta, fate bene a tutti noi. È come una benedizione di umanità. Vi lascio come ricordo, come regalo e con la mia benedizione, alcuni rosari che hanno fabbricato artigiani, cartoneros e lavoratori dell’economia popolare dell’America Latina.

E accompagnandovi prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio Padre di accompagnarvi e di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di accompagnarvi nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci mantiene in piedi: questa forza è la speranza, la speranza che non delude. Grazie.

Papa Francesco 141030 Terra, casa e lavoro sono diritti sacri

La schiavitù è un reato di lesa umanità

Discorso del Papa sul diritto penale

Discorso di Papa Francesco alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale (Sala dei Papi, giovedì 23 ottobre 2014): Illustri Signori e Signore! Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni. Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico. Introduzione Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale. a) Incitazione alla vendetta Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge. b) Populismo penale In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste. I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni. II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine a) Circa la pena di morte È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta. b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà. c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa. d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età. III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità. a) Sul delitto della tratta delle persone La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM). b) Circa il delitto di corruzione La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.   Conclusione La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana.    Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie. La schiavitù è un reato di lesa umanità

Lavorare per la cultura della solidarietà

Sconfiggere la cultura della crisi

Sarò sempre grato a mia madre, operaia della Lazzaroni di Saronno, di avermi trasmesso la capacità di vivere in una dimensione popolare. Per me, dimensione popolare significa vedere nelle persone che ti stanno attorno uomini e donne in carne e ossa, non figure astratte, persone che stanno dentro la storia, che vivono i problemi quotidiani, che non sono numeri ma ognuno ha una storia e un volto. I problemi si possono risolvere: questo mi diceva mamma Pina e anche di questo le sarò per sempre debitore. Mi scuserete questa parentesi personale, ma per me è il modo migliore per spiegare come noi in Casa della carità a Milano cerchiamo di affrontare le tante difficoltà di chi bussa alla nostra porta, migranti in fuga da paesi in guerra o affamati, poveri senza casa, minori stranieri arrivati in Italia da soli, disoccupati senza soldi per pagare un affitto, persone fragili con problemi di salute mentale: la nostra attenzione è sempre di accompagnarli verso la loro autonomia, convinti, appunto, che i problemi si possono sempre superare. Con fatica, con il tempo, ma si può. La nostra Fondazione è stata voluta dal cardinal Carlo Maria Martini, che ci ha indicato la strada: “Stare nel mezzo”, cioè accettare sempre le sfide che ci sono poste e fare della Casa della carità non un semplice luogo di accoglienza, ma un “laboratorio di cultura e di socialità” che fosse uno “sguardo aperto sulla città”. In dieci anni di vita abbiamo ospitato 1.767 persone di 91 nazionalità diverse. Come in tante case di tante famiglie, abbiamo vissuto momenti difficili e momenti migliori. Mai ci siamo persi d’animo, né quando abbiamo dovuto ospitare, riempiendo persino il nostro grande auditorium, i rom sgomberati da un giorno all’altro dai loro campi né, qualche settimana fa, quando lo stesso auditorium si è riempito di centinaia di profughi dalla Siria, uomini, donne e tanti bambini in fuga dalla guerra. Ovunque vado, mi domandano cos’è per me la crisi di questi anni, come l’abbiamo vissuta alla Casa, come la interpretiamo. La mia risposta è sempre la stessa: è una crisi fondamentalmente culturale. E con questo – lo dico perché molti restano stupiti da questa definizione – non sto sottovalutando l’impatto economico che noi in Casa della carità tocchiamo con mano ogni giorno, non avendo bisogno della statistiche ufficiali per sapere quanto sia cresciuta la disoccupazione e quante siano le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. Al contrario sto dicendo che questa è una crisi scatenata certo dal terremoto economico-finanziario del 2007, ma che ha origini di medio-lungo periodo in quella bolla egoistica e consumistica che ha caratterizzato la cultura e, quindi, la politica e conseguentemente lo stile di vita individuale degli ultimi decenni. Ecco perché rileggere la crisi significa non solo ripensare la società partendo per forza dai bisogni dei più poveri, ma soprattutto iniettare dinamiche di speranza e di positività. Bisogna riscoprire i valori della solidarietà, del dono, della carità. Bisogna recuperare uno stile di vita che io definisco della gratuità: uno stile di vita, per fare due esempi sintetici, che fa sì che chi sceglie di fare politica lo fa per il bene comune e non per il proprio tornaconto personale, che chi si impegna nel mondo dell’associazionismo e del volontariato lo fa con vero spirito di servizio. Bisogna ritrovare una dimensione di vivere comune basata sul coraggio dell’esistere e su una politica della cittadinanza che costruisca legami sociali veri, affronti le sfide esistenziali, avverta le contraddizioni e se ne assuma la responsabilità. Gratuitamente” per noi di Casa della carità significa, uscendo dalla logica del sistema convenzionato, accogliere le persone non perché qualcuno ci paga per farlo, ma perché il nostro obbiettivo è aiutarle in quanto esseri umani. Dare una mano a chi ha bisogno vuol dire, per noi, garantire un letto, un pasto, un cambio di biancheria, una visita medica, un sostegno psicologico, un corso di italiano e una formazione al lavoro. Ma vuol dire anche dare ai nostri ospiti l’accesso a una biblioteca aperta al quartiere, alle scuole della zona, integrate in rete con tante altre realtà. Vuol dire promuovere capacità e stimolare intelligenza di chi, come i ragazzi rom che suonano il violino fin da quando erano bimbi, oggi possono frequentare il Conservatorio e suonare in pubblico insieme ad altri ragazzi dell’Orchestra dei popoli. Questo vuol dire portare all’autonomia le persone, aiutarle a camminare nella vita con le loro gambe. Nel suo libro La via Edgar Morin parla ampiamente dell’educazione alla complessità. Spiega che chi vive la solidarietà è continuamente stimolato a rimettere in gioco le tante culture e le tante capacità che esistono nel mondo. Chi vive la solidarietà non è un buonista, chi vive la solidarietà è in prima fila per ricreare continuamente condizioni di giustizia, chi vive la solidarietà sta dalla parte dei diritti e delle responsabilità. Per questo credo che sia tempo di superare definitivamente l’idea dell’assistenzialismo e del pietismo: oggi c’è bisogno di energia, di capacità culturale, di capacità progettuale. Questa è la sfida. Se vince il vecchio modo di pensare, quello che ciclicamente produce crisi e miseria, finta ricchezza e crisi, che delega agli “addetti alla carità” la soluzione dei problemi più drammatici, saremo costretti a lavorare solo sull’emergenza. Il nostro slogan è trasformare l’emergenza in urgenza rimettendo in gioco tutte le energie vitali che per fortuna esistono. L’ha detto Papa Francesco quando, nel suo primo viaggio a Lampedusa, ha parlato di “globalizzazione” e “indifferenza” ma anche della “capacità di commuoversi” perché, ha aggiunto, «la solidarietà senza cuore non porta a nulla». don Virginio Colmegna  (articolo tratto da la Rivista del Banco Popolare. Per ricevere la versione cartacea de la Rivista scrivere a larivista@bancopopolare.it) Lavorare per la cultura della solidarietà

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Le presenti condizioni generali sono disciplinate dalla legge italiana. Qualsiasi controversia che dovesse insorgere tra le parti in ordine alla validità, interpretazione, esecuzione e risoluzione delle presenti condizioni generali, sarà preventivamente sottoposta al tentativo di mediazione, ai sensi del D.lgs. 28/2010 così come integrato e modificato dal D.M. 180/2010, presso il servizio di Conciliazione della Camera Arbitrale di Vicenza, il cui Regolamento si dichiara di conoscere ed accettare. In caso di esito negativo del tentativo di mediazione, le stesse controversie saranno devolute alla competenza esclusiva del foro di Vicenza.

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